21/02/2013

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21/02/2013

In Gazzetta il DL sulle semplificazioni

Entra in vigore oggi il DL n. 5/2012, meglio conosciuto come DL semplificazioni, per effetto della pubblicazione sulla G.U. n. 33 di ieri (nel S.O. n. 27/2012). Diventano così operative le misure contenute nel Decreto, concepite dal Governo – come si legge nell’introduzione al testo – “al fine di assicurare, nell’attuale eccezionale situazione di crisi internazionale e nel rispetto del principio di equità, una riduzione degli oneri amministrativi per i cittadini e le imprese e la crescita, dando sostegno e impulso al sistema produttivo del Paese”. In particolare, l’art. 45 del DL semplificazioni interviene sull’art. 34 del Codice della privacy (DLgs. 196/2003), sopprimendo la lett. g) del comma 1 e abrogando il comma 1-bis. Da oggi, quindi, non sarà più obbligatoria la tenuta di un DPS aggiornato, e viene meno anche la facoltà di avvalersi di un’autocertificazione sostitutiva o di un DPS semplificato per i soggetti che trattano unicamente dati personali non sensibili e, come soli dati sensibili, trattano quelli dei propri dipendenti e collaboratori, inclusi coniuge e parenti. La tenuta del documento programmatico sulla sicurezza è stata infatti giudicata dall’Esecutivo un adempimento superfluo, e la sua soppressione dovrebbe rispondere all’esigenza di sgravare le imprese dagli obblighi in tema di privacy non strettamente necessari. Punta a favorire le società anche l’art. 37 del DL semplificazioni, che rimanda al 30 giugno 2012 il termine per comunicare l’indirizzo PEC al Registro delle imprese, qualora non si fosse ancora provveduto. Di notevole interesse sono, poi, le modifiche apportate dall’art. 35 del Decreto in commento alla disciplina dei controlli societari nelle srl e del collegio sindacale nelle spa (per una disamina, si veda “Collegi sindacali in carica fino alla scadenza” di oggi). In estrema sintesi, il DL semplificazioni va a ritoccare in primis l’art. 2397, comma 3, del codice civile, su cui peraltro era di recente intervenuta la Legge di stabilità (L. 12 novembre 2011 n. 183). Mentre la precedente versione del terzo comma consentiva alle spa con ricavi o patrimonio netto inferiori a un milione di euro di nominare un sindaco unico, scelto tra i revisori legali, la nuova versione prevede espressamente che il collegio sindacale possa essere sostituito dal sindaco unico, qualora lo statuto non disponga diversamente e vi siano i requisiti per la redazione di un bilancio in forma abbreviata. Lo stesso art. 35 riforma drasticamente anche l’art. 2477 c.c., riguardante i controlli facoltativi nelle srl, stabilendo la possibilità di prevedere nell’atto costitutivo la nomina di un revisore o di un organo di controllo; quest’ultimo, se non disposto diversamente dello statuto, è composto da un unico membro effettivo. Quanto ai controlli obbligatori, non è più prevista la nomina di un sindaco unico, bensì del revisore o dell’organo di controllo (nel caso in cui si opti per la nomina dell’organo di controllo, anche se monocratico, vale la disciplina sul collegio sindacale vigente nelle spa). Il Decreto dovrebbe inoltre semplificare le procedure amministrative tramite SCIA (segnalazione certificata d’inizio attività), prevedendo anche l’adozione di successivi regolamenti per individuare le attività sottoposte a segnalazione certificata (con asseverazioni o senza) o a semplice comunicazione, e le attività che invece si presentano libere. L’obiettivo dei regolamenti dovrebbe quindi essere quello di verificare quali tipologie di autorizzazione conservare e quali, viceversa, vadano eliminate. Una sezione consistente del DL liberalizzazioni è dedicata, poi, alle novità in tema di lavoro. Riguardo al libro unico, l’art. 19 stabilisce che si possa parlare di omessa registrazione soltanto se l’omissione riguarda per intero le scritture, e non i singoli dati non registrati; per infedele registrazione si intende, inoltre, il caso in cui i dati differiscano in qualità o quantità rispetto alla prestazione resa o alle somme erogate. Ulteriori misure riguardano l’astensione anticipata dal lavoro delle lavoratrici in gravidanza (art. 15), i flussi informativi in materia di previdenza e prestazioni sociali agevolate (art. 16), l’assunzione di lavoratori extracomunitari (art. 17) e il collocamento obbligatorio (art. 18). Meritano un breve accenno, in chiusura, alcuni provvedimenti di natura produttiva e sociale, quali la soppressione del vincolo della chiusura domenicale e festiva per le imprese di panificazione (art. 40) e la sperimentazione della carta acquisti (art. 60), ossia la cosiddetta “social card” di cui al DL n. 112/2008, recentemente reintrodotta dal “Milleproroghe”. La sperimentazione coinvolgerà i Comuni con oltre 250mila abitanti: entro 90 giorni, dovranno essere così stabiliti, ad esempio, i nuovi requisiti d’identificazione dei beneficiari e l’ammontare disponibile per ogni carta d’acquisto.
10/02/2012

SRL con capitale di 1€ e costituite senza bisogno del notaio

Nel Decreto sulle liberalizzazioni, approvato dal Consiglio dei Ministri, è prevista anche una norma che consente l’accesso dei giovani alla costituzione di società a responsabilità limitata con un regime agevolato in punto formalità di costituzione e ammontare del capitale sociale. Lo stabilirebbe, in particolare, l’art. 3 della bozza che modificherà il codice civile inserendo una nuova disposizione, l’art. 2463-bis, dopo l’art. 2463 c.c. che regola la costituzione delle srl. La nuova norma è essenzialmente tesa a favorire l’iniziativa imprenditoriale dei più giovani e meno abbienti, ai quali si consente di partecipare a strutture associative mediante l’eliminazione di quei paletti che hanno rappresentato finora, per le società di capitali, un grave ostacolo. La bozza prevede, da un lato, l’introduzione di norme “ad hoc” che caratterizzeranno tale nuova forma societaria e, dall’altro, l’applicazione delle regole tipiche delle srl. Passando alle regole specifiche, una “società semplificata a responsabilità limitata” può essere costituita con contratto o con atto unilaterale. Quindi, spazio anche alle srl semplificate unipersonali, con un socio unico. Possono costituire, però, tali società solo persone fisiche. L’accesso per le srl semplificate – secondo quanto previsto dalla bozza – è limitato a tutti coloro che non hanno ancora compiuto i 35 anni di età alla data della costituzione. Non solo: i requisiti soggettivi dei soci devono sussistere anche durante tutta la durata della società. Quid iuris allora nel caso di raggiungimento dei 35 anni? Nel caso di perdita del requisito di età in capo ad un solo socio, l’assemblea (convocata dagli amministratori senza indugio) può deliberare la trasformazione della società. Diversamente, il socio è escluso di diritto. Nell’ipotesi, invece, di perdita del requisito d’età da parte di tutti i soci, l’unica scelta è fra trasformazione o scioglimento della società ai sensi dell’art. 2484 c.c.. Per quanto riguarda, inoltre, la costituzione della società, niente atto pubblico, basterà una scrittura privata. Scrittura privata anche per il verbale relativo alle modificazioni dell’atto costitutivo deliberate dall’assemblea dei soci e per l’atto di trasferimento delle partecipazioni. Nell’atto costitutivo andranno indicati, in parte, alcuni riferimenti che l’art. 2463 c.c. richiede già per la costituzione delle srl: fra questi, ad esempio, cognome, nome, data, luogo di nascita, domicilio, cittadinanza di ciascun socio, attività che costituisce l’oggetto sociale, quota di partecipazione di ciascun socio, norme relative al funzionamento della società, persone cui è affidata l’amministrazione. Si segnala, però, che nella denominazione sociale dovrà farsi riferimento specificatamente alla “società semplificata a responsabilità limitata”. Inoltre, ai soci basterà fissare un capitale minimo di 1 euro, contro i 10mila euro previsti per la costituzione della srl ordinaria, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Naturalmente, non è esclusa la possibilità di prevedere un capitale sociale superiore. La bozza prevede, poi, precise limitazioni per i conferimenti, che possono essere effettuati solo in denaro: esclusi, dunque, i conferimenti di beni, crediti o servizi. Denominazione e ammontare del capitale, in particolare, andranno richiamati fra l’altro anche negli atti e nella corrispondenza della società. L’atto va depositato per l’iscrizione a cura degli amministratori entro 15 giorni presso il Registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale. La Comunicazione unica è esente da diritti di bollo e di segreteria. L’iscrizione, verificata la sussistenza di tutti i requisiti, dovrà seguire entro i 15 giorni successivi, pena l’ordine d’iscrizione con decreto da parte del giudice del Registro su richiesta degli amministratori. Per la restante parte della disciplina, come anticipato, la bozza rinvia alle disposizioni sulle srl, di cui agli artt. 2462 e ss. in quanto compatibili (ad esempio, l’art. 2467 c.c. in tema di postergazione dei finanziamenti dei soci).
23/01/2012

Elenco «clienti e fornitori» rinviato al 31 gennaio 2012

Ieri, con il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n. 2011/186218 – che ha modificato il precedente documento direttoriale del 16 settembre 2011 – é stata posticipata al 31 gennaio 2012 la data entro cui effettuare la comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, per l’anno 2010, soggette all’obbligo di fatturazione e perfezionate, per un importo non inferiore a 25.000 euro. Nel provvedimento che dispone la proroga, è precisato che è stato necessario rinviare nuovamente la data di scadenza, al fine di consentire l’adozione dei necessari adeguamenti di carattere tecnologico, nonché permettere ai soggetti interessati di superare alcune difficoltà operative legate al nuovo adempimento.
Infatti, poiché la futura comunicazione del 31 gennaio 2012, che interessa operazioni relative all’anno 2010, è stata attuata con il provvedimento del 22 dicembre 2010, il soggetto interessato non era a conoscenza dell’obbligo successivamente introdotto e, conseguentemente, sono emerse oggettive difficoltà per inquadrare le operazioni da segnalare. Nonostante l’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 24/2011, abbia fornito alcuni chiarimenti di carattere generale sulle modalità di adempimento della comunicazione, gli esempi riportati sono spesso di carattere “scolastico” e comunque non sufficienti a colmare gli evidenti ostacoli operativi ed interpretativi. In primo luogo, sarebbe necessario chiarire il trattamento da riservare ad alcune tipologie di contratti stipulati nel corso del 2009 – anno per il quale non vige l’obbligo di comunicazione – che riversano effetti di carattere fiscale anche nel corso del 2010. Si consideri, ad esempio, l’ipotesi di un contratto di fornitura di beni, di importo complessivo sopra la soglia di 25.000 euro il cui acconto, con relativa fattura, sia stato pagato nel corso del 2009 (ad esempio, di 8.000 euro), mentre la consegna della merce ed emissione della fattura a saldo nel 2010 (ad esempio, di 22.000 euro): essendo un’operazione frazionata, non è chiaro se, ai fini della determinazione della soglia, si debba tener conto anche dell’acconto versato nel 2009, nel qual caso sussisterebbe l’obbligo di comunicazione, ovvero se lo stesso non è rilevante in quanto riferito ad una annualità non soggetta a comunicazione. In tale ultima ipotesi, che sembra preferibile, l’operazione non deve essere comunicata in quanto l’importo di “competenza” del 2010 non supera la soglia minima di 25.000 euro.
22/12/2011

Scritture contabili per gli ENC che svolgono attività d’impresa

Con la risoluzione n. 126 del 16 dicembre 2011, l’Agenzia delle Entrate risponde in merito alle associazioni, in quanto enti non commerciali, relativamente a: tenere una contabilità a fini fiscali (IRES e IVA) anche se non esercitano attività commerciali; redigere un Rendiconto annuale economico e finanziario se non esercitano attività commerciali e se non effettuano raccolte pubbliche di fondi di cui all’art. 20, comma 2 del DPR n. 600/73. L’Amministrazione finanziaria, nelle sue osservazioni, non entra nel merito della qualificazione soggettiva tributaria mancando a tal fine quegli elementi di verifica necessari per le opportune valutazioni in termini formali (requisiti statutari) e sostanziali (tipologia e modalità di svolgimento dell’attività). Le osservazioni dell’Agenzia, pertanto, si basano sul presupposto che si tratti di enti qualificati “non commerciali” che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, rientranti nell’art. 73, comma 1, lett. c) del TUIR. In relazione all’obbligo di tenere una contabilità a fini fiscali (IRES e IVA), la soluzione dell’Agenzia, parzialmente diversa da quella prospettata dall’interpellante, si basa in prevalenza sulla qualifica dell’attività commerciale svolta e sulla nozione di esercizio d’impresa, ai sensi dell’art. 55 del TUIR e dell’art. 4, comma 1 del DPR n. 633/72. In merito alla nozione di esercizio di imprese, vengono poi richiamati gli indirizzi interpretativi dell’Agenzia delle Entrate con le risoluzioni n. 169 del 1° luglio 2009, n. 122 del 6 maggio 2009, n. 348 del 7 agosto 2008 e n. 286 dell’11 ottobre 2007. Tali orientamenti confermano il carattere commerciale (sempre e comunque) delle attività di cui all’art. 2195 c.c., a prescindere dal soggetto eventualmente non lucrativo che le pone in essere, svolte per professione abituale ed anche se non organizzate, mentre, per quelle dirette alla prestazione di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c., occorre verificarne l’organizzazione in forma d’impresa. In via di chiarimento, deve intendersi tale quella di predisposizione di mezzi e risorse volte all’ottenimento di un risultato economico, come evidenziano le ris. n. 148 del 20 maggio 2002, n. 204 del 20 giugno 2002 e n. 273 del 7 agosto 2002. Infatti, solo se un ente non commerciale effettua attività d’impresa è soggetto agli obblighi di tenuta delle scritture contabili ai sensi dell’art. 20, comma 1 del DPR n. 600/73 con l’applicazione delle disposizioni degli artt. 14, 15, 16 e 18 valevoli per le imprese, le società e gli enti equiparati. Tale obbligo, al contrario, non sussiste laddove l’attività posta in essere dall’ente non rivesta le caratteristiche commerciali e d’impresa. Ciò, ad esempio, può riguardare lo svolgimento di attività del tutto occasionali e non abituali, anche in presenza di un unico affare di rilevante entità economica, articolato in operazioni complesse, tale da determinare la mera produzione di redditi diversi, ex art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR (attività commerciale non esercitata abitualmente), privi del requisito soggettivo ai fini dell’IVA. In relazione, invece, all’obbligo di redazione del Rendiconto annuale e di quello per le manifestazioni occasionali di raccolta fondi, l’Agenzia si avvale dei chiarimenti già forniti dalla C.M. n. 124 del 12 maggio 1998. L’Agenzia, in particolare, afferma che l’art. 20, comma 2 del DPR n.600/73 ha previsto per tali soggetti due distinti rendiconti: un Rendiconto annuale economico-finanziario; uno specifico e separato Rendiconto per le raccolte pubbliche di fondi. Tale indicazione, tuttavia, riferita al primo obbligo di Rendiconto – anche in presenza della sola attività istituzionale – non trova una diretta conferma nelle previsioni tributarie sugli enti non commerciali che non svolgono altre attività al di fuori di quella principale statutaria. Per gli enti non commerciali “puri”, in genere, non esiste fiscalmente alcuno specifico obbligo di tenuta contabile, se non quello di sintetizzare le registrazioni di contabilità in un documento consuntivo per mere esigenze di natura interna ovvero di informativa e rendicontazione esterna. A questo fanno eccezione, come bene sottolineano anche le Entrate, gli enti associativi fiscalmente agevolati che si avvalgono dei benefici di cui agli artt. 148, comma 3 e seguenti del TUIR e 4, comma 4, secondo periodo del DPR n. 633/72 e che si conformano alle clausole statutarie obbligatorie, tra cui quella di approvare e redigere annualmente un Rendiconto economico-finanziario. Secondo le indicazioni fornite nell’interpello in esame dall’Agenzia delle Entrate, quindi, il Rendiconto annuale economico-finanziario è richiesto in ogni caso, indipendentemente dalle modalità gestionali e organizzative dell’ente nonché dalla qualificazione dell’attività svolta. Un simile adempimento ha quindi finalità di tipo interno associativo e informativo sia per i soci che per i terzi, con riferimento alla gestione economica e finanziaria del patrimonio dell’ente. È di tutta evidenza, secondo l’Agenzia, che detto Rendiconto ha anche una valenza probatoria per gli organi di controllo ai fini di una corretta qualifica fiscale del soggetto, sia con l’esame dei parametri qualitativi che quantitativi (si veda l’art. 149 del TUIR). Da ultimo, circa l’ulteriore obbligo di uno specifico e separato Rendiconto per le raccolte pubbliche di fondi, si conclude ritenendo che, laddove l’ente non abbia esercitato alcuna delle raccolte occasionali pubbliche di fondi (come indicate nell’art. 143, comma 3, lett. a) del TUIR), lo stesso non sia soggetto allo specifico Rendiconto di cui all’art. 20, comma 2 del DPR n. 600/73.
21/12/2011

Dal 1° gennaio invio integrale degli estratti conto bancari al Fisco

Gli operatori finanziari, dal prossimo anno, dovranno comunicare all’Amministrazione finanziaria non soltanto l’esistenza dei rapporti intrattenuti con i loro clienti e le operazioni cosiddette “fuori conto”, ma anche le singole operazioni effettuate nell’ambito dei predetti rapporti: di fatto, quindi, all’Anagrafe tributaria verranno trasmesse le stesse informazioni recate dagli estratti conto inviati ai clienti stessi. È quanto prevede l’art. 11, comma 2, del DL 201/2011, cosiddetto Decreto “Salva Italia”. Tale disposizione stabilisce infatti che, a far corso dal 1° gennaio 2012, gli operatori finanziari sono obbligati a comunicare periodicamente all’Anagrafe tributaria le movimentazioni che hanno interessato i rapporti di cui all’art. 7, comma 6, DPR 605/1973 e ogni informazione, relativa ai predetti rapporti, necessaria ai fini dei controlli fiscali, nonché l’importo delle operazioni finanziarie indicate nella predetta disposizione. E' appena il caso di ricordare, allora, che il suddetto art. 7, comma 6, prevede l’obbligo per le banche, la Poste italiane spa, gli intermediari finanziari, le imprese di investimento, gli organismi di investimento collettivo del risparmio, le società di gestione del risparmio, nonché ogni altro operatore finanziario, di rilevare e tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di ogni soggetto che intrattenga con loro qualsiasi rapporto o effettui, per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, qualsiasi operazione di natura finanziaria ad esclusione di quelle effettuate tramite bollettino di conto corrente postale, per un importo unitario inferiore a 1.500 euro; l’esistenza dei rapporti e l’esistenza di qualsiasi operazione compiuta al di fuori di un rapporto continuativo – nonché la natura degli stessi – sono comunicate all’Anagrafe tributaria e archiviate in apposita sezione, con l’indicazione dei dati anagrafici dei titolari e dei soggetti che intrattengono con gli operatori finanziari qualsiasi rapporto o effettuano operazioni al di fuori di un rapporto continuativo, per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, compreso il codice fiscale. Dal combinato disposto delle sopra illustrate norme deriva che gli operatori finanziari, dal prossimo anno, trasmetteranno al Fisco i dati di tutte le operazioni finanziarie compiute dai contribuenti. Ciò costituisce un passo ulteriore rispetto a quanto precedentemente previsto per l’espletamento delle indagini finanziarie: ad oggi, infatti, l’Amministrazione finanziaria dispone soltanto dell’archivio dei rapporti finanziari intrattenuti dai contribuenti con gli operatori; a tale archivio, gli ispettori del Fisco accedono per formulare le richieste telematiche agli operatori finanziari per l’inoltro delle movimentazioni dei rapporti, al fine di porre in essere l’attività accertativa. Con la nuova disposizione recata dall’art. 11, comma 2, del DL 201/2011, invece, all’Anagrafe tributaria verranno trasmesse periodicamente le informazioni relative alle movimentazioni dei rapporti finanziari, che, in base a quanto previsto dal successivo comma 4, potranno essere utilizzate dall’Amministrazione finanziaria oltre che per quanto previsto all’art. 7, comma 11, del DPR 605/1973 (indagini finanziarie e procedure di riscossione), anche per l’individuazione dei contribuenti a maggior rischio di evasione da sottoporre a controllo. Insomma, l’Agenzia delle Entrate avrà a disposizione il dettaglio dalle movimentazioni finanziarie di tutti i contribuenti italiani, il cui esame consentirà di individuare quelli da sottoporre prioritariamente ad accertamento, attesa l’esistenza di eventuali anomalie emergenti dalle movimentazioni finanziarie considerate. Una misura, quindi, tanto invasiva della privacy dei contribuenti quanto – sembrerebbe – incisiva ai fini dei futuri controlli. Il comma 3 dello stesso art. 11 del DL 201/2011, infine, rimanda ad un futuro provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, con cui, sentite le associazioni di categoria degli operatori finanziari, saranno stabilite le modalità delle predette nuove comunicazioni all’Anagrafe tributaria, estendendo l’obbligo anche ad ulteriori informazioni relative ai rapporti, necessarie ai fini dei controlli fiscali.
12/12/2011

Dal 1° gennaio aumentano le aliquote contributive di artigiani e commercianti

Con il DL 6 dicembre 2011 n. 201, noto anche come Decreto “Salva Italia”, vengono definiti, all’art. 24, i pilastri portanti di una riforma delle pensioni finalizzata a garantire il rispetto dei vincoli di bilancio e la stabilità economico-finanziaria, oltre a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico. Tutto ciò, nel rispetto di criteri e principi quali l’equità attraverso l’abbattimento di privilegi e deroghe soltanto per le categorie più svantaggiate, nonché la flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa. Una prima novità della riforma è costituita dall’introduzione del sistema di calcolo contributivo con il metodo del pro-rata; con questa modalità, dal 1° gennaio 2012, si calcolerà la quota di pensione corrispondente all’anzianità contributiva maturata a decorrere da tale data. Un ulteriore intervento significativo è costituito dall’abrogazione delle finestre mobili – regime delle decorrenze – in quanto inglobate nei nuovi requisiti di accesso, e viene altresì soppresso il sistema delle quote legate alla somma di età anagrafica e contributiva, con conseguente venir meno delle pensioni di anzianità conseguibili attraverso di esse. Per quanto concerne l’innalzamento dell’età pensionabile, l’intervento colpisce la generalità dei lavoratori, sia dipendenti che autonomi; per tutti i requisiti anagrafici si tiene conto degli incrementi della speranza di vita ex art. 12 del DL 78/2010. In sintesi, dal 1° gennaio 2012, l’età per il pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti del settore privato viene elevata a 62 anni e a 63 e 6 mesi per le lavoratrici autonome. L’equiparazione dell’età delle donne a quella degli uomini (66 anni) avverrà nel 2018, sempre tenendo conto della variazione della speranza di vita. Nel frattempo, dall’età di 62 anni all’età di 70 anni vige il pensionamento flessibile, con applicazione dei relativi coefficienti di trasformazione calcolati fino a 70 anni. Si segnala, in particolare, il permanere del requisito minimo dell’anzianità contributiva di 20 anni previsto dal precedente ordinamento per la pensione di vecchiaia. Invece, l’accesso alla pensione anticipata – ex pensione di anzianità – è possibile, dal 2012, con un’anzianità di 42 anni e 1 mese per gli uomini e di 41 anni e 1 mese per le donne, anch’essa indicizzata alla longevità. Questi requisiti contributivi aumentano di un ulteriore mese sia nell’anno 2013 che nel 2014. Nel DL, si prevedono penalizzazioni percentuali del 2% per ogni anno di anticipo rispetto a 62 anni sulla quota retributiva dell’importo della pensione, tali da costituire un effettivo disincentivo al pensionamento anticipato rispetto a quello di vecchiaia. E ancora, nel decreto in esame si prevede l’aumento graduale delle aliquote contributive dei lavoratori autonomi artigiani e commercianti, che sono incrementate progressivamente dal 1° gennaio 2012 dello 0,3% ogni anno, fino a raggiungere il livello del 22%. In un documento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si evidenziano aspetti relativi all’entrata a regime del sistema, ovvero con pensioni totalmente contributive a partire dal 2035 circa. In particolare, i requisiti di accesso alle prestazioni, nel sistema a regime, prevedono la coesistenza di un’anzianità contributiva di 20 anni, 67 anni di età e un importo della pensione non inferiore ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale (soglia indicizzata) per acquisire il diritto alla pensione di vecchiaia. Si prescinde dal requisito di importo minimo se in possesso di un’età anagrafica di 70 anni di età e di un’anzianità contributiva di almeno 5 anni. Con riferimento alla possibilità di accedere alla pensione anticipata, il diritto si acquisisce al compimento dei 63 anni di età, con un’anzianità contributiva di 20 anni e l’ammontare mensile della prima rata di pensione non inferiore ad un importo soglia (indicizzato) pari a 2,8 volte l’assegno sociale. Infine, alcune importanti novità riguardano gli enti previdenziali di diritto privato dei professionisti. In particolare, nel decreto si dispone che le Casse di Previdenza autonome, comprese dunque quelle dei liberi professionisti, dovranno adottare, entro il 31 marzo 2012, misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di 50 anni. Se le delibere in materia non saranno approvate dai Ministeri vigilanti entro 30 giorni dalla ricezione delle medesime, ovvero in caso di parere negativo, si applicano con decorrenza dal 1° gennaio 2012 le disposizioni relative al meccanismo del pro-rata agli iscritti alle relative gestioni, nonché un contributo di solidarietà nella misura dell’1% a carico dei pensionati per gli anni 2012 e 2013.
12/12/2011

Dal 1° gennaio scatta la nuova tassa "IMU" sugli immobili

La bozza di manovra correttiva approvata dal CdM il 4 dicembre 2011 prevede l’istituzione dall’anno 2012 dell’imposta municipale propria (IMU). La nuova imposta sarà applicata in via sperimentale fino al 2014 da parte di tutti i Comuni sul territorio nazionale. Successivamente al periodo di sperimentazione, ovvero dal 2015, l’IMU diventerà a regime. Il presupposto per l’applicazione dell’IMU ricalca quello previsto per l’ICI all’articolo 2 del DLgs. n. 504/1992, che consiste nel possesso di fabbricati, aree fabbricabili e terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati (salvo che questi siano esclusi o esenti dall’ambito di applicazione dell’imposta). Nella manovra, a differenza di quanto originariamente previsto, è specificatamente disposto che l’IMU colpisce anche l’abitazione principale e le sue pertinenze. Ai fini dell’imposta municipale propria, la definizione che viene data all’abitazione principale è quella contenuta nel DLgs. n. 23/2011. In particolare, si intende tale l’immobile iscritto nel Catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente. Si intendono pertinenze dell’abitazione principale quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7 (quali magazzini e locali di deposito, stalle, scuderie, rimesse, autorimesse e tettoie) nella misura massima di un’unità per ciascuna categoria, anche se risultano iscritte in Catasto unitamente all’immobile ad uso abitativo. Il DLgs. n. 23/2011 stabilisce che, in relazione alla componente immobiliare, l’IMU sostituisce l’IRPEF e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati e l’ICI. A tal proposito, è da chiarire se l’anticipazione dell’IMU sostituisca da subito (1° gennaio 2012) tali imposte, oppure se il carattere sperimentale dell’IMU si limiti alla sostituzione della sola ICI. Si fa riferimento alla normativa ICI anche per la determinazione della base imponibile dell’IMU (art. 5 del DLgs. n. 504/1992). A tal fine, alle rendite dei fabbricati iscritti in Catasto vigenti al 1° gennaio dell’anno di imposizione e rivalutate del 5%, devono essere applicati i moltiplicatori:
- 160 per i fabbricati accatastati A (escluso A/10), C/2, C/6 e C/7;
- 140 per i fabbricati accatastati B, C/3, C/4 e C/5;
- 80 per i fabbricati A/10 (uffici e studi privati);
- 60 per i fabbricati accatastati D (es. opifici);
- 55 per la categoria C/1 (negozi e botteghe).
L’aliquota dell’IMU è stata fissata dalla manovra allo 0,76%. I Comuni, tuttavia, possono aumentarla o diminuirla mediante delibera del Consiglio comunale sino a 0,3 punti percentuali. Per l’abitazione principale e le relative pertinenze l’aliquota è stabilita allo 0,4%, che può essere aumentata o diminuita dall’ente locale sino allo 0,2%. Per tale tipologia di immobili è prevista una detrazione di 200 euro (che può essere aumentata dai Comuni nel rispetto dell’equilibrio di bilancio) da rapportare al periodo dell’anno durante il quale si protrae la destinazione. Allo 0,4% è stabilita anche l’aliquota IMU per i fabbricati rurali ad uso strumentale di cui all’art. 9, comma 3-bis del DL n. 557/1993 (conv. L. n. 133/1994), che potrà essere ridotta fino allo 0,1%. Ulteriori riduzioni dell’imposta municipale propria potranno essere previste, nel limite dello 0,4% dell’aliquota base (0,76%), per gli immobili relativi all’esercizio di attività di impresa, arti e professioni (si tratta degli immobili non produttivi di reddito fondiario di cui all’art. 43 del TUIR), ovvero nel caso di immobili posseduti da soggetti IRES, ovvero nel caso di immobili locati.
06/12/2011

Detrazione IVA lecita se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti

Non può essere negata la detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti, se il contribuente, ancorché non in possesso della fattura di acquisto, dimostri di aver adempiuto agli obblighi sostanziali previsti dalla disciplina IVA e, in particolare, di aver corrisposto l’imposta dovuta. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24912 di ieri, 25 novembre 2011. La pronuncia trae origine da una verifica delle Fiamme Gialle nei confronti di una società cooperativa agricola, che, avvalendosi dell’art. 34, comma 7 del DPR 633/1972, aveva applicato il meccanismo dell’inversione contabile in relazione alle forniture di prodotti da parte dei suoi soci. La citata disposizione prevede, infatti, che i passaggi dei prodotti agricoli e ittici agli enti, alle cooperative o agli altri organismi associativi, anche previa manipolazione o trasformazione, si considerano effettuati all’atto del versamento del prezzo ai produttori agricoli soci o associati e l’obbligo di emissione della fattura può essere adempiuto dagli enti stessi per conto dei produttori agricoli conferenti; in tal caso a questi è consegnato un esemplare della fattura ai fini dei successivi adempimenti. La cooperativa, quindi, aveva emesso diverse fatture per conto dei produttori agricoli che l’avevano rifornita, annotando regolarmente i dati nei relativi registri IVA e nel sistema informatico, detraendo, quindi, la relativa imposta, ma non conservando una copia cartacea dei documenti emessi, di cui un esemplare era, invece, stato consegnato ai predetti produttori. La Guardia di Finanza, pertanto, in sede di verifica fiscale, a seguito della mancata esibizione di tali fatture di acquisto (emesse dalla stessa cooperativa per conto dei produttori/fornitori), disconosceva la relativa detrazione operata dalla contribuente. Dopo la notifica del relativo atto impositivo, la cooperativa procedeva all’impugnazione dello stesso, ottenendo pronunce favorevoli in entrambi i gradi di merito. Ricorreva, allora, per Cassazione l’Amministrazione finanziaria, eccependo che la contribuente non aveva correttamente adempiuto agli obblighi di tenuta, registrazione e conservazione delle fatture con le modalità, forme e tempi previsti dall’art. 25 del DPR 633/1972. La Suprema Corte non ha condiviso, però, l’assunto della difesa erariale. Gli Ermellini hanno ricordato, innanzitutto, che, nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria contesti l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, spetta al contribuente dimostrare di aver adempiuto a tutti gli obblighi previsti dalla disciplina IVA e di essere in possesso dei documenti legittimanti la detrazione d’imposta, ovvero le fatture ed registri, che devono anche essere formalmente regolari (cfr. Cass. 11109/2003), ma nel caso di specie era pacifico che le operazioni erano effettivamente avvenute, essendo in contestazione la detrazione dell’imposta soltanto per la mancata conservazione delle fatture di acquisto. In tal caso, secondo la Cassazione, non può che trovare applicazione il principio più volte sancito dalla Corte UE, in base al quale gli Stati membri possono introdurre delle formalità ed obblighi in materia di IVA, applicando delle sanzioni amministrative in caso di violazione, ma non possono negare la detrazione dell’imposta per la sola mancata osservazione delle predette formalità da parte del soggetto passivo ad esse tenuto, giacché, per il principio di neutralità fiscale, la detrazione dell’imposta deve essere accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti (cfr. cause Corte CE C-95/07 e C-96/07, C-392/09, C-385/09). Gli Ermellini hanno stabilito, quindi, che gli obblighi di tenuta, conservazione e registrazione delle fatture con le modalità, forme e tempi previsti dall’art. 25 del DPR 633/1972 non costituiscono condizione essenziale per il riconoscimento del diritto alla detrazione, qualora vi sia la prova certa dell’avvenuto effettivo versamento dell’imposta. Nel caso di specie, quindi, la detrazione dell’IVA non poteva ritenersi indebita. I giudici di legittimità, rifacendosi ai principi comunitari, hanno così confermato che l’assolvimento degli adempimenti sostanziali da parte del contribuente comporta comunque il diritto alla detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti, sempreché non vi siano contestazioni in merito all’esistenza delle operazioni. Tuttavia, appena qualche settimana fa, gli stessi Supremi giudici si erano dimostrati molto più rigidi sul punto, escludendo il diritto alla detrazione Iva in caso di mancata stampa dei relativi registri conservati soltanto nel sistema informatico (cfr. Cass. 22245/2011).
27/11/2011

Secondo acconto IRPEF 2011 ridotto dal 99% all’82%

L’acconto IRPEF da versare nel 2011 scende dal 99% all’82%; la differenza di 17 punti percentuali sarà versata nel 2012, in sede di saldo. È questa la novità contenuta nel decreto del Presidente del Consiglio firmato il 21 novembre scorso e reso noto ieri. Il provvedimento in esame costituisce l’attuazione dell’art. 55, commi 1 e 2, del DL 31 maggio 2010 n. 78, convertito nella L. 30 luglio 2010 n. 122, e riprende le disposizioni dell’analogo intervento di due anni fa, operato con l’art. 1 del DL 23 novembre 2009 n. 168 (che aveva previsto una riduzione del 20%). La riduzione all’82% riguarda tutti i soggetti tenuti al versamento dell’acconto IRPEF e quindi, in particolare, gli imprenditori individuali, i professionisti, i soci di società di persone, i lavoratori dipendenti e pensionati in possesso di ulteriori redditi (es. redditi fondiari o compensi per prestazioni occasionali), che entro fine novembre devono versare la seconda o unica rata di acconto IRPEF. L’ammontare dell’acconto IRPEF 2011 va calcolato applicando la percentuale dell’82% (anziché del 99%) all’importo indicato nel rigo RN33 (“Differenza”) del modello UNICO 2011 PF (a condizione che sia pari o superiore a 52 euro), scomputando quanto già eventualmente versato come prima rata. Qualora il contribuente utilizzi il cosiddetto metodo previsionale, il versamento dell’acconto sarà considerato “sufficiente” se almeno pari all’82% (e non più al 99%) dell’IRPEF che sarà indicata nel corrispondente rigo “Differenza” del modello UNICO 2012 PF. Per i soggetti che si sono avvalsi dell’assistenza fiscale, presentando il modello 730/2011, i sostituti d’imposta (es. datori di lavoro, committenti, enti previdenziali) devono trattenere l’acconto IRPEF dovuto dai propri sostituiti (es. dipendenti, lavoratori a progetto o pensionati) tenendo conto della nuova misura dell’82%. Occorre quindi procedere a ricalcolare quanto indicato nei modelli 730-4 inviati dai CAF, dai professionisti o dall’Agenzia delle Entrate, oppure nei modelli 730-3 direttamente elaborati dal sostituto d’imposta, in caso di prestazione di assistenza fiscale diretta. Qualora i sostituti d’imposta non abbiano tenuto conto della riduzione, in quanto nel mese di novembre è già stato effettuato il pagamento dello stipendio, del compenso o della pensione, devono provvedere a restituire le maggiori somme trattenute al lavoratore/pensionato, nell’ambito della retribuzione/pensione erogata nel mese di dicembre. Nel caso in cui non sia possibile effettuare questa restituzione nel prossimo mese di dicembre, i sostituti d’imposta dovranno provvedervi nella retribuzione/pensione successiva. Le somme restituite possono essere scomputate dal sostituto d’imposta secondo le disposizioni generali in materia di scomputo dei versamenti delle ritenute alla fonte operate in eccedenza rispetto a quanto dovuto, ai sensi del DPR n. 445/1997. Come accennato, quanto corrisposto in meno in sede di seconda o unica rata di acconto IRPEF 2011, rispetto all’ammontare che sarebbe risultato dovuto se la percentuale di computo fosse rimasta ferma al 99%, sarà recuperato all’atto del versamento del saldo IRPEF per il 2011, nei limiti dell’imposta dovuta. L’appuntamento alla cassa, pertanto, è rimandato, di regola, entro il 18 giugno 2012 (il giorno 16, infatti, cade di sabato), ovvero entro il 16 luglio 2012 (con la maggiorazione dello 0,4%), ferma restando la disciplina dei conguagli in caso di presentazione del modello 730/2012. Nessun rinvio, invece, per il versamento degli acconti IRES e IRAP relativi al 2011, questi ultimi anche se dovuti da persone fisiche. Il parziale differimento del versamento dell’acconto IRPEF è invece previsto anche nel 2012, nella misura di tre punti percentuali, quindi con l’acconto che si riduce dal 99% al 96%, con conguaglio a saldo nel 2013.
24/11/2011

Rettifica dell'IVA e delle quote ammortamento per gli "ex-minimi"

I soggetti che dal prossimo anno usciranno dal regime dei contribuenti minimi perché, ad esempio, hanno iniziato l’attività prima del 2008, potranno riprendere gli ammortamenti sospesi al momento dell’ingresso nel regime agevolato e dovranno effettuare la rettifica della detrazione IVA. Le persone fisiche che hanno avviato la propria attività d’impresa, ovvero artistica o professionale prima del 2008 e che, poi, in tale anno, sono entrati nel regime dei “minimi” previsto dall’art. 1, commi da 96 a 117, della L. 244/2007, a seguito dell’introduzione delle nuove disposizioni recate dall’art. 27 del DL 98/2011, sono costretti a fuoriuscire dal regime a partire dal prossimo anno. Questi contribuenti adotteranno, quindi, nuovamente le modalità di determinazione del reddito e dell’IVA secondo le regole ordinarie, anche se entreranno nel nuovo regime super-semplificato previsto dal comma 3 del citato art. 27 e già ribattezzato degli “ex minimi” (cfr. interrogazione parlamentare n. 5-05408 del 28 settembre 2011). I predetti soggetti potranno, allora, dal prossimo anno, riprendere, innanzitutto, gli ammortamenti “sospesi” al momento dell’ingresso nel regime agevolato. Nei “minimi”, infatti, non è prevista la procedura di ammortamento, atteso che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera b) del DM 2 gennaio 2008 (attuativo delle disposizioni recate dalla L. 244/2007), il costo di acquisto di beni strumentali è deducibile dal reddito dell’esercizio in cui è avvenuto il pagamento: in sostanza, il costo del bene strumentale è immediatamente deducibile nell’esercizio in cui è stato sostenuto, a prescindere dal concetto di competenza economica previsto dalle ordinarie regole del TUIR. Le quote residue di ammortamento dei beni strumentali acquistati prima dell’ingresso nel regime di favore, pertanto, non possono assumere alcuna rilevanza in vigenza del regime di vantaggio, sicché le stesse rimangono sospese per tutto il periodo di sua applicazione. Tali quote residue di ammortamento diventano nuovamente deducibili dal periodo d’imposta in cui viene di nuovo applicato il regime ordinario (cfr. punto 3.4 della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 13 del 2008). Così, i contribuenti che nel 2012 usciranno dai “minimi” potranno tornare a dedurre le quote rimaste sospese. L’altro aspetto di fondamentale importanza per chi uscirà dal regime agevolato il prossimo anno è la rettifica della detrazione IVA. Il comma 101 dell’art. 1 della L. 244/2007 dispone che la rettifica della detrazione di cui all’articolo 19-bis2 del DPR 633/1972 deve essere operata non soltanto quando il contribuente accede al regime di vantaggio (cosiddetta rettifica “negativa”) ma anche quando vi esce, ritornando ai normali criteri di determinazione dell’imposta (cosiddetta rettifica “positiva”). Come precisato nelle circolari n. 73 del 2007 e n. 13 del 2008, la rettifica della detrazione IVA riguarda tutti i beni e servizi non ancora ceduti o non ancora utilizzati (in primo luogo, le merci in rimanenza già fatturate e pagate nel 2011), nonché i beni strumentali, di importo superiore a 516 euro (ex art. 19-bis2, comma 5), acquistati in vigenza del regime agevolato. Relativamente a questi ultimi, la detrazione deve essere calcolata in relazione ai quinti mancanti al compimento del quinquennio di cui al comma 2 del predetto art. 19-bis2. La rettifica così calcolata può essere utilizzata in compensazione con l’eventuale parte residuante di quella determinata al momento dell’accesso al regime agevolato. L’ammontare risultante della rettifica IVA è recuperata all’atto del versamento a saldo dell’imposta dovuta per l’anno di passaggio al regime ordinario (nel caso in esame, l’anno considerato è il 2012, e quindi il saldo IVA verrà versato a marzo 2013). Tale importo della rettifica della detrazione IVA costituisce, inoltre, una sopravvenienza rilevante ai fini delle imposte dirette nel primo periodo di applicazione del regime ordinario, ovvero, nel caso in esame, nel 2012.
16/11/2011

Senza effetto la cartella di pagamento notificata alla società estinta

La Corte di Cassazione, con la sentenza 22863 del 2011, depositata ieri, ha affrontato esplicitamente la complessa problematica relativa alla sorte dei debiti tributari in presenza di una società cancellata dal Registro delle imprese. Il principio, ormai noto, è il seguente: l’art. 2495 c.c. stabilisce che la cancellazione della società dal Registro delle imprese è condizione sia necessaria sia sufficiente per la sua estinzione, quindi non ha rilievo il fatto che, nel momento della cancellazione, fossero pendenti rapporti giuridici, anche di natura fiscale. Nel caso di specie, la cartella di pagamento è stata emessa nei confronti della società cancellata dal Registro imprese e, a sua volta, il ricorso in Commissione tributaria è stato proposto da un liquidatore che tale non era più, stante l’irreversibile effetto estintivo della cancellazione. I giudici di Cassazione, affrontando anche incidentalmente varie questioni, stabiliscono innanzitutto che il ricorso proposto dal liquidatore per conto della società cancellata è chiaramente inammissibile, in quanto notificato in nome di un soggetto non esistente. Quindi, è stato accolto il ricorso per Cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate, e la sentenza è stata cassata senza rinvio. Poi, i giudici affermano che, se il ricorso non poteva essere proposto, la cartella (almeno in tal modo) non poteva essere emessa, in quanto intestata nei confronti di un soggetto non più esistente: ergo, tale atto non era idoneo a produrre alcun effetto. Questa è la parte più importante della sentenza, siccome chiarisce che il provvedimento impositivo (sia esso un accertamento o una cartella di pagamento) intestato a una società cancellata dal Registro imprese non produce effetti. Testualmente, si afferma che “la causa, anche sul versante del potere rappresentativo del liquidatore rispetto a società ormai definitivamente estinta (oltre che dell’interesse a proporre impugnazione avverso un atto comunque insuscettibile di produrre alcun effetto, a ragione della già avvenuta estinzione del soggetto passivo dell’obbligazione afferente), avrebbe dovuto ritenersi insuscettibile di proposizione”. E' una conseguenza naturale dell’estinzione il venir meno del potere di rappresentanza del liquidatore, il venir meno della successione dei soci alla società, delle azioni dei creditori insoddisfatti, rimanendo ferma la responsabilità del liquidatore per colpa, come prevede l’art. 2495 c.c. Allora, se è vero che il ricorso per Cassazione è stato accolto, è innegabile che tale accoglimento non può legittimare alcuna riscossione coattiva nei confronti del liquidatore. I giudici sono stati molto chiari: la cartella è priva di effetti. L’Agenzia delle Entrate deve, in casi del genere, notificare apposito provvedimento impositivo (si può discutere sulla tipologia di atto, che a nostro avviso dovrebbe sempre essere inquadrato nell’alveo degli avvisi di accertamento) al liquidatore o ai soci, specificando le ragioni di tale scelta, quindi la colpa del liquidatore, gli estremi della responsabilità ex art. 36 del DPR 602/73 o l’indicazione delle somme ricevute dai soci in base al bilancio finale di liquidazione (presupposto che limita la responsabilità dei soci, in ossequio a quanto disposto dall’art. 2495 c.c.). Se così è, non può essere messo in discussione che occorre il rispetto dei termini decadenziali per la notifica dell’atto ai soggetti responsabili, nonché della competenza territoriale (sarà competente la DP di domicilio fiscale non della società, ma del liquidatore o del socio). Sempre adottando la suddetta tesi, se la cancellazione avviene a processo instaurato, questo non può essere interrotto e riassunto dai soci, ma deve essere dichiarato estinto per cessazione della materia del contendere, in quanto si tratta di una “morte senza eredi”
04/11/2011

Obbligo di conservazione della documentazione per la detrazione del 36%

Coloro che, beneficiando dell’agevolazione IRPEF del 36% prevista per gli interventi volti al recupero del patrimonio edilizio, non sono più obbligati a inviare la comunicazione preventiva al Centro Operativo di Pescara devono conservare la documentazione elencata dall’Agenzia delle Entrate nel Provvedimento del 2 novembre 2011, pubblicato ieri. In relazione alla detrazione in questione (introdotta dall’art. 1 della L. n. 449/1997), l’art. 7, comma 2, lett. q) e r) del Decreto Sviluppo (DL n. 70/2011, convertito nella L. n. 106/2011) ha soppresso l’obbligo di inviare la comunicazione di inizio lavori al Centro Operativo dell’Agenzia delle Entrate di Pescara e l’obbligo di indicare distintamente, nelle fatture relative ai lavori agevolati, il costo della manodopera. Per quanto concerne l’eliminazione della comunicazione preventiva al Centro Operativo di Pescara, infatti, è stato modificato l’art. 1 comma 1 lett. a) del DM 18 febbraio 1998 n. 41, ai sensi del quale, al fine di poter fruire della detrazione, il contribuente deve obbligatoriamente indicare nella dichiarazione dei redditi alcuni dati che prima erano contenuti nella comunicazione di inizio lavori. Si tratta dei dati catastali identificativi dell’immobile oggetto di intervento, degli estremi di registrazione dell’atto che costituisce il titolo per la detenzione (es. contratto di locazione) nel caso in cui i lavori, anziché dal possessore, siano effettuati dal detentore (es. conduttore); e, infine, degli altri dati richiesti ai fini del controllo della detrazione. In aggiunta, il sopracitato articolo 1 prevede sia obbligatorio conservare ed esibire, su richiesta degli Uffici, i documenti indicati dal Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate datato 2 novembre 2011. Nello specifico, devono essere conservate le abilitazioni amministrative richieste in relazione alla tipologia di lavori da realizzare (concessione, autorizzazione o comunicazione di inizio lavori) oppure, nel caso in cui non sia richiesto alcun titolo abilitativo, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ove sia indicata la data di inizio dei lavori e l’attestazione che gli interventi eseguiti rientrano fra quelli agevolabili; la domanda di accatastamento per gli immobili non ancora censiti; la ricevuta di pagamento dell’ICI (se dovuta); la delibera assembleare di approvazione dell’esecuzione dei lavori in caso di interventi su parti comuni di edifici e la tabella millesimale di ripartizione delle spese; la dichiarazione di consenso del possessore dell’immobile nel caso in cui i lavori siano eseguiti dal detentore, se diverso dai familiari residenti. Oltre ai documenti sopraelencati, è necessario conservare la comunicazione preventiva di inizio lavori inviata all’Azienda sanitaria locale (ASL), quando obbligatorio. Infine, così come previsto dall’art. 1, comma 1, lett. c) del DM n. 41/1998, devono essere conservate le fatture e le ricevute fiscali (o altra idonea documentazione fiscale, quale ad esempio le ricevute con bollo) e i bonifici di pagamento, fino allo spirare del termine previsto dall’art. 43 del DPR n. 600/1973 per l’azione di accertamento. A tal proposito, si ricorda che, con riferimento alle spese sostenute nel 2011 (che saranno iscritte nella dichiarazione dei redditi inviata nel 2012), la relativa documentazione dovrà essere conservata sino al 2016.
04/11/2011

Indetraibile l'IVA su fatture non annotate nel registro

Non spetta la detrazione dell’IVA sugli acquisti se il contribuente, ancorché in possesso delle fatture, non ha predisposto la stampa dei registri IVA, conservando questi ultimi soltanto su supporto informatico. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 22245 di ieri, 26 ottobre 2011. Una società era stata sottoposta a verifica da parte della Guardia di Finanza nel 1999, che, tra l’altro, aveva constatato, per l’anno oggetto di controllo, il 1994, la mancanza dei registri IVA su supporto cartaceo, memorizzati soltanto sul computer aziendale. Le Fiamme Gialle avevano quindi rilevato l’illegittima detrazione dell’IVA relativa alle fatture d’acquisto, di cui, peraltro, la contribuente era in possesso. A seguito d’impugnazione dell’avviso di rettifica IVA, i giudici di merito si pronunciavano a favore della società, atteso che, secondo il collegio del riesame, la contribuente era comunque in possesso delle fatture attive e passive, avendo quindi solo omesso di stampare i relativi registri IVA, che tuttavia erano rimasti memorizzati su supporto informatico, in modo tale che i verificatori avevano potuto riconciliare le une con gli altri; da ciò – sempre secondo la C.T. Reg. – non emergeva alcun fine evasivo né elusivo e, pertanto, doveva essere riconosciuto il diritto alla detrazione IVA, anche alla luce del disposto dell’art. 7, comma 4-ter del DL 357/1994 applicabile nella formulazione al tempo vigente. Tale disposizione prevedeva, infatti, che, a tutti gli effetti di legge, la tenuta di qualsiasi registro contabile con sistemi meccanografici è considerata regolare in difetto di trascrizione su supporti cartacei, nei termini di legge, dei dati relativi all’esercizio corrente, allorquando, anche in sede di controlli e ispezioni, gli stessi risultino aggiornati sugli appositi supporti magnetici e vengano stampati contestualmente alla richiesta avanzata dagli organi competenti ed in loro presenza. L’Agenzia delle Entrate ricorreva, allora, per Cassazione, eccependo che la verifica della GdF era avvenuta nel 1999, ma il periodo d’imposta oggetto delle attività ispettive era il 1994, per cui, ormai, ai sensi della predetta disposizione, erano spirati i termini di parificazione dei registri informatici a quelli cartacei, anche qualora fossero stati stampati contestualmente alla richiesta dei verificatori nel 1999, giacché la norma si riferiva, appunto, “all’esercizio corrente”. La memorizzazione informatica, quindi, non poteva più assumere alcun rilievo agli effetti di legge, sicché i registri IVA risultavano mancanti e la detrazione non spettante. La Cassazione ha ricordato, innanzitutto, che, per la detrazione IVA prevista dall’art. 19 del DPR 633/1972, il contribuente deve porre in essere tutti gli adempimenti stabiliti dalla normativa di riferimento: deve, quindi, essere in possesso delle fatture d’acquisto, deve averle annotate nel relativo registro (ex art. 25 dello stesso DPR) ed, infine, deve conservare le une e l’altro, rimanendo, peraltro, gravato dell’onere di fornire la documentazione legittimante la detrazione (cfr. Cass. 28333/2005). Per quanto concerne la tenuta dei registri IVA, i Supremi Giudici hanno osservato che la regola è la conservazione cartacea, anche se, alla luce della sopra illustrata disposizione di cui al DL 357/1994, la tenuta dei registri con sistemi meccanografici (oggi diremmo con personal computer, elaboratori elettronici ed altri sistemi informatici EDP) è equiparata a tutti gli effetti di legge a quella cartacea, ma limitatamente ai dati dell’esercizio corrente (in cui avviene l’accesso o la verifica) e sempreché i registri siano aggiornati e stampati contestualmente alla richiesta dei verificatori. Gli Ermellini hanno stabilito, quindi, che la scelta di archiviazione informatica dei registri (fattispecie diversa dalla conservazione digitale delle scritture contabili di cui al nuovo articolo 2215-bis c.c.) presuppone sempre e comunque la successiva stampa degli stessi, attesa la limitazione temporale della parificazione degli effetti della registrazione meccanografica non trascritta a quelli della registrazione cartacea. I Giudici di piazza Cavour hanno ribadito, quindi, la loro giurisprudenza pregressa, in base alla quale non è neppure necessaria un’espressa previsione normativa per escludere il diritto alla detrazione in relazione ai dati emergenti dai registri la cui tenuta, sulla base della norma sopra menzionata, non può essere considerata regolare (cfr. Cass. 22851/2010). Nel caso di specie, i registri IVA richiesti nel 1999 dai verificatori erano quelli relativi all’anno d’imposta 1994, che, però, risultavano soltanto memorizzati sul computer aziendale e, quindi, per quanto sopra esposto, erano irregolari, tali, pertanto, da non consentire la detrazione IVA. Si ricorda, infine, che il legislatore è intervenuto più volte sulla disposizione in oggetto, da ultimo modificata dall’art. 1, comma 161 della L. n. 244/2007, in vigore dal 1° gennaio 2008. La nuova formulazione prevede che la parificazione agli effetti di legge dei registri informatici rispetto a quelli cartacei riguarda non più l’esercizio corrente, ma quello per il quale i termini di presentazione delle relative dichiarazioni annuali non sono scaduti da oltre tre mesi.
27/10/2011

INPS: istruzioni operative sulla procedura web adempimenti previdenziali

Con il messaggio n. 18367 di ieri, 27 settembre 2011, l’INPS ha fornito chiarimenti e istruzioni operative in merito ai soggetti abilitati ad operare nei confronti dell’Istituto previdenziale, in materia di sub-abilitazioni nei confronti dei dipendenti dei datori di lavoro e degli intermediari, nonché relative al rilascio di nuove funzionalità dell’applicazione “Gestione Deleghe”, e l’utilizzo di quest’ultima procedura ai fini della consultazione degli attestati di malattia. Nel messaggio in esame viene soprattutto chiarito quanto contenuto nella circ. n. 28 dello scorso 8 febbraio 2011, con la quale è stato delineato il nuovo sistema di identificazione dei soggetti abilitati ad operare nei confronti dell’Istituto previdenziale, in qualità di datori di lavoro o intermediari. Come fa osservare l’INPS, il primo passo dell’entrata in funzione del nuovo sistema è stata la profilazione dei soggetti abilitati. In particolare, la profilazione dei Consulenti del lavoro e dei Dottori commercialisti e degli esperti contabili è stata effettuata grazie ad accordi con i relativi Ordini professionali. In questo modo, recependo in tempi ridotti le eventuali modifiche comunicate dall’Ordine di appartenenza, la lista dei professionisti abilitati sarà sempre aggiornata. Inoltre, l’INPS comunica che, in attesa che simili accordi vengano raggiunti anche con gli Ordini degli Avvocati, i professionisti interessati ad operare come intermediari nei confronti dell’Istituto previdenziale dovranno far pervenire una apposita domanda alla Direzione centrale Entrate dell’INPS allegando copia della comunicazione inviata alle direzioni provinciali del lavoro nel cui ambito territoriale intendono svolgere gli adempimenti. Analoga domanda dovranno far pervenire i Periti agrari e gli Agronomi interessati ad operare in nome e per conto di aziende agricole che operino con il sistema UNIEMENS. Invece, nei confronti dei servizi o centri di assistenza fiscale istituiti dalle associazioni di categoria delle imprese artigiane e delle altre piccole imprese, è stata avviata una profilazione delle strutture da autorizzare, sulla base dell’identificazione operata dalla relative associazioni nazionali. A tal proposito, l’INPS ricorda che già il Vademecum sul libro unico del lavoro, pubblicato dal Ministero del Lavoro il 5 dicembre 2008, ha precisato che si deve in ogni caso trattare di associazioni di categoria dotate di reale rappresentatività come, ad esempio, le associazioni sindacali di categoria fra imprenditori, presenti nel CNEL e istituite da almeno dieci anni. Altro aspetto importante trattato nel messaggio n. 18367 è relativo all’attribuzione del PIN ai subdelegati. L’INPS ricorda che la circolare n. 28/2011 ha chiarito che, qualora gli intermediari autorizzati intendano delegare uno o più dei propri lavoratori dipendenti alla gestione degli adempimenti nei confronti dell’Istituto, dovranno utilizzare l’apposita applicazione, disponibile nei prossimi giorni anche per i datori di lavoro. A tal proposito, nel messaggio in esame viene messo a disposizione il modulo che i soggetti subdelegati dovranno utilizzare per richiedere il rilascio del PIN alla sede competente, ovvero il modulo SC62, disponibile nella sezione modulistica del sito www.inps.it. Invece, per quanto riguarda la procedura “Gestione Deleghe”, l’INPS informa che, a decorrere dal 12 settembre scorso, la procedura è stata implementata dalla nuova funzionalità di Caricamento Massivo, attraverso la quale gli intermediari abilitati potranno creare i moduli per l’attribuzione delle deleghe da parte dei datori di lavoro mediante il caricamento di più numeri di matricola all’interno di un file txt o csv. Una volta terminato il caricamento, la procedura produrrà la stampa delle deleghe relative alle matricole inserite; l’intermediario potrà stampare tali deleghe, affinché vengano sottoscritte dai soggetti deleganti. Una volta acquisita la delega da parte del datore di lavoro, l’intermediario potrà accedere nuovamente nella procedura Gestione Deleghe per validare le deleghe stesse, dichiarando sotto la propria responsabilità l’avvenuta sottoscrizione da parte dei deleganti. Infine, l’INPS comunica agli intermediari che hanno ricevuto delega generale da un datore di lavoro allo svolgimento di tutti gli adempimenti nei confronti dell’INPS – ed hanno comunicato all’Istituto l’esistenza di tale delega – che è già possibile accedere anche alla procedura di consultazione dei certificati di malattia.
28/09/2011

L'enigmatico regime dei minimi 2012

A distanza di quasi tre mesi dall’approvazione della manovra correttiva (DL 98/2011), con cui sono stati modificati i presupposti applicativi del regime dei contribuenti minimi, l’Agenzia delle Entrate non ha ancora fornito chiarimenti sugli aspetti “salienti” della nuova disciplina né, tantomeno, emanato gli annunciati provvedimenti attuativi. Tale stato di cose determina incertezza nei contribuenti che, a fine anno, si troveranno a dover verificare se poter continuare a fruire di tale regime agevolato o meno, nonché nei soggetti che hanno iniziato (o si apprestano a farlo) una nuova attività d’impresa o professionale. Innanzitutto, non risulta chiaro se il regime delle nuove iniziative produttive di cui all’art. 13 della L. 388/2000 potrà continuare ad essere applicato nel 2012, oppure debba intendersi implicitamente abrogato a partire dalla medesima data. L’art. 27 del DL 98/2011, infatti, afferma che gli attuali regimi forfetari sono riformati e concentrati allo scopo di favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani ovvero di coloro che perdono il lavoro. Sembrerebbe che la nuova disciplina “unifichi” i regimi forfetari in vigore, con conseguente inapplicabilità del “forfettino” dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni. Peraltro, l’assenza di un’espressa disposizione abrogativa dell’art. 13 della L. 388 ha fatto dubitare della suddetta interpretazione. La necessità di chiarimenti è forte, poiché si tratta di un aspetto non di poco conto per i contribuenti. Si consideri, ad esempio, un soggetto che ha iniziato l’attività ad agosto 2011: nella convinzione di poter fruire del “forfettino” anche per il periodo successivo, lo stesso potrebbe effettuare acquisti di beni strumentali, conseguire ricavi/compensi, ecc. superiori ai limiti previsti per l’accesso al regime dei minimi. Qualora l’Amministrazione finanziaria chiarisse che, dal 2012, il regime non è più utilizzabile, il soggetto non potrebbe fruire di alcun regime agevolato, non avendo più i requisiti per essere “minimo”. Altro aspetto poco chiaro riguarda la limitazione di fruibilità del regime legata all’età anagrafica. Si dispone, infatti, che, di regola, il nuovo regime dei minimi è applicabile per il periodo d’imposta in cui l’attività è iniziata e per i quattro successivi. Peraltro, l’applicabilità si estende anche oltre il quarto periodo d’imposta successivo a quello di inizio dell’attività, fino al periodo d’imposta di compimento del trentacinquesimo anno d’età. Ciò posto, ci si chiede se un contribuente che inizi l’attività a 32 anni avvalendosi del regime dei minimi possa fruire del regime per cinque periodi d’imposta e, quindi, fino ai 36 anni, oppure debba fuoriuscire dal regime al termine del periodo d’imposta nel quale compie 35 anni, fruendone per soli 4 anni. In attesa di chiarimenti al riguardo, sembra che le predette disposizioni siano in rapporto di regola ed eccezione. La regola generale dispone la fruizione del regime per un quinquennio a prescindere dall’età in cui si inizia l’attività; in via eccezionale, qualora, al termine di tale periodo, non siano stati ancora compiuti 35 anni, il contribuente può continuare ad utilizzarlo fino al 35° anno di età (incluso).
26/09/2011

Soglie penali in UNICO 2011

Le nuove soglie di punibilità sono applicabili alle dichiarazioni dei redditi ed IVA relative al 2010 (UNICO 2011) ove “presentate” tra il 18 settembre 2011 e la scadenza dei termini. L’art. 2, comma 36-vicies semel del DL 13 agosto 2011 n. 138 (c.d. “manovra di Ferragosto”), inserito in sede di conversione nella legge 14 settembre 2011 n. 148, apporta rilevanti modifiche alla disciplina dei reati tributari (DLgs. 10 marzo 2000 n. 74). In particolare, le novità introdotte determinano: l’abrogazione delle ipotesi attenuate connesse alle fattispecie di emissione ed utilizzazione di fatture (o altri documenti) per operazioni inesistenti; una minor riduzione di pena in relazione alla circostanza attenuante correlata al pagamento dei debiti tributari (circostanza che diviene condizione imprescindibile per richiedere il c.d. “patteggiamento”); limiti, per talune fattispecie, al riconoscimento della sospensione condizionale della pena; l’ampliamento, per talune fattispecie, dei termini di prescrizione. Particolarmente rilevante, inoltre, risulta l’irrigidimento delle soglie di punibilità delle fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione; reati che, si badi bene, si perfezionano al momento della presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o ai fini IVA. L’integrazione della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 del DLgs. 74/2000) richiede il superamento congiunto di due soglie di punibilità: la soglia correlata all’imposta evasa passa da 77.468,53 euro a 30.000 euro, con riferimento a taluna delle singole imposte; quella legata all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, in valore assoluto, passa da 1.549.370,70 euro a 1.000.000 di euro. Resta ferma, invece, l’alternativa (“percentuale”) rispetto a quest’ultima soglia. La fattispecie in esame, quindi, deve ritenersi integrata quando, non solo l’imposta evasa (sui redditi o IVA) è superiore a 30.000 euro, ma l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, seppure non superiore a 1.000.000 di euro, è superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione. Anche l’integrazione della dichiarazione infedele (art. 4 del DLgs. 74/2000) richiede il superamento congiunto di due analoghe soglie di punibilità. In tal caso, la soglia correlata all’imposta evasa passa da 103.291,38 euro a 50.000 euro, con riferimento a taluna delle singole imposte; mentre quella legata all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, in valore assoluto, passa da 2.065.827,60 euro a 2.000.000 di euro. Resta ferma, anche in tal caso, l’alternativa (“percentuale”) rispetto a quest’ultima soglia. La fattispecie in esame, quindi, deve ritenersi integrata quando, non solo l’imposta evasa (sui redditi o IVA) è superiore a 50.000 euro, ma l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, seppure non superiore a 2.000.000,00 di euro, è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione. Con riguardo, infine, all’omessa dichiarazione (art. 5 del DLgs. 74/2000), occorre il superamento di un’unica soglia di punibilità correlata all’imposta evasa. Questa dovrà essere superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte (sui redditi o IVA), non più a 77.468,53 euro, ma a 30.000 euro. A fronte di tutto ciò, l’art. 2 comma 36-vicies bis del DL 13 agosto 2011 n. 138 convertito precisa che le nuove disposizioni trovano applicazione “ai fatti successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione”. Sulla base di un’interpretazione rigorosamente letterale della norma, le nuove disposizioni sembrerebbero applicabili ai fatti posti in essere dal 18 settembre 2011, in quanto “successivi” alla data di entrata in vigore della legge di conversione del DL 138/2011 (ovvero il 17 settembre 2011). Ne consegue che le nuove disposizioni sono applicabili: alle dichiarazioni dei redditi ed IVA relative al 2010 (UNICO 2011) ove “presentate” tra il 18 settembre 2011 e la scadenza dei termini; nel caso di omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi ed IVA relative al 2010 (UNICO 2011); alle ulteriori fattispecie penali tributarie commesse a partire dalla suddetta data.
21/09/2011

Proroga comunicazione delle operazioni rilevanti IVA soggette a fatturazione

L’Agenzia delle Entrate, con il provvedimento del 16 settembre pubblicato ieri, 19 settembre 2011, ha modificando alcune parti del precedente provvedimento del 22 dicembre 2010. In primo luogo, sono state sostituite le specifiche tecniche – così come già rettificate dal provvedimento del 21 giugno 2011 – al fine di semplificare maggiormente gli obblighi dei contribuenti e migliorare, anche sulla base delle indicazioni fornite dalle associazioni di categoria, la qualità delle informazioni trasmesse. Il conseguimento di tale obiettivo è, tuttavia, subordinato all’adozione di alcuni adeguamenti di carattere tecnologico, che hanno indotto l’Amministrazione finanziaria a differire di due mesi il termine ultimo previsto per l’esecuzione dell’adempimento. Conseguentemente, i titolari di partita IVA dovranno presentare entro il 31 dicembre 2011, e non più il 31 ottobre 2011, la comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, soggette all’obbligo di fatturazione e perfezionate per un importo non inferiore a 25mila euro. Sul punto, si rammenta altresì che tale obbligo – introdotto dall’art. 21, comma 1 del DL n. 78/2010 (conv. L. n. 122/2010) – riguardava inizialmente sia le operazioni fatturate, almeno pari a 3mila euro (al netto dell’IVA), che quelle documentate da ricevuta o scontrino fiscale per un importo non inferiore a 3.600 euro, al lordo dell’imposta sul valore aggiunto. A questo proposito, l’Agenzia delle Entrate aveva chiarito che quest’ultimo limite opera anche con riferimento ai soggetti obbligati all’emissione della fattura, ma non alla separata indicazione del tributo, come nel caso delle agenzie di viaggio e turismo, che applicano il regime speciale di cui all’art. 74-ter del Decreto IVA (cfr. circolare n. 24/2011). Successivamente, il citato provvedimento direttoriale ha ridefinito i termini della prima applicazione dell’adempimento, differenziati in base alla natura delle operazioni ed al periodo di effettuazione delle stesse (art. 6 del DPR n. 633/1972): soggette a fatturazione, compiute nel periodo d’imposta 2010, per un importo almeno pari a 25mila euro, al netto dell’IVA: 31 ottobre 2011, ora differito al 31 dicembre 2011; documentate da ricevuta o scontrino fiscale, eseguite nell’anno 2011 a partire dal 1° luglio, per un ammontare non inferiore a 3.600 euro, al lordo dell’imposta sul valore aggiunto: 30 aprile 2012. La medesima scadenza è fissata per le operazioni soggette all’obbligo di fatturazione, effettuate nel corso del periodo d’imposta 2011, almeno pari a 3 mila euro, al netto dell’IVA. Si ricorda, inoltre, che – per effetto di quanto previsto, poi, dal Decreto Sviluppo (art. 7, comma 2, lett. o) del DL n. 70/2011, conv. L. n. 106/2011) – sono escluse dal predetto adempimento le operazioni, eccedenti i limiti sopra riportati, effettuate nei confronti di soggetti passivi IVA, il cui pagamento sia stato eseguito mediante carte di credito, debito o prepagate, emesse da intermediari finanziari soggetti all’obbligo di comunicazione stabilito dall’art. 7, comma 6 del DPR n. 605/1973, diversi da quelli non residenti e senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Le operazioni in parola devono, tuttavia, essere comunicate all’Agenzia delle Entrate, a cura dei predetti soggetti emittenti, secondo modalità e termini da definirsi con un successivo provvedimento direttoriale, così come recentemente prescritto dall’art. 23, comma 41 del DL n. 98/2011 (conv. L. n. 111/2011).
20/09/2011

Parte domani l’IVA al 21 per cento

Con un comunicato stampa di ieri sera, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha informato che il DL 13 agosto 2011 n. 138, con le modifiche apportate dalla legge di conversione 14 settembre 2011 n. 148, è stato inviato per la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale di oggi, 16 settembre. Pertanto, a partire da sabato 17 settembre, entrano in vigore le modifiche apportate dalla legge di conversione al citato DL 138/2011, ivi compreso l’innalzamento dell’aliquota ordinaria IVA dal 20 al 21%. Restano invece invariate le aliquote ridotte del 4 e del 10%. Il provvedimento in esame modifica l’art. 16 del DPR 633/72, disponendo testualmente che “L’aliquota dell’imposta è stabilita nella misura del ventuno per cento della base imponibile dell’operazione”. Ricordiamo che l’aliquota ordinaria era stata elevata dal 19 al 20 per cento, con decorrenza dal 1° ottobre 1997, dall’art. 1 DL 29 settembre 1997, n. 328. Quanto alla decorrenza, in estrema sintesi, rileva il momento in cui l’operazione posta in essere si considera effettuata ai fini IVA. Pertanto le cessioni di beni mobili si considerano effettuate all’atto della consegna o della spedizione; le cessioni di beni immobili si considerano effettuate all’atto della stipulazione del rogito notarile; le cessioni di beni (mobili e immobili) con effetti costitutivi o traslativi differiti rispetto agli eventi di cui sopra si considerano effettuate nel momento in cui si producono tali effetti, con il limite temporale di un anno per i beni mobili; le prestazioni di servizi si considerano effettuate con il pagamento del corrispettivo, indipendentemente dall’avvenuta esecuzione, in tutto o in parte, della prestazione. Il soggetto IVA può ricorrere alla fatturazione differita al giorno 15 del mese successivo a quello di consegna o spedizione dei beni nel caso in cui i beni siano accompagnati dal DDT, di conseguenza si applica l’aliquota ordinaria del 21%, se la consegna o spedizione dei beni avviene a partire dal 17 settembre. Sempre in applicazione dei principi generali del tributo, gli acconti pagati prima del 17 settembre sono soggetti all’aliquota del 20%, mentre al saldo, pagato dopo, si applica l’aliquota del 21%. Le note di variazione emesse dal 17 settembre devono riportare l’aliquota ordinaria del 20% se la fattura, oggetto di rettifica, relativa all’operazione originaria è stata emessa prima di tale data. Nel caso di cessioni di beni e di prestazioni di servizi realizzate nei confronti dello Stato e degli enti pubblici indicati dall’art. 6 comma 5 del DPR 633/72 (es. Regioni, Province, Comuni, ecc. ), l’IVA diventa esigibile alla data del pagamento del corrispettivo. Considerato che la fattura deve essere comunque emessa quando l’operazione si considera effettuata (es. consegna del bene), è stato previsto che il cedente/prestatore possa applicare l’aliquota IVA del 20% se la fattura viene emessa e annotata nel relativo registro (delle fatture emesse o dei corrispettivi) prima del 17 settembre.

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16/09/2011

Documentazione falsa: reato di truffa aggravata per la dichiarazione di supporto

L’allegazione di falsa documentazione rafforzata dalla dichiarazione volta ad avvalorare il dato non corrispondente al vero è suscettibile di integrare il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e non la meno grave fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 13 settembre 2011 n. 33841, alla luce delle indicazioni fornite da precedenti pronunce di legittimità. Appare opportuno, in primo luogo, chiarire il quadro normativo. Ai sensi dell’art. 640 commi 1 e 2 n. 1 c.p., chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 51 a 1.032 euro. La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 309 a 1.549 euro, tra l’altro, se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico. Ai sensi dell’art. 640-bis c.p. (inserito dall’art. 22 comma 1 della L. 55/90), la pena è della reclusione da uno a sei anni se il fatto di cui all’art. 640 c.p. riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. Più di recente, inoltre, l’art. 316-ter c.p. (inserito dall’art. 4 comma 1 della L. 300/2000) ha stabilito che, salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis c.p., chiunque, mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni (quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a 3.999,96 euro si applica soltanto la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.164 a 25.822 euro, che non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito). Si è posto, quindi, il problema di chiarire i rapporti tra quest’ultima fattispecie e quella di truffa ai danni dello Stato di cui all’art. 640-bis c.p. Sul tema i giudici di legittimità, nella sentenza 25 febbraio 2009 n. 8613, hanno precisato che la fattispecie criminosa di cui all’art. 316-ter c.p. costituisce norma sussidiaria rispetto al reato di truffa aggravata (artt. 640 commi 1 e 2 n. 1 e 640-bis c.p.), essendo destinata a colpire condotte che non rientrano nel campo di operatività di queste ultime. Ne consegue che la semplice presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere non integra necessariamente il primo delitto (art. 316-ter c.p.) ma, quando ha natura fraudolenta, può configurare gli “artifici o raggiri” descritti nel paradigma della truffa e, unitamente al requisito della “induzione in errore”, può comportare la qualificazione del fatto ai sensi dell’artt. 640 o 640-bis c.p. (cfr. anche Cass. 6 luglio 2006 n. 23623). La linea di discrimine tra il reato di cui all’art. 316-ter c.p e quello di cui all’art. 640-bis c.p. va, quindi, ravvisata nella mancata inclusione tra gli elementi costitutivi del primo reato dell’effetto dell’induzione in errore del soggetto passivo, presente invece nel secondo. Occorre dunque guardare alle regole formali del procedimento di concessione del contributo (o di altra erogazione): se il contributo consegue alla mera presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere o all’omissione di informazioni dovute, senza che rilevi che l’ente pubblico possa essere tratto in errore da tale condotta, è integrato il reato di cui all’art. 316-ter c.p.; se, invece, l’erogazione del contributo da parte dell’ente pubblico è l’effetto di un’induzione in errore circa i presupposti che lo legittimano, dato che le regole del relativo procedimento amministrativo non fanno derivare dalla presentazione della dichiarazione un’automatica conseguenza circa l’erogabilità di esso, è integrato il reato di cui all’art. 640-bis c.p. (così Cass. 24 luglio 2007 n. 30155). D’altra parte, anche il silenzio o il mendacio possono integrare l’elemento oggettivo del reato di truffa in relazione, il primo, all’omesso adempimento di un obbligo di comunicazione e, il secondo, allo specifico affidamento che quella condotta può, ex lege” ingenerare (così Cass. 25 febbraio 2009 n. 8613). La valutazione sulla connotazione della condotta va comunque effettuata, caso per caso, dai giudici del merito e quando questi hanno congruamente motivato circa la ricorrenza in concreto degli elementi distintivi che definiscono il più grave reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, la qualificazione giuridica del fatto non è censurabile in sede di legittimità. A fronte di tutto ciò, la sentenza in commento ha ritenuto correttamente assolto dai giudici di merito tale obbligo di motivazione attraverso l’osservazione che l’artificio rappresentato dall’allegazione di falsa documentazione era rafforzato dalla dichiarazione – presentata dall’imputata – volta ad avvalorare il dato non corrispondente al vero. Condotta che andava a rappresentare proprio l’elemento ulteriore finalizzato a indurre in errore il soggetto passivo.
14/09/2011

IVA al 21% e contributo di solidarietà sopra 300.000 euro

Alla fine, di nuovo un maxiemendamento su cui il Governo ha posto la questione di fiducia. Con modifiche che costituiscono sia un passo indietro, con il ritorno a norme già in un primo momento inserite nel Ddl. di conversione del DL n. 138/2011 e poi cancellate, sia un ritorno sui propri passi, con l’inserimento di misure di cui si è parlato tanto nei giorni scorsi, tra dubbi e smentite. L’ennesimo capitolo della manovra-bis è stato scritto ieri, quando sarebbe dovuto partire l’esame, all’Aula del Senato, del Ddl. n. 2887 di conversione. L’esame è iniziato, ma in un certo senso, “a vuoto”. Perché, nel corso di una riunione del Consiglio dei Ministri, il Governo ha deciso di porre la questione di fiducia, che verrà votata oggi in Senato, sul testo, con alcune aggiunte, come reso noto da Palazzo Chigi:
- aumento di un punto percentuale dell’IVA, dal 20 al 21%;
- contributo di solidarietà del 3% sopra i 300mila euro di reddito annuo;
- adeguamento delle pensioni delle donne nel settore privato a partire dal 2014.
Inoltre, nella riunione è stato deciso che giovedì il Consiglio dei Ministri approverà l’introduzione in Costituzione della “regola d’oro” sul pareggio di bilancio e l’attribuzione alle Regioni delle competenze delle Province. In un primo momento, il contributo di solidarietà, che dovrebbe restare deducibile come nella prima versione poi cancellata, era stato stabilito per redditi superiori a 500mila euro, ma la soglia è stata abbassata a 300mila, per aumentare l’importo di gettito stimato. In Italia, secondo quanto si è appreso da fonti governative, i contribuenti italiani che dichiarano un reddito annuo superiore a 500mila euro l’anno sarebbero 11mila, su oltre 41 milioni di dichiarazioni dei redditi presentate. Di questi, 3.641 sarebbero titolari di partita IVA, mentre 2.700 di loro percepirebbero un reddito annuo superiore a un milione di euro l’anno. La decisione di abbassare la soglia a 300mila euro consente un aumento del gettito stimato: i contribuenti che superano tale cifra sarebbero infatti 34.000, di cui l’8,5% dipendenti pubblici, il 53% dipendenti del privato e 38,5% lavoratori autonomi. Nel maxiemendamento, inoltre, potrebbe rientrare anche un ritocco su una delle misure in materia di diritto penale tributario, quella relativa all’inapplicabilità dell’istituto della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 163 c.p. in caso di imposta evasa o non versata superiore a 3 milioni di euro, con riguardo ai delitti previsti dagli artt. 2-10-quater del DLgs. n. 74/2000. In base alla modifica, infatti, non solo l’evasione deve ammontare a tale cifra, ma dovrebbe anche corrispondere al 30% del fatturato. L’aumento dell’IVA è sicuramente il grosso del nuovo pacchetto, poiché si tratta di una misura che permette di fare cassa subito e andrà a miglioramento dei saldi, anche se non potrà più essere “spesa” per la delega alla riforma fiscale, come in un primo tempo stabilito. In tarda serata, è arrivata l’approvazione da parte dell’Unione europea, che si augura che la manovra sia approvata al più presto per contribuire ad allentare la pressione dei mercati. La Commissione UE, mediante comunicato, ha infatti dato il benvenuto alle novità annunciate, sottolineando in particolare l’importanze degli interventi in materia di pensioni, di abolizione delle Province e per l’inserimento nella Costituzione del principio del pareggio di bilancio. Le misure “confermano la determinazione delle autorità italiane a raggiungere gli obiettivi concordati per la riduzione del deficit e del debito e contribuiscono – si legge nel comunicato – ad affrontare le profonde e radicate debolezze strutturali dell’economia italiana”. Tornando ai confini italiania, critici, sulle novità inserite ieri, opposizione e sindacati, questa volta non solo la CGIL, mentre plausi sono arrivati da Confindustria. Per attenuare la pressione dei mercati, la volontà del Governo è incassare il voto di fiducia sul maxiemendamento oggi, in Senato, per un veloce passaggio blindato alla Camera.

07/09/2011

Non operative le società in perdita per due esercizi

A partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto in argomento (ossia, il 2012 per i soggetti “solari”) l’aliquota IRES dovuta dai soggetti che non superano la verifica di operatività basata sui ricavi verrà applicata con una maggiorazione del 10,50% sul reddito minimo determinato in applicazione del comma 3 dell’art. 30 della L. 724/94 (ossia, su di un reddito presunto). La maggiorazione si applicherà anche sulla parte di reddito imputato da società di persone (snc e sas), che risultano non operative, alle società di capitali. Si segnala che non sono state modificate le percentuali applicabili ai beni di comodo ai fini della verifica di operatività: pertanto, occorre sempre che l’ammontare complessivo di ricavi, di incrementi delle rimanenze e di proventi (esclusi i proventi straordinari) risultanti dal Conto economico non siano inferiori alla somma degli importi che risultano applicando:
- il 2% al valore di azioni e quote, strumenti finanziari, obbligazioni, altri titoli e delle quote di partecipazione in società di persone, anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato dei valori dei crediti;
- il 6% al valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e navi, anche in locazione finanziaria;
- il 15% al valore delle altre immobilizzazioni, anche in locazione finanziaria.
Restano ferme le novità per i soggetti che hanno esercitato le opzioni per la tassazione di gruppo ex art. 117 del TUIR oppure quella della trasparenza fiscale ai sensi dell’art. 115 o dell’art. 116 del medesimo TUIR, mentre il regime delle società in perdita sistemica viene leggermente modificato anche perché con la precedente formulazione non sarebbe stato possibile alcun coordinamento con l’art. 84 del TUIR. In particolare secondo la nuova disposizione la maggiorazione del 10,50% trova applicazione anche se si supera il test dei ricavi previsto dall’art. 30, comma 1 della L. 724/94, ma le società presentano le dichiarazioni dei redditi in perdita fiscale per tre periodi di imposta consecutivi. Inoltre si applica qualora nell’arco di tre esercizi consecutivi le società siano per due periodi di imposta in perdita fiscale ed in uno abbiano dichiarato un reddito un reddito di impresa inferiore all’ammontare del reddito minimo determinato secondo i criteri previsti dal comma 3 dell’art. 30 della L. 724/94. Quindi, l’inasprimento del regime fiscale viene confermato, ma almeno è stata stralciata l’equiparazione delle società con un reddito basso con quelle in perdita.
05/09/2011

L'indennità di maternità per gli iscritti alla gestione commercianti

Il diritto all’indennità di maternità spetta alla lavoratrice autonoma, che esercita attività commerciale, solo dopo l’iscrizione – e più precisamente dopo la richiesta di iscrizione – negli appositi elenchi; e questa condizione vale anche se la domanda viene accettata con effetto retroattivo e accompagnata dal versamento dei contributi fin dall’inizio dell’attività. La ha stabilito la Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 17734 del 29 agosto 2011. Nel caso di specie, i giudici della Corte d’appello accoglievano la domanda di una lavoratrice autonoma, esercente attività commerciale, diretta al conseguimento dell’indennità di maternità erogata dall’INPS in relazione al parto avvenuto il 27 luglio 2000. L’Istituto previdenziale, al contrario, sosteneva che l’indennità in esame non spettasse alla lavoratrice autonoma, in quanto alla data del 27 ottobre 2000, giorno in cui era scaduto il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro – due mesi antecedenti e tre mesi successivi al parto avvenuto appunto il 27 luglio 2000 – la medesima non era ancora iscritta negli elenchi degli esercenti attività commerciali. Infatti, l’iscrizione venne richiesta dalla lavoratrice autonoma solamente il seguente 28 novembre 2000, e secondo l’INPS non ha alcuna importanza il fatto che a tale iscrizione fosse poi stata riconosciuta efficacia retroattiva a decorrere dal mese di aprile del 1999. Tuttavia, nella motivazione, i giudici di merito precisavano che la natura costitutiva del provvedimento di iscrizione negli elenchi degli esercenti attività commerciali non veniva meno se la relativa domanda era stata effettuata in ritardo, considerando, inoltre, che l’iscrizione stessa era stata accettata con effetto retroattivo e accompagnata, oltretutto, dal versamento dei contributi fin dall’inizio dell’attività. A questo punto, l’INPS ricorre in Cassazione con un solo motivo, denunciando la violazione e la falsa applicazione dell’artt. 66 e 68 del DLgs. 26 marzo 2001 n. 151, ovvero le norme che disciplinano l’indennità di maternità per le lavoratrici autonome e le imprenditrici agricole. In sintesi, l’INPS chiede alla Suprema Corte se l’indennità giornaliera di maternità, prevista dalle predette norme per i due mesi precedenti la data presunta del parto, nonché per i tre mesi successivi all’evento, può essere o meno erogata da una data anteriore a quella in cui è stata proposta la domanda di iscrizione negli elenchi degli esercenti attività commerciali. Per la Corte di Cassazione il ricorso è fondato e merita accoglimento. Infatti, i giudici di legittimità fanno riferimento ad un consolidato orientamento giurisprudenziale – esemplificato dalla sentenza Cass. Sez. Lavoro 12 ottobre 2005 n. 19792 – secondo il quale, con riferimento alle lavoratrici autonome, l’iscrizione negli elenchi è l’elemento integrativo della fattispecie occorrente per la nascita del rapporto previdenziale, conseguentemente l’indennità di maternità non può essere erogata a partire da una data anteriore a quella in cui è stata proposta la domanda di iscrizione negli elenchi stessi. Inoltre, come fa osservare la Suprema Corte, il rischio, che è il presupposto essenziale di ogni forma di assicurazione, è quello del possibile futuro verificarsi di un evento pregiudizievole e, nel caso in esame, l’evento tutelato dalla legge per le lavoratrici autonome non è costituito dallo stato di gravidanza, ma dall’incapacità lavorativa presunta ex lege per i due mesi antecedenti al parto e per i tre mesi successivi. Di conseguenza, si presuppone che, nel momento in cui si verifica l’evento indennizzabile, la lavoratrice risulti iscritta negli appositi elenchi, poiché la costituzione del rapporto previdenziale avviene solo con l’iscrizione nei medesimi. Pertanto, per i giudici della Corte di Cassazione, il diritto all’indennità in oggetto spetta solo dopo l’iscrizione, e più precisamente dopo la richiesta di iscrizione, mentre nel caso in esame questa fu presentata solo un mese dopo la scadenza del termine del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, per cui i giudici di merito hanno erroneamente affermato la sussistenza del diritto all’indennità in esame anche per il periodo anteriore.
05/09/2011

Responsabilità "limitata" di liquidatori e soci... per debiti

Il liquidatore di una società estinta può essere chiamato a rispondere nei confronti del creditore insoddisfatto solo a condizione che questi dimostri l’esistenza, nel bilancio finale di liquidazione, di una massa attiva che sarebbe stata sufficiente a soddisfare il suo credito e che è stata, invece, distribuita ai soci, oppure di una condotta colposa o dolosa del liquidatore stesso cui sia imputabile la mancanza di tale massa attiva. Nelle società di capitali, inoltre, la successione nel lato passivo delle obbligazioni sociali (dalla società ai soci) non discende affatto dalla mera qualità di socio, ma si fonda sulla percezione, da parte di questo, di quota parte delle attività destinate alla soddisfazione dei creditori sociali. A precisarlo è il Tribunale di Milano, nella sentenza 8 marzo 2011 n. 3142, in relazione ad un caso in cui il creditore di una srl, in liquidazione dal 2001 e cancellata nel 2008, agiva, ex art. 2495 comma 2 c.c., nei confronti del liquidatore della società e di uno dei soci della srl (in via solidale o alternativa tra loro). Ai sensi della citata disposizione, infatti, ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. In particolare, al fine di recuperare il proprio credito, derivante da una sentenza pronunciata in suo favore nel 2006, veniva prodotto in giudizio il primo bilancio di liquidazione della società e si richiedeva l’emissione di un ordine di esibizione dei successivi bilanci. Il Tribunale rigetta, in primo luogo, la richiesta istruttoria di ordine di esibizione. Questa, infatti, risulta formulata in maniera palesemente “esplorativa”, dal momento che nulla è dedotto in ordine all’effettiva predisposizione e pubblicazione dei bilanci in questione; bilanci che, in ogni caso, lo stesso creditore avrebbe potuto e dovuto acquisire. Sulla base del materiale probatorio dedotto in atti, inoltre, viene rigettata anche la domanda di merito. Come già affermato in giurisprudenza (cfr. Trib. Perugia 17 novembre 2009 e Trib. Milano 24 gennaio 2007), con soluzione condivisa in dottrina, il liquidatore può essere chiamato a rispondere nei confronti del creditore insoddisfatto solo a condizione che questi dimostri l’esistenza, nel bilancio finale di liquidazione, di una massa attiva che sarebbe stata sufficiente a soddisfare il suo credito e che è stata, invece, distribuita ai soci, oppure di una condotta colposa o dolosa del liquidatore stesso cui sia imputabile la mancanza di tale massa attiva. Nel caso di specie, però, il creditore non ha né prospettato né tanto meno provato una condotta del liquidatore causa diretta di danno nei suoi confronti, limitandosi a produrre il primo bilancio di liquidazione dal quale emergeva una situazione di patrimonio netto negativo e la mancanza di poste dell’attivo da cui ragionevolmente attendersi l’emergere di plusvalenze latenti. Resta la domanda nei confronti del socio; ma anche questa viene rigettata. La sentenza in commento, infatti, osserva come, nelle società di capitali, la successione nel lato passivo delle obbligazioni sociali non discenda affatto dalla mera qualità di socio, fondandosi sulla percezione, da parte di questo, di quota parte delle attività destinate alla soddisfazione dei creditori sociali. Vale a dire che è la concreta attribuzione patrimoniale, secondo il bilancio finale di liquidazione, ad implicare, ex lege, l’assunzione in capo al socio anche di una corrispondente quota parte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti. Detta attribuzione rappresenta non solo il “limite”, ma anche il “fondamento” della pretesa che può essere fatta valere dal creditore insoddisfatto. La misura di responsabilità fissata dalla norma, quindi, consegue dalla natura del fatto costitutivo del rapporto ovvero dall’attribuzione “indebita” in favore del socio. Ma l’onere della prova circa l’effettiva sussistenza del fatto costitutivo ovvero della suddetta indebita attribuzione non può che cadere su chi agisce in giudizio. A tali fini è possibile utilizzare un titolo esecutivo ottenuto nei confronti della società debitrice quando il contenuto della responsabilità dei soci è descritto nel bilancio finale di liquidazione e dal momento che, all’interno del processo di esecuzione, il creditore procedente sarebbe pur sempre chiamato a dimostrare il presupposto della responsabilità stessa ovvero l’entità della quota di liquidazione attribuita al socio. Ma sono proprio questi gli elementi che mancano nel caso di specie, dove il creditore si è limitato a produrre il primo bilancio di liquidazione, richiedendo, ai fini dell’esame degli ulteriori bilanci di liquidazione, un provvedimento istruttorio inammissibile perché tipicamente esplorativo, nel tentativo – sottolinea il Tribunale di Milano – di scoprire se, in ipotesi, dai bilanci in oggetto potessero emergere i presupposti di una successione del socio negli obblighi propri della società estinta.
31/08/2011

La supremazìa degli studi di settore

È nullo l’avviso di accertamento fondato sulla ricostruzione indiretta del volume d’affari del contribuente, attuata attraverso l’utilizzo di stime e medie aritmetiche, se i ricavi così accertabili sono di poco superiori a quelli dichiarati ed il soggetto controllato risulta congruo con gli studi di settore. Lo ha stabilito la C.T. Prov. di Alessandria, con la sentenza n. 74/3/11 del 28 luglio 2011. Una pizzeria veniva sottoposta a controllo da parte del competente Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, che, dopo aver rilevato la congruità dei ricavi da questa dichiarati con le risultanze degli studi di settore, procedeva comunque ad accertamento analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lettera d), ultimo periodo del DPR 600/1973. In particolare, il Fisco, dopo aver rilevato il consumo medio per persona delle bevande maggiormente vendute (coca-cola, vino, acqua minerale, ecc.), sulla base degli acquisti di tali prodotti, giungeva a determinare il numero complessivo dei pasti somministrati nell’anno oggetto di controllo. Valorizzando tale ultimo dato con il prezzo medio dei pasti, desunto dalle fatture e ricevute fiscali, l’Ufficio perveniva alla determinazione di ricavi superiori a quelli dichiarati di circa 11.000 euro. Avverso tale accertamento, la pizzeria proponeva ricorso alla C.T. Prov., denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 sopra menzionato, nonché l’omessa attivazione del contraddittorio. Il Collegio ha osservato, innanzitutto, che l’utilizzo di medie aritmetiche anziché ponderate, come nel caso di specie, conduce inevitabilmente a risultati approssimativi; inoltre, nel procedimento ricostruttivo adottato dall’Ufficio, le medie erano state impiegate sia per il calcolo del prezzo del pasto che per la stima del consumo pro-capite delle varie bevande. A fronte dell’utilizzo massiccio di medie e stime, peraltro, il risultato a cui era pervenuto l’Ufficio corrispondeva ad uno scostamento rispetto ai ricavi dichiarati solo del 2,4% (11.210 euro di maggiori ricavi accertati su 453.170 euro dichiarati). Secondo i Giudici di prime cure, tale procedimento accertativo non poteva sorreggere idoneamente la pretesa erariale da esso emergente, giacché una così ridotta divergenza del risultato rispetto alla situazione dichiarata dal contribuente ben poteva semplicemente ricondursi all’inevitabile presenza di margini di errore caratteristici di un simile procedimento presuntivo. Ciò – secondo la C.T. Prov. – assumeva ancora maggior rilevanza in considerazione del fatto che il contribuente risultava congruo con i risultati degli studi di settore, che costituiscono certamente uno strumento presuntivo molto più sofisticato di qualsivoglia procedimento analitico-induttivo effettuato dall’Ufficio e fondato su combinazioni di stime e medie aritmetiche. L’accertamento di tipo analitico con presunzione, di cui al summenzionato art. 39, che include anche l’accertamento fondato sugli studi di settore (ex art. 62-sexies del DL 331/1993), in effetti, richiede, ai fini della sua valida, la sussistenza di presunzioni qualificate (gravi, precise e concordanti). Se, come chiarito dalla Cassazione (cfr. Cass. 26635/2009), gli studi di settore, pur nella loro raffinatezza elaborativa, non sono sufficienti, di per sé, ad integrare una simile presunzione, ma lo divengono soltanto in esito al contraddittorio che deve essere obbligatoriamente attivato con il contribuente, è evidente che una procedura accertativa di tipo analitico-induttivo, fondata su stime e medie, per di più aritmetiche, che costituiscono certamente uno strumento presuntivo molto più “grezzo” rispetto agli studi di settore, non possa essere ritenuta idonea, ex se, a supportare la relativa pretesa impositiva, in assenza di altri elementi probatori convergenti e di contraddittorio con il contribuente. Ciò, poi, vale ancor di più quando il risultato di tale procedura accertativa sia così modesto da potersi facilmente ricondurre al margine di errore insito nella stessa.
29/08/2011

Per le operazioni esenti iva il reverse charge non é obbligatorio

A seguito del riordino dei criteri di collegamento con il territorio dello Stato operato dal DLgs. n. 18/2010, è stato previsto l’obbligo di emissione della fattura anche per le prestazioni di servizi c.d. “generiche”, escluse da IVA in Italia in quanto territorialmente rilevanti nel (diverso) Paese di stabilimento del committente, soggetto passivo. In base all’art. 21, comma 6 del DPR n. 633/1972, tale obbligo è limitato all’ipotesi in cui il servizio sia reso ad un committente comunitario e, in fattura, il prestatore italiano deve riportare il codice identificativo IVA del destinatario (art. 21, comma 2, lett. f-bis). Come indicato dalla Relazione di accompagnamento al DLgs. n. 18/2010, la fatturazione è preordinata alla presentazione dei modelli INTRA 1-quater e INTRA 2-quater. Di conseguenza, ancorché la norma non conceda deroghe, è legittimo non emettere fattura nei casi in cui la prestazione, resa al committente comunitario, sia esclusa dal monitoraggio. Tale circostanza ricorre quando non è dovuta l’imposta nel Paese di destinazione (art. 50, comma 6 del DL n. 331/1993 e art. 5, comma 4 del DM 22 febbraio 2010). Affinché l’operatore italiano sia esonerato dall’obbligo di fatturazione, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 43/2010 richiede, quale ulteriore condizione, che “l’operazione, ove fosse territorialmente rilevante in Italia, beneficerebbe di un regime di esonero dall’obbligo di fatturazione”, come quello riconosciuto per determinate tipologie di operazioni esenti (art. 22, comma 1, n. 6) anche a seguito di opzione ex art. 36-bis del DPR n. 633/1972; in questo modo si evita che alle operazioni irrilevanti ai fini territoriali sia riservato un trattamento, a livello di obblighi “formali”, più oneroso di quello previsto per le operazioni interne di identica natura. Con la più recente circolare n. 37/2011, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che la fattura non è obbligatoria per le prestazioni escluse dagli elenchi riepilogativi, “cioè nel caso in cui le operazioni siano esenti o comunque non assoggettate a IVA nello Stato del committente”. Anche se risulta omesso ogni riferimento all’ulteriore condizione sopra richiamata, si ritiene che la stessa debba in ogni caso ricorrere, di modo che le prestazioni esenti aventi come destinatario un soggetto passivo comunitario non vanno fatturate se, come detto, per le corrispondenti operazioni interne non è prevista l’emissione della fattura. Così come, dal lato attivo, l’obbligo di fatturazione imposto dalla normativa è derogato a livello interpretativo, allo stesso modo, ma questa volta dal lato passivo, l’obbligo di “reverse charge” (autofatturazione o integrazione della fattura ricevuta, se trattasi di servizio “generico”) previsto dall’art. 17, comma 2 del DPR n. 633/1972 risulta derogato, sempre sul piano amministrativo, quando il servizio reso al cessionario/committente italiano sia riconducibile alle operazioni esenti che, dal lato attivo, beneficiano del regime di esonero dall’obbligo di fatturazione. Sul punto, la circolare 37/2011 estende – simmetricamente – la portata dell’indicazione offerta nella precedente circolare 43/2010, considerando l’ipotesi in cui il servizio esente, anziché essere reso dall’operatore italiano, sia da quest’ultimo ricevuto, con ciò confermando la conclusione che, per i servizi (esenti) resi dal prestatore italiano, la fattura non è obbligatoria se ricorre la condizione di esonero di cui all’art. 22 del DPR n. 633/1972 o la dispensa di cui al successivo art. 36-bis. Esemplificando, il finanziamento erogato alla società italiana da un istituto finanziario tedesco non deve essere autofatturato perché si tratta di un servizio di natura esente ex art. 10, comma 1, n. 1) che, se fosse reso (anziché ricevuto) dalla società stessa, rientrerebbe nell’esonero di cui all’art. 22, comma 1, n. 6). Risulta, pertanto, superata la posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 12/2010 (risposta 3.1), posto che l’obbligo di reverse charge per le operazioni esenti ivi affermato va adeguatamente limitato alle transazioni soggette a fatturazione.
25/08/2011

Contributi in conto capitale tra "impianti" e "sopravvenienza"

Il trattamento fiscale dei contributi relativi ad immobilizzazioni materiali differisce a seconda che i contributi siano diretti o meno all’acquisto di beni strumentali ammortizzabili, nonostante contabilmente abbiano indistintamente natura di contributi in conto capitale. Secondo il documento OIC n. 16, § F.I , per “contributi in conto capitale commisurati al costo delle immobilizzazioni materiali” si intendono “le somme erogate dallo Stato e da altri enti ad imprese per la realizzazione di iniziative dirette alla costruzione, alla riattivazione ed all’ampliamento di immobilizzazioni materiali, commisurati al costo delle medesime. Trattasi di contributi per i quali, di solito, l’impresa che ne beneficia ha il vincolo a non distogliere dall’uso previsto per un determinato tempo, stabilito dalle leggi che li concedono, le immobilizzazione materiali cui si riferiscono”. Con riferimento alle modalità di contabilizzazione, i contributi in conto capitale devono essere rilevati a Conto economico con un criterio sistematico, gradatamente in relazione alla residua possibilità di utilizzazione dei cespiti cui si riferiscono (documento OIC n. 16, § F.II.a). In applicazione di tale criterio, i contributi possono essere rilevati con due metodi: imputati al Conto economico tra gli “Altri ricavi e proventi” (voce A.5), vengono rinviati per competenza agli esercizi successivi attraverso l’iscrizione di risconti passivi (metodo dei risconti); oppure portati a riduzione del costo dei cespiti a cui essi si riferiscono (metodo della rappresentazione netta). Con il primo metodo, quindi, sono imputati al Conto economico ammortamenti calcolati sul costo lordo dei cespiti ed altri ricavi e proventi per la quota di contributo di competenza dell’esercizio; con il secondo, invece, sono imputati al Conto economico solo ammortamenti determinati sul costo netto del cespite. Sotto il profilo fiscale, i contributi in conto capitale possono qualificarsi come contributi in conto impianti oppure contributi sopravvenienza attiva ex art. 88, comma 3, lett. b) del TUIR (altri contributi in conto capitale). Soffermandoci sul primo punto, sono definiti contributi in conto impianti quelli la cui erogazione è subordinata all’acquisizione o realizzazione di beni strumentali ammortizzabili (cfr. ris. Agenzia delle Entrate 29 marzo 2002 n. 100). Tali contributi rappresentano una categoria a sé, non costituendo, infatti, né ricavi (ai sensi dell’art. 85, comma 1, lett. g) ed h) del TUIR), né sopravvenienze attive di cui all’art. 88, comma 3, lett. b) del TUIR. Fiscalmente, essi concorrono alla formazione del reddito in base all’ammortamento dei beni cui si riferiscono, recependo i criteri civilistici che ne regolano l’imputazione in Conto economico. Pertanto, se i contributi sono imputati direttamente alla voce A.5 del Conto economico, occorre riscontare tale ricavo al fine di farlo partecipare al reddito secondo il principio della competenza e, cioè, per tutta la durata dell’ammortamento del bene acquisito. Per contro, se il contributo viene portato a riduzione del costo dei cespiti a cui si riferisce, l’ammortamento deve essere calcolato sul costo netto del cespite. In questo modo il contributo concorre a formare il reddito sotto forma di minori quote di ammortamento deducibili nei periodi d’imposta di utilizzo del bene.
22/08/2011

Le operazioni della casa madre con la stabile organizzazione IVA

Per effetto dell’entrata in vigore del Regolamento del Consiglio UE n. 282/2011, il sistema dell’imposta sul valore aggiunto ha trovato una definizione puntuale di “stabile organizzazione”, nozione decisiva al fine di valutare la territorialità delle operazioni in ambito comunitario. Una delle situazioni più complesse a tale scopo si verifica laddove le operazioni siano effettuate dalla casa madre estera. In questo caso, infatti, con riferimento alle operazioni che coinvolgono esclusivamente soggetti passivi, occorrerà distinguere l’ipotesi in cui la stabile organizzazione partecipa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi della casa madre da quella in cui ciò non avviene. E' necessario premettere che si considera che una stabile organizzazione nel territorio dello Stato membro in cui è dovuta l’IVA partecipi alle operazioni della casa madre allorché i mezzi tecnici o umani della stessa siano utilizzati dalla casa madre per operazioni inerenti alla realizzazione della cessione di beni o della prestazione di servizi imponibile effettuata in tale Stato membro, prima o durante la realizzazione di detta cessione o prestazione (art. 53 del Regolamento del Consiglio UE n. 282/2011). Non potrà aversi, invece, “partecipazione” nel senso sopra indicato allorché i mezzi della stabile organizzazione siano utilizzati unicamente per funzioni di supporto amministrativo, quali la contabilità, la fatturazione e il recupero crediti. Tuttavia, laddove venga emessa fattura con il numero IVA della stabile organizzazione, si considera in ogni caso che quest’ultima abbia partecipato all’operazione della casa madre (art. 53 del Regolamento n. 282/2011). Ebbene, in caso di cessioni di beni e/o di prestazioni di servizi rese nei confronti di soggetti passivi nazionali, se le operazioni sono effettuate direttamente dalla casa madre estera, senza la partecipazione della stabile organizzazione esistente nel nostro Paese, tutti gli obblighi IVA dovranno essere adempiuti dai cessionari o dai committenti in base al meccanismo del cosiddetto reverse charge di cui all’articolo 17, secondo comma, del DPR 633/72. Diversamente, se la stabile organizzazione partecipa alle operazioni della casa madre estera, debitore dell’IVA é il soggetto estero, il quale assolverà ai propri adempimenti attraverso la propria stabile organizzazione in Italia (si veda, al riguardo, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 37 del 29 luglio 2011). La “partecipazione” o meno della stabile organizzazione ubicata in Italia all’operazione della casa madre estera non rileva più laddove le operazioni realizzate in Italia da quest’ultima abbiano come destinatari privati o soggetti non stabiliti in Italia. In quest’ultima ipotesi, infatti, la stabile organizzazione italiana dovrà provvedere a tutti gli adempimenti IVA, utilizzando una serie distinta di numerazione per le fatture non riferibili alle operazioni poste in essere attraverso la stabile organizzazione e gestendo, quindi, tali operazioni in contabilità separata (in tal senso la citata circolare n. 37/2011). Analogo obbligo di contabilità separata in capo al soggetto nazionale sussiste, infine, con riferimento all’ipotesi di prestazioni di servizi territorialmente rilevanti in Italia rese da un soggetto italiano attraverso una propria stabile organizzazione all’estero.
22/08/2011

La natura del contributo determina il versamento in conto esercizio o capitale

Il momento di incasso non rileva né sotto il profilo contabile né sotto quello fiscale. I contributi ricevuti dalle imprese sono soggetti a un trattamento contabile e fiscale differente a seconda della loro “corretta” classificazione, spesso non facile da realizzare. In linea generale, da un punto di vista economico-aziendale, i contributi sono suddivisibili in contributi “in conto esercizio” e “in conto capitale”; sotto il profilo fiscale, invece, si distinguono i contributi-ricavi, i contributi-sopravvenienza attiva e i contributi in conto impianti. Tanto premesso, sono definiti “in conto esercizio” i contributi che hanno natura di integrazione di ricavi oppure di riduzione di costi e oneri della gestione caratteristica o delle gestioni accessorie, diverse da quella finanziaria (cfr. documento interpretativo n. 1 del documento OIC n. 12 , paragrafo A.5). I contributi in conto esercizio sono dovuti sia in base alla legge sia in base a disposizioni contrattuali e devono essere rilevati per competenza – non, quindi, per cassa – nell’esercizio in cui è sorto con certezza il diritto alla loro percezione; tale momento può essere anche successivo all’esercizio al quale essi sono riferiti. Ai sensi dell’art. 2425 c.c., i contributi devono essere iscritti, separatamente, nella voce A.5 del Conto economico. Qualora i contributi siano erogati in occasione di fatti eccezionali (calamità naturali come terremoti, alluvioni, ecc.), gli stessi dovranno essere rilevati tra i proventi straordinari, nella voce E.20 di Conto economico. Tra i contributi in conto esercizio rientrano anche i cosiddetti contributi in conto interessi, ossia quelli, aventi natura finanziaria, che riducono l’onere degli interessi passivi di finanziamento; tali contributi trovano collocazione nella voce C.17 “Oneri finanziari” del Conto economico. Laddove i contributi siano rilevati in esercizi successivi a quello di contabilizzazione degli interessi passivi, gli stessi devono essere indicati nella voce C.16 “Altri proventi finanziari” di Conto economico. Si osserva, altresì, che secondo lo IAS n. 20 (paragrafo 29), i contributi in conto esercizio possono essere rilevati secondo due metodologie: la prima prevede l’iscrizione del contributo come componente positivo nel Conto economico, come voce distinta o all’interno di una voce generica “Altri proventi”; la seconda consiste nel portare il contributo in deduzione del costo correlato. Anche fiscalmente vige la competenza. Sotto il profilo fiscale, ai sensi dell’art. 85 comma 1 lett. g) e h) del TUIR, i contributi spettanti in base ad accordi contrattuali e quelli “spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge” generano ricavi; essi concorrono, quindi, alla formazione del reddito secondo il generale principio di competenza di cui all’art. 109 del TUIR, indipendentemente dalla data del loro effettivo incasso. Per quanto sopra esposto in riferimento ai profili contabili, iscrivendo in bilancio il contributo per competenza, non sarà necessario effettuare alcuna variazione fiscale in sede di determinazione del reddito. Occorre peraltro ricordare che, ai sensi dell’art. 28 comma 2 del DPR 600/73, “le regioni, le province, i comuni, gli altri enti pubblici e privati devono operare una ritenuta del quattro per cento a titolo di acconto delle imposte indicate nel comma precedente e con obbligo di rivalsa sull’ammontare dei contributi corrisposti ad imprese, esclusi quelli per l’acquisto di beni strumentali”. La ritenuta operata dall’ente erogante è quindi pari al 4% dell’ammontare del contributo lordo concesso all’impresa. Tale ritenuta è applicata a titolo di acconto dell’IRES (o dell’IRPEF se il percipiente è un imprenditore individuale o una società di persone).
19/08/2011

EUROPA: Nasce la stabile organizzazione ai fini IVA

Il Regolamento del Consiglio UE n. 282/2011 ha sostituito il precedente regolamento n. 1777 del 2005, prevedendo, oltre a disposizioni già presenti in passato, alcune novità, vincolanti a partire dal 1° luglio 2011. In particolare, con detto Regolamento è stata finalmente fornita una definizione di stabile organizzazione valida nel sistema IVA. Quest’ultima deve ora identificarsi con qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività, caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e da una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie, nonché di provvedere ai servizi di cui assicura la prestazione. La sola disponibilità di un numero di identificazione ai fini IVA non è, dunque, di per sé, sufficiente a far supporre l’esistenza di una stabile organizzazione (art. 11 del Regolamento). La sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 28 giugno 2007, causa C-73/06, fornisce un utile esempio di elencazione di criteri per l’individuazione di una stabile organizzazione con riferimento a un’attività di trasporto: a tal fine occorre, infatti, che vi sia quantomeno un ufficio in cui possano essere redatti contratti o prese decisioni amministrative di gestione quotidiana, nonché un luogo di deposito dei veicoli destinati alla relativa attività. Come appare evidente, la descritta nozione di “stabile organizzazione” non coincide con quella prevista ai fini delle imposte sui redditi, posto che quest’ultima si configura in presenza di mezzi tecnici o di mezzi umani, senza che gli stessi debbano necessariamente sussistere contemporaneamente (Cass. nn. 10925/2002 e 6799/2004). In materia di territorialità IVA, l’esigenza di individuare la presenza di una stabile organizzazione sorge in relazione all’acquisto e/o alla fornitura di servizi “generici” da parte e/o nei confronti di committenti soggetti passivi. Per queste operazioni, infatti, l’individuazione del committente (nel primo caso) e del prestatore (nella seconda ipotesi) è fondamentale ai fini dell’identificazione del luogo di imposizione dell’operazione. Laddove il committente sia stabilito in più di uno Stato, l’operazione dovrà considerarsi effettuata nello Stato in cui il committente ha fissato la sede della propria attività economica, salvo che la prestazione sia resa nei confronti di una stabile organizzazione del soggetto passivo, nel qual caso varrà il luogo in cui quest’ultima è ubicata (art. 21 del Regolamento n. 282/2011). Occorre riconoscere, al riguardo, che esistono nella pratica rilevanti difficoltà a comprendere se il soggetto con cui ci si relaziona sia la “casa madre” o una stabile organizzazione di quest’ultima. Ancora maggiori sono, poi, i problemi nell’individuazione dell’esatto committente in caso di soggetto con più stabili organizzazioni localizzate in più Paesi. In relazione a tale ultima ipotesi, l’art. 22 del Regolamento n. 282/2011 individua una serie di indagini che il fornitore deve effettuare per poter essere esonerato da ogni responsabilità laddove si evidenzi che il luogo effettivo di tassazione non corrisponde a quello preso in considerazione:
- indagare sulla natura e sull’utilizzazione del servizio fornito;
- esaminare il contratto, l’ordinativo e il numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro del destinatario comunicatogli da quest’ultimo, nonché a verificare se la stabile organizzazione sia l’entità che effettua il pagamento del servizio;
- considerare che i servizi siano forniti nel luogo in cui il destinatario ha stabilito la sede della propria attività economica qualora anche attraverso tale attività non sia possibile determinare la stabile organizzazione destinataria del servizio.
Diversamente da quanto previsto in passato, il soggetto estero non può più identificarsi direttamente o nominare un rappresentante fiscale in Italia qualora abbia una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Ciò precisato, facendo riferimento al sistema IVA nazionale e, quindi, alle operazioni territorialmente rilevanti in Italia, avremo che, nel caso in cui la stabile organizzazione agisca in quanto “soggetto passivo stabilito” in Italia, quest’ultima risulterà debitrice d’imposta sia nel caso di operazioni attive, sia nell’ipotesi di acquisti da soggetti non residenti, come un ordinario soggetto IVA nazionale; la stessa, conseguentemente, dovrà assolvere a tutti gli obblighi IVA previsti dall’ordinamento (fatturazione, registrazione, ecc.).
11/08/2011

Ravvedimento "sprint" entro i 15 giorni dalla scadenza

La cosiddetta “manovra correttiva” (DL 98/2011, conv. L. 111/2011) ha modificato l’art. 13 del DLgs. 471/97, estendendo alla generalità dei casi il “ravvedimento sprint”, concernente gli omessi versamenti di imposte risultanti dalla dichiarazione con un ritardo non superiore ai quindici giorni. Con la circ. 41/2011 (§ 10), l’Agenzia delle Entrate ha fornito interessanti specificazioni sulla nuova normativa. Ai sensi dell’art. 13 del DLgs. 471/97 ante “manovra correttiva”, era previsto che le sanzioni del 30% sui ritardi di versamenti di tributi sarebbero state ridotte ad un quindicesimo per ogni giorno di ritardo solo ove i crediti fossero stati garantiti da forme di garanzia reale o personale previste dalla legge. Formulata in tal modo, la norma aveva una ristretta applicazione, posto che operava, ad esempio, per i versamenti dell’imposta di successione, garantiti ex art. 38 del DLgs. 346/90, e per altre sporadiche fattispecie (versamenti derivanti da accertamento con adesione, che, nel sistema ante DL 98/2010, erano, al ricorrere di determinate circostanze, assistiti da garanzia, come aveva, a suo tempo, precisato la circ. 65/2011). Ora, il Legislatore ha espunto il riferimento ai crediti assistiti da garanzia, attribuendo così alla norma un’efficacia generalizzata. Pertanto, il beneficio, che si cumula con quello derivante dal ravvedimento operoso, opera, ad esempio, per i “lievi ritardi” in tema di versamenti a saldo o in acconto delle imposte risultanti dalla dichiarazione dei redditi. Nella circolare si precisa che “se, ad esempio, un versamento di euro 1.000 viene eseguito con due giorni di ritardo, sconta la sanzione del 4 per cento (30 x 2/15) pari ad euro 40. La riduzione della sanzione diminuisce all’aumentare dei giorni di ritardo, fino, ovviamente, ad annullarsi al quindicesimo giorno, tornando pari al 30 per cento (30 x 15/15)”. Trattandosi di disposizione sanzionatoria più favorevole nei confronti dei contribuenti, essa si applica anche alle violazioni commesse antecedentemente all’entrata in vigore del DL 98/2011, sempre che non sia divenuto definitivo l’eventuale provvedimento di irrogazione della sanzione. È stato anticipato che la disposizione in esame si aggiunge al ravvedimento operoso, disciplinato dall’art. 13 del DLgs. 472/97, che, in base alla lett. a), consente di fruire della riduzione della sanzione a un decimo del minimo edittale se la regolarizzazione avviene entro trenta giorni dalla commissione della violazione. Allora, “se un versamento di euro 1.000 viene eseguito con due giorni di ritardo ed il ravvedimento della sanzione è effettuato entro trenta giorni dalla scadenza, la sanzione sarà pari allo 0,4 per cento (30 x 2/15 x 1/10) pari ad euro 4”. L’Agenzia delle Entrate, infine, ricorda che il “nuovo” art. 13 del DLgs. 471/97 si applica a prescindere dal fatto che il contribuente si sia avvalso del ravvedimento operoso: se il contribuente non ne fruisce, l’Ufficio applicherà la sanzione per omesso versamento tenendo conto, se del caso, della riduzione a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo.
09/08/2011

Deducibilità della rivalsa per gli agenti di assicurazione

L’emanazione della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 35 del 27 luglio 2011, riguardante la c.d. “rivalsa” degli agenti di assicurazione dal lato della compagnia assicurativa, fornisce lo spunto per analizzare l’argomento anche sotto il profilo della fiscalità dell’agente. La rivalsa, espressamente prevista dalla contrattazione collettiva di settore, si sostanzia, di fatto, in una somma corrisposta dall’agente subentrante alla compagnia assicurativa per l’acquisizione del portafoglio polizze in precedenza gestito dall’agente uscente. In realtà, più che di acquisizione del portafoglio polizze sarebbe più corretto parlare di acquisizione del diritto di sfruttamento economico di tale clientela, posto che il portafoglio polizze stesso rimane di proprietà della società di assicurazione. Ciò posto, in mancanza di posizioni ufficiali da parte della prassi dell’Agenzia delle Entrate, in dottrina sono state ipotizzate tre soluzioni alternative.
La prima ipotesi considera il trasferimento del portafoglio polizze alla stregua di una cessione d’azienda, ma risulta quella probabilmente meno aderente alla natura giudica della rivalsa, in quanto, come in precedenza rilevato, non vi è il trasferimento della proprietà di beni o diritti, bensì la concessione del diritto di sfruttamento di un bene che rimane di proprietà della società di assicurazioni. Proprio in considerazione di tale fatto una seconda ipotersi é l’assimilazione della rivalsa al canone di affitto dell’azienda, soluzione che però si tende sempre più a scartare in virtù della difficile equiparazione del portafoglio polizze all’azienda, nell’accezione prevista dal codice civile e universalmente riconosciuta come valida anche ai fini fiscali. Si tende, perciò, ad ammettere in terza ipotesi che la rivalsa abbia natura di immobilizzazione immateriale. Rimane, però, la problematica di stabilire se essa rappresenti un vero e proprio bene immateriale, deducibile secondo le disposizioni dell’art. 103 del TUIR, ovvero una mera spesa pluriennale, deducibile secondo l’art. 108, comma 3 (ovvero, nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio).
Secondo la dottrina occorre distinguere a seconda che il mandato concesso all’agente subentrante sia a tempo determinato o indeterminato. Nel primo caso, si tende ad ammettere che la rivalsa rientri tra i diritti di concessione e gli altri diritti iscritti nell’attivo del bilancio (art. 103, comma 2, del TUIR) e sia, quindi, deducibile in capo all’agente subentrante in misura corrispondente alla durata di utilizzazione prevista dal contratto. Nel secondo, invece, mancando una vera e propria durata contrattuale, la rivalsa sarebbe equiparata all’avviamento (art. 103, comma 3, del TUIR), con conseguente deduzione per diciottesimi. Altre posizioni dottrinali sembrano, invece, non distinguere tra mandati di agenzia a tempo determinato o indeterminato, con conseguente deducibilità generalizzata secondo il regime dell’avviamento. Si tratta, tuttavia, di posizioni che potrebbero concretamente pregiudicare gli agenti ai quali sono attribuiti mandati di breve durata, i quali sarebbero vincolati a dedurre per ciascun esercizio un solo diciottesimo dell’importo totale della rivalsa.
03/08/2011

Territorialità IVA dei servizi

L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 37 del 29 luglio 2011, ha esaminato – in forma sistematica – le novità introdotte dal DLgs. n. 18/2010, di recepimento del c.d. “VAT package”, in materia di territorialità delle prestazioni di servizi e di reverse charge. L’interpretazione delle intervenute modifiche normative è stata effettuata anche alla luce del Reg. UE n. 282/2011, contenente le disposizioni di applicazione della Direttiva IVA, vincolanti per tutti i Paesi membri dal 1° luglio 2011. Come indicato dall’Agenzia, fino all’emanazione della circolare in commento non saranno sanzionabili i comportamenti tenuti dai contribuenti in difformità dal Regolamento comunitario. Passando ad analizzare i criteri territoriali applicabili, dal 1° gennaio 2010, alle prestazioni di servizi “generiche”, occorre distinguere a seconda che il committente sia o meno un soggetto passivo che agisce in quanto tale nel Paese in cui è stabilito. Per i servizi “B2B” è, pertanto, irrilevante sia il luogo di stabilimento del prestatore, sia il luogo di utilizzazione del servizio. Laddove il committente sia stabilito in altro Paese membro, la delocalizzazione della prestazione presuppone, innanzi tutto, che il prestatore sia in grado di dimostrare la soggettività passiva della controparte; a tal fine, l’operatore italiano deve ottenere, attraverso il sistema VIES, la conferma della validità del numero identificativo IVA comunicato dal committente comunitario, ovvero – direttamente da quest’ultimo – la richiesta di attribuzione del codice identificativo. Nei restanti casi, il prestatore, salvo che disponga di informazioni contrarie circa lo status del committente, è legittimato a qualificare la prestazione come territorialmente rilevante in quanto resa a un non soggetto passivo. Se il committente non è stabilito nella Comunità, la soggettività passiva può essere verificata attraverso l’apposita certificazione rilasciata dalle Autorità fiscali per accedere al “rimborso diretto” di cui all’art. 38-ter del DPR n. 633/1972. Dato che tale possibilità è ammessa solo per la Norvegia, la Svizzera e Israele, nei cui confronti opera la condizione di reciprocità richiesta dalla normativa in materia di rimborsi IVA, lo status di soggetto passivo del destinatario stabilito in un diverso Paese terzo può essere dimostrato attraverso l’eventuale numero identificativo rilasciato dalla competente Autorità fiscale oppure ricorrendo a qualsiasi altra prova attestante la soggettività passiva. Oltre allo status, il prestatore italiano deve verificare la destinazione del servizio in capo al committente, se cioè viene impiegato nell’attività economica svolta. Sul punto, il Regolamento stabilisce, da un lato, che un soggetto passivo o un ente non soggetto passivo assimilato a un soggetto passivo che riceve servizi destinati esclusivamente a un uso privato, ivi compreso l’uso dei suoi dipendenti, è considerato come un soggetto non passivo e, dall’altra, che l’utilizzo “misto” del servizio – per fini privati e imprenditoriali/professionali – si considera effettuato da un soggetto passivo. Alla luce di tali indicazioni, la presunzione di soggettività passiva prevista dalla norma interna per le società e gli enti deve essere opportunamente interpretata, dovendosi qualificare il committente come un non soggetto passivo se il servizio è destinato all’uso privato delle persone facenti parte degli organi delle società o enti, ovvero dei loro dipendenti. La verifica in esame, relativa alla qualità di soggetto passivo del committente, va effettuata tenendo conto della natura del servizio; se compatibile sia con la sfera privata, sia con la veste di soggetto passivo del committente, la prestazione si considera “B2B” se il committente (comunitario) ha comunicato il proprio codice IVA. Qualora il destinatario sia extracomunitario, la detassazione della prestazione presuppone che il prestatore acquisisca gli elementi che dimostrino l’utilizzo del servizio nell’attività economica del committente. L’ulteriore verifica richiesta al prestatore riguarda il luogo di stabilimento della controparte, identificato, di regola, con quello della sede legale, ove vengono prese le decisioni essenziali concernenti la gestione generale dell’impresa o dove si riunisce la direzione; anche la stabile organizzazione è idonea ad attrarre a tassazione il servizio di cui sia destinataria. Alla luce della disciplina di cui sopra, per le prestazioni di servizi “generiche” rese nei confronti di committenti non soggetti passivi IVA, la territorialità continua ad applicarsi – anche dopo le modifiche operate con effetto dal 2010 – in riferimento al luogo di stabilimento del prestatore.
Una parte significativa della circolare 37/2011 è dedicata all’analisi delle deroghe previste dagli artt. 7-quater e seguenti del DPR 633/72 al principio generale di rilevanza territoriale delle prestazioni di servizi che coinvolgono due soggetti passivi d’imposta (c.d. “rapporti B2B”) nello Stato di stabilimento del committente, previsto dall’art. 7-ter. L’Agenzia delle Entrate si sofferma, in primo luogo, sulle prestazioni di servizi relative agli immobili (art. 7-quater, comma 1, lettera a) del DPR 633/72), ribadendo che rientrano nella deroga – che collega la tassazione al luogo di ubicazione dell’immobile – le perizie e le prestazioni professionali di progettazione dei lavori immobiliari, mentre sono escluse le prestazioni di consulenza (es. parcelle di avvocati e commercialisti propedeutiche alla conclusione del contratto, ancorché specificamente afferenti l’immobile), che seguono invece il principio generale previsto dall’art. 7-ter. Sono, parimenti, attratte nel regime previsto dall’art. 7-quater le intermediazioni relative alla cessione o alla locazione/sublocazione dell’immobile, con esclusione però delle intermediazioni relative alle prenotazioni alberghiere (circostanza già evidenziata dalla risoluzione n. 48 del 1° giugno 2010), il cui regime rientra nella regola generale se il committente è soggetto passivo IVA, ovvero in quello previsto dall’art. 7-sexies, comma 1, lettera a) (tassazione nello Stato ove è sita la struttura alberghiera) se il committente è un privato. Da ultimo, viene chiarito che si considera “immobile”, ai sensi della disciplina comunitaria, qualsiasi bene che, pur comprendendo al suo interno beni mobili, non sia da questi separabile, o lo sia con interventi di adattamento antieconomici. Relativamente alle prestazioni di servizi riguardanti attività culturali, artistiche e simili (art. 7-quinquies del DPR 633/72), l’Agenzia ricorda che, a decorrere dal 1° gennaio 2011, esse rientrano nell’ambito del criterio generale di tassazione in base allo stabilimento del committente, ad eccezione dei servizi connessi all’accesso alle manifestazioni e dei relativi servizi accessori, tassati nel luogo di materiale esecuzione; l’Agenzia rileva, al riguardo, che gli artt. 32 e 33 del Regolamento 282/2011 fanno rientrare tra questi ultimi tutte le prestazioni che consentono un diritto d’accesso a spettacoli, rappresentazioni teatrali, fiere, concerti e così via, e che possono rientrare tra le prestazioni “connesse” quelle di ristorazione e pernottamento fornite nell’ambito della manifestazione. Con riferimento alla ristorazione e al catering (art. 7-quater, comma 1, lettere c) e d) del DPR 633/72), la circolare 37/2011, dopo aver ricordato che l’art. 6 del Regolamento prevede che si considerino tali solo le prestazioni di fornitura di cibi accompagnate da servizi di supporto atti a consentirne il consumo immediato (es. messa a disposizione del personale del catering), precisa che, per le prestazioni rese a bordo di navi, treni e aerei nell’ambito di trasporti effettuati nell’Unione, la territorialità è individuata in base allo Stato di partenza (diversamente, rileva la materiale esecuzione).
01/08/2011

Codici tributo per versare il contributo di soggiorno a Roma

Con la risoluzione n. 74 di ieri, l’Agenzia delle Entrate ha istituito i codici tributo per il versamento, tramite modello F24, del “contributo di soggiorno” a Roma, previsto dal DL n. 78/2010 (conv. L. n. 122/2010), nonché eventuali interessi e sanzioni.
I codici sono: “3936” Contributo di soggiorno; “3937” Interessi; “3938” Sanzioni.
Si ricorda, infatti, che l’art. 14, comma 16, lett. e) del citato DL ha previsto l’introduzione di un contributo di soggiorno a carico di chi alloggia nelle strutture ricettive della Capitale, fino a un importo massimo di 10 euro a notte. Con deliberazione 28 luglio 2010 n. 67, il Comune di Roma ha quindi introdotto il contributo a partire dal 1° gennaio 2011 e, con deliberazione 22 dicembre 2010 n. 38, ha approvato il relativo regolamento, in base al quale sono esenti dal pagamento i minori di 10 anni, chi pernotta negli ostelli per la gioventù, i malati e chi accompagna i degenti nelle strutture sanitarie. Il contributo, applicato fino a un massimo di 10 pernottamenti consecutivi, è pari a 2 euro al giorno per agriturismi, bed and breakfast, case e appartamenti per vacanze, case per ferie, residence e alberghi a 1, 2 e 3 stelle e a 3 euro al giorno nel caso di alberghi a 4 e 5 stelle; è invece applicato fino a un massimo di 5 pernottamenti consecutivi ed è pari a un 1 euro al giorno per le strutture ricettive all’aperto (campeggi e aree attrezzate per la sosta temporanea). In linea con quanto stabilito dall’art. 52 del DLgs. n. 446/97, per ciò che concerne la potestà regolamentare generale dei Comuni in materia di entrate, il regolamento disciplina anche le modalità di versamento del contributo, prevedendo la possibilità, per il gestore della struttura ricettiva, di versare le somme riscosse, entro 15 giorni dalla fine di ciascun semestre solare, anche mediante versamento unitario, di cui all’art. 17 del DLgs. n. 241/1997. La ris. n. 74 spiega che, in sede di compilazione del modello F24, i codici tributo vanno indicati nella sezione “ICI ed altri tributi locali” esclusivamente in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “Importi a debito versati”, con l’indicazione nel campo “codice ente/codice comune” del codice catastale del comune di Roma (H501). Il campo “Anno di riferimento” è valorizzato nel formato “AAAA”, con l’anno cui si riferisce il versamento.
27/07/2011

L’onere della prova per le ritenute previdenziali non versate

Ai fini della configurabilità, a carico del datore di lavoro, del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali di cui all’art. 2 del DL 463/1983, l’onere di provare l’effettiva corresponsione ai lavoratori dipendenti della retribuzione loro dovuta – costituente uno dei presupposti per l’integrazione del suddetto delitto – grava sulla pubblica accusa. È quanto ha affermato, schierandosi con una parte della giurisprudenza di legittimità, la sezione III penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 28922 di ieri, 20 luglio 2011. In tale pronuncia viene affrontata una delle numerose questioni sollevate dall’interpretazione del citato all’art. 2 del DL 463/1983, la norma che, ai commi 1-bis e ss., disciplina il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, prevedendo, come conseguenza sanzionatoria, la reclusione fino a 3 anni e la multa fino a 1.033 euro. In particolare, si discute sulla ripartizione dell’onere della prova in ordine al pagamento, o meno, della retribuzione. Va, infatti, ricordato che, sia pur in presenza di qualche voce difforme, la dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti risultano ormai concordi nel sostenere che l’illecito penale in argomento non sia configurabile nei casi in cui al lavoratore non siano state materialmente pagate le somme dovute a titolo di corrispettivo. A tale conclusione si giunge considerando che, come emerge anche dalla lettera della norma, le ritenute oggetto dell’obbligo di versamento sono quelle “operate” dal datore di lavoro e che il presupposto per poter, appunto, “operare” una ritenuta non può che consistere nella corresponsione dello stipendio dal quale il datore trattiene una somma (corrispondente alla quota di contribuzione obbligatoria a carico del prestatore) per poi versarla (per conto di quest’ultimo) all’Istituto assicuratore. Come affermato anche dalle Sezioni Unite (sentenza n. 27641/2003), in caso di mancata corresponsione della retribuzione, viene meno uno dei presupposti della condotta, venendo a mancare lo stesso “oggetto materiale su cui attuare la componente commissiva dell’illecito”. Va poi tenuto presente che, con la previsione della fattispecie penale (di carattere delittuoso) di cui si tratta, il Legislatore ha inteso reprimere non il semplice fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, bensì il più grave fatto commissivo dell’appropriazione indebita, da parte del datore di lavoro, delle somme prelevate dalla retribuzione erogata ai dipendenti. Affermata la non configurabilità del reato in assenza del materiale esborso (anche in nero; cfr. Cass. n. 2910/2006) delle somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione, tale assunto presuppone, però – ed è qui che interviene la sentenza in esame – che sussista agli atti la prova della mancata erogazione. Su tale questione il dibattito è ancora acceso. Secondo un primo indirizzo interpretativo, poiché il rapporto di lavoro è di regola retribuito, grava sul datore di lavoro che assuma di non aver pagato i dipendenti l’onere di fornire la relativa prova. Si ritiene, infatti, che l’effettivo pagamento delle retribuzioni possa presumersi anche sulla base della comune esperienza, essendo improbabile che dei prestatori di lavoro si rassegnino a svolgere regolarmente la propria opera a favore del datore senza percepire lo stipendio o reagire altrimenti per la tutela dei propri diritti. Da qui l’onere del datore di lavoro di fornire la “prova contraria” (cfr. Cass. n. 46734/2004 e 10104/2011). In senso opposto, un’altra parte della giurisprudenza della Corte, cui aderisce la sentenza n. 28922/2011, esclude che l’avvenuta corresponsione delle retribuzioni possa presumersi per il solo fatto che la prestazione di lavoro subordinato normalmente debba essere retribuita. Ribaltando completamente il suesposto principio, si sostiene, quindi, che non spetti al datore di lavoro imputato dare la prova di non aver corrisposto gli stipendi ai lavoratori, bensì gravi sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare che le retribuzioni siano state realmente pagate (cfr. Cass. n. 38271/2007). A tale fine – aggiunge la pronuncia in commento – la pubblica accusa può fare ricorso sia a prove documentali (si pensi alla documentazione lavoristica e previdenziale obbligatoria) che a prove testimoniali, nonché alla prova indiziaria. Si segnala, infine, che l’art. 39 della L. 183/2010 (il c.d. collegato lavoro, in vigore dal 24 novembre 2010) ha esteso l’applicabilità ex art. 2, commi 1-bis e ss., del DL 463/83 – con tutta l’elaborazione giurisprudenziale cui tale norma ha dato vita, per quanto compatibile – anche ai committenti che omettano di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sui compensi dei lavoratori a progetto e dei titolari di collaborazioni coordinate e continuative.

21/07/2011

Regime dei minimi precluso agli over 35 dal 2012

A partire dal 1° gennaio 2012, il novero dei soggetti che possono accedere all’istituto agevolato IRPEF (imposta sostitutiva del 20% ed esclusione dagli studi di settore), ovvero le sole persone fisiche che intraprendono un’attività di impresa, arte o professione, aventi – alla data di inizio dell’attività – un’età non superiore ai 35 anni. È, inoltre, prevista l’efficacia quinquennale dell’opzione, per il periodo d’imposta di avvio dell’attività ed i quattro successivi, purchè il contribuente non abbia esercitato, negli ultimi tre anni, un’attività artistica, professionale o imprenditoriale, anche in forma associata o familiare e l’attività da assoggettare al regime dei minimi non costituisca, in nessun modo, la mera prosecuzione di un’altra precedentemente svolta, sotto forma di lavoro autonomo o dipendente, salvo il caso in cui sia consistita nel periodo di pratica professionale obbligatoria. È, invece, ammessa la continuazione dell’attività svolta da un altro soggetto, qualora l’ammontare dei relativi ricavi non sia superiore a 30.000 euro. La manovra dovrebbe riservare, inoltre, un trattamento speciale ai contribuenti che non possiedono i nuovi requisiti soggettivi di cui sopra, ma presentano comunque le caratteristiche di cui ai commi 96 e 99 dell’art. 1 della L. n. 244/2007: sono esentati dall’IRAP ed esonerati dagli obblighi di registrazione e tenuta delle scritture contabili, ai fini delle imposte dirette e sul valore aggiunto, nonché dalle liquidazioni e dai versamenti periodici IVA previsti dal DPR n. 100/1998. Fermo restando, in ogni caso, l’obbligo di conservare – ai sensi dell’art. 22 del DPR n. 600/1973 – i documenti ricevuti ed emessi e, ove prescritto, l’adempimento di fatturazione e certificazione dei corrispettivi. Le modalità attuative delle novità introdotte dalla manovra saranno, poi, definite con appositi provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate. Si segnala, infine, che il DL approvato dal Consiglio dei Ministri dovrebbe disporre l’abrogazione del primo e secondo periodo del comma 117 dell’art. 1 della L. n. 244/2007, in virtù dei quali le norme riportate nel comma 96 e seguenti non rilevano ai fini della determinazione dell’acconto IRPEF dovuto per l’anno in cui avviene il passaggio dal regime ordinario a quello dei minimi.
04/07/2011

Debutta oggi l’elenco «clienti e fornitori» per le operazioni con fattura

Oggi debutta l’obbligo di comunicazione delle operazioni, di importo almeno pari a 3.600 euro, IVA compresa, effettuate nei confronti dei privati, con coinvolgimento di tutti i commercianti al dettaglio. Tuttavia, l’applicazione dell’obbligo previsto dall’art. 21 del DL 78/2010 per l’anno 2011 avviene a due “velocità”, in quanto vi sono regole differenti in funzione del periodo temporale di effettuazione dell’operazione, rammentando sin d’ora che, per il periodo d’imposta 2010, l’adempimento in questione riguarda solamente le operazioni per le quali sussiste l’obbligo di fatturazione, purché di importo almeno pari a 25.000 euro, al netto dell’IVA. In particolare, per le operazioni effettuate dal 1° gennaio al 30 giugno 2011, il punto 2.5 del provvedimento direttoriale del 22 dicembre 2010 (come modificato da quello successivo del 14 aprile 2011) dispone che sono escluse dall’obbligo di comunicazione quelle “per le quali non sussiste l’obbligo di emissione della fattura”. Leggendo al contrario tale norma, ciò sta a significare che nella predetta fascia temporale l’obbligo di monitoraggio riguarda solamente le operazioni per le quali sussiste l’obbligo di fatturazione, la cui soglia minima di riferimento è pari a 3.000 euro, al netto dell’IVA. È bene evidenziare che l’obbligo di emissione della fattura può sussistere in ogni caso per alcune categorie di soggetti (i professionisti, ad esempio), a prescindere dalla qualità della controparte (privato o soggetto IVA) o dalla richiesta di emissione della fattura. In altre ipotesi, e in particolare per i soggetti di cui all’art. 22 del DPR 633/72 (genericamente, i commercianti al dettaglio), l’obbligo di emissione della fattura sorge o su specifica (facoltativa) richiesta del cliente, ovvero laddove si tratti di operazioni che formino oggetto dell’attività propria dell’acquirente, il quale è obbligato a richiedere l’emissione del documento (art. 22, comma 3, del DPR 633/72). Nel secondo semestre del 2011, e quindi a partire da oggi, 1° luglio, fermo restando l’obbligo di comunicazione delle suddette operazioni, si “aggiungono” anche le operazioni per le quali non sussiste l’obbligo di emissione della fattura, la cui soglia minima è, però, a 3.600 euro, IVA compresa. In linea generale, ciò sta a significare che le operazioni certificate da scontrino o ricevuta fiscale, il cui corrispettivo complessivo superi il predetto limite, dovranno essere “monitorate”, soprattutto al fine di intercettare le generalità della parte acquirente o committente. A tal fine, la circ. n. 24/2011 dell’Agenzia delle Entrate, riprendendo il contenuto del punto 3.2 del provvedimento direttoriale del 22 dicembre 2010, precisa che sussiste l’obbligo di acquisizione del codice fiscale della controparte “privata” residente in Italia (per quelli non residenti sono necessari i dati anagrafici), e ciò anche nell’ipotesi in cui venga emessa la fattura (per obbligo o per facoltà). Sul punto, sono evidenti le difficoltà di reperimento dei dati del cliente “privato”, il quale si sentirà “interrogato” dal negoziante, con conseguenti complicazioni anche di carattere commerciale, evidenziando che il soggetto che pone in essere l’operazione è obbligato a identificare il cliente per una corretta gestione dell’adempimento. Infine, quanto descritto in precedenza deve tener altresì conto delle novità introdotte con il DL 70/2010 (c.d. “Decreto Sviluppo”), che ha escluso l’obbligo di comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, effettuate nei confronti di soggetti che non rivestono la qualifica di soggetti passivi IVA, qualora il pagamento del corrispettivo avvenga tramite carte di credito, debito o prepagate, purché tali strumenti siano stati emessi da uno dei soggetti previsti nell’art. 7 del DPR 605/73 (trattasi di banche, Poste e altri intermediari finanziari). Resta fermo, quindi, l’obbligo di comunicazione laddove il pagamento avvenga mediante uno dei predetti strumenti, qualora emesso da un operatore finanziario non residente nel territorio dello Stato e ivi privo di stabile organizzazione. È bene evidenziare che l’esclusione in questione prescinde dalle modalità di certificazione dell’operazione (ovviamente sopra soglia), con la conseguenza che, ferma restando la qualifica di non soggetto passivo della controparte, anche le operazioni per le quali viene emessa la fattura, se pagate con i citati strumenti di pagamento, è esclusa dall’obbligo di comunicazione.
01/07/2011

Sommerso: maxisanzione solo per i lavoratori subordinati

Nuovo intervento di prassi sulle novità introdotte dalla L. 183/2010 – l’ormai noto “collegato lavoro” – in materia di misure contro il lavoro sommerso (art. 4) e razionalizzazione dell’attività ispettiva (art. 33): con la circolare n. 36/2011, l’INAIL ha fornito indicazioni in ordine alle questioni maggiormente rientranti nella propria competenza, delineando, al contempo, un utile quadro riepilogativo della nuova disciplina, così come integrata dalle precedenti istruzioni dello stesso Istituto assicuratore (note nn. 7918 e 8513 del 2010), del Ministero del Lavoro (circolari nn. 38 e 41 del 2010) e dell’INPS (circolare n. 157/2010). In particolare, con riguardo alle misure contro l’utilizzo di manodopera irregolare, la circolare in commento si sofferma sui nuovi presupposti per l’individuazione del lavoro sommerso e sul rinnovato ambito di applicazione della maxisanzione: la scelta di circoscrivere l’applicabilità di quest’ultima ai soli “lavoratori subordinati” impiegati in assenza di preventiva comunicazione di assunzione al Centro per l’impiego rappresenta, infatti, uno degli aspetti di maggiore novità rispetto alla disciplina previgente, che invece puniva l’impiego di qualsiasi lavoratore non risultante dalla documentazione obbligatoria. Viene ribadito un principio importante: l’applicazione della maxisanzione presuppone, in ogni caso, la dimostrazione, da parte del personale ispettivo, che il rapporto di lavoro “si sia concretamente sviluppato con le caratteristiche del lavoro subordinato (soggezione al potere direttivo e di controllo, obbligazione di mezzi, orario di lavoro, ecc.)”. L’ispettore è, pertanto, tenuto ad acquisire tutte le prove utili a dimostrare con certezza la qualificazione del rapporto di lavoro, sulla base della situazione di fatto riscontrata. Ciò anche con riferimento alle prestazioni di lavoro occasionale accessorio, rese in assenza di preventiva comunicazione all’INAIL o all’INPS, e alle prestazioni svolte da soci e familiari coadiuvanti, in assenza di denuncia nominativa all’INAIL: va infatti ricordato che, in relazione a tali prestazioni lavorative – per le quali non è prevista la comunicazione al Centro per l’impiego –, il Ministero del Lavoro aveva affermato l’applicabilità della maxisanzione, essendo dato “per accertato”, in mancanza dei suddetti adempimenti “formalizzanti” nei confronti della P.A., “il requisito della subordinazione”. Già in occasione del “Forum Collegato Lavoro”, tuttavia, a fronte delle forti perplessità espresse dagli operatori, si era specificato che il Ministero non aveva inteso stabilire una “presunzione di subordinazione”, ma solo indicare ai funzionari di vigilanza una “metodologia ispettiva” nel senso sopra delineato. Altre precisazioni importanti riguardano l’inapplicabilità della maxisanzione al datore di lavoro che si “ravveda” prima dell’accesso ispettivo. Riprendendo la distinzione già propugnata dal Ministero del Lavoro, si conferma, infatti, che, ove non sia scaduto il termine per il primo adempimento contributivo, il datore di lavoro che non abbia effettuato la comunicazione preventiva può andare esente dalla maxisanzione con la semplice comunicazione al Centro per l’impiego da cui risulti la data di effettivo inizio del rapporto di lavoro; dopo la scadenza del suddetto termine, invece, è necessario che il datore di lavoro abbia denunciato spontaneamente la propria situazione debitoria entro 12 mesi dalla scadenza del termine per il pagamento dei contributi o premi, abbia effettuato la comunicazione al Centro per l’impiego con l’indicazione della data di effettiva instaurazione del rapporto di lavoro e provveduto, altresì, al pagamento dei contributi e dei premi dovuti, nonché delle relative sanzioni civili, entro 30 giorni dalla denuncia. Viene quindi affrontato l’argomento degli organi competenti ad irrogare la maxisanzione, individuati dalla nuova norma non più, unicamente, nel personale ispettivo delle Direzioni provinciali del Lavoro, bensì in “tutti gli organi di vigilanza che effettuano accertamenti in materia di lavoro, fisco e previdenza”. L’Agenzia delle Entrate ha di recente sostenuto che, tra tali organi, non rientrino gli uffici dell’Amministrazione finanziaria; tra di essi – evidenzia la circ. n. 36 – rientrano, invece, senza dubbio, gli ispettori dell’INAIL. Il discrimine è dato dal momento della “commissione dell’illecito”, coincidente – trattandosi di illecito di natura permanente – con il momento della cessazione del comportamento lesivo posto in essere: in caso di condotte illecite cessate prima del 24 novembre 2010 (seppure accertate successivamente), con conseguente applicazione della vecchia disciplina, spetta agli ispettori INAIL provvedere alla mera constatazione dell’illecito, segnalando tempestivamente la stessa alla DPL competente; ove, invece, la condotta illecita sia proseguita oltre tale data, gli ispettori dell’Istituto possono procedere a contestare la maxisanzione, applicando il nuovo regime sanzionatorio, caratterizzato, tra l’altro, dall’estensione dell’istituto della diffida obbligatoria all’ipotesi dell’utilizzo di lavoro irregolare e dall’introduzione, accanto alla maxisanzione “ordinaria” già prevista nel testo previgente, di una sanzione “attenuata” per il caso in cui “il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo lavorativo successivo”.
27/06/2011

Trasmissione online dei certificati di malattia

E' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 135/2011 la circolare n. 4 del 18 marzo 2011, con la quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica – ha fornito una serie di indicazioni operative in merito alla trasmissione telematica, ai datori di lavoro, dei certificati medici in caso di assenza per malattia dei dipendenti. Tale procedura, infatti, è stata predisposta in attuazione di quanto previsto dall’art. 25 della L. n. 183/2010 (il c.d. collegato lavoro) e interessa tutti i lavoratori, sia del settore privato sia di quello pubblico. In generale, il documento fornisce informazioni ai lavoratori circa gli oneri e i vantaggi della nuova procedura, e descrive gli adempimenti a carico dei datori di lavoro per la corretta ricezione delle attestazioni di malattia trasmesse per via telematica. In sintesi, la nuova procedura prevede che, in tutti i casi di assenza per malattia del lavoratore, la certificazione medica venga inviata all’INPS per via telematica direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria; in seguito, le attestazioni di malattia saranno immediatamente inoltrate, sempre online, dall’Istituto previdenziale al datore di lavoro interessato. Per quanto riguarda la posizione dei dipendenti, la circolare sottolinea che é obbligo del lavoratore di richiedere al medico il numero di protocollo identificativo del certificato inviato per via telematica; a tal proposito, nella circolare si segnala che il certificato medico e l’attestato di malattia possono essere richiesti anche in formato cartaceo oppure in formato pdf e ricevuti presso la propria casella di posta elettronica. L’invio telematico del certificato effettuato dal medico soddisfa l’obbligo del lavoratore di recapitare l’attestazione di malattia al proprio datore di lavoro entro i 2 giorni lavorativi successivi all’inizio della malattia. Resta tuttavia fermo l’obbligo di segnalare al datore di lavoro la propria assenza e l’indirizzo di reperibilità, qualora diverso dalla residenza o domicilio abituale, per i successivi controlli medico fiscali. Parimenti, é fatto obbligo al lavoratore del settore privato di fornire, qualora espressamente richiesto dal proprio datore di lavoro, il numero di protocollo identificativo del certificato telematico di malattia comunicatogli dal medico. Qualora il medico sia impossibilitato ad inviare online il certificato di malattia, lo stesso può essere presentato dal dipendente al proprio datore di lavoro con le nuove procedure di posta certificata. Per quanto concerne la trasmissione dell’attestato di malattia dall’INPS al datore di lavoro, nella circolare in esame si segnala che le attestazioni vengono messe a disposizione secondo le seguenti modalità:
- mediante accesso diretto al sistema INPS, tramite apposite credenziali rese disponibili dallo stesso Istituto previdenziale, come descritto nella sua circolare 60/2010;
- mediante invio alla casella di posta elettronica certificata indicata dal datore di lavoro, come descritto nella circolare INPS n. 119/2010.
Viene altresì precisato che i datori di lavoro privati possono avvalersi dei servizi resi disponibili dall’INPS anche per tramite del proprio professionista intermediario. Infine, si rammenta che l’adesione da parte dei datori di lavoro privati ai servizi messi a disposizione dall’INPS per la trasmissione telematica delle attestazioni di malattia consentirà di usufruire del nuovo servizio per la richiesta di visite fiscali online, già in fase di sperimentazione e di prossimo rilascio.

20/06/2011

Analisi comparativa per la deducibilità dei costi "black list"

La C.T. Prov. di Milano n. 338/2010 offre diversi spunti, ai contribuenti e agli stessi Uffici, circa il corretto approccio da adottare in merito alla deducibilità dei costi relativi ad acquisti operati in Paesi a fiscalità privilegiata. Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici verteva sulla ripresa a tassazione di spese e componenti negative derivanti da operazioni intercorse con fornitori residenti in Hong Kong e in Corea del Sud. Con riguardo alle transazioni attuate con le controparti di Hong Kong, la Commissione ha colto l’occasione per indirizzare gli Organi di accertamento verso una linea di azione più collaborativa con le imprese sottoposte a controllo, soprattutto laddove sia invocata l’applicazione della prima esimente di legge. Si ricorda che l’art. 110, comma 11 del TUIR prevede che il divieto di deduzione trovi un limite nella capacità delle imprese residenti in Italia di fornire la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva nello Stato o territorio di localizzazione. Muovendo dal presupposto per il quale tale capacità dipende dalla disponibilità di documenti sensibili, che il fornitore può ben rifiutare di inviare, i giudici hanno sottolineato come al contribuente debba essere data ampia possibilità di difesa: le indicazioni della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 29/2003, circa il possesso, ad esempio, di estratti bancari o di contratti di lavoro dei dipendenti della controparte, rappresentano pertanto un mero, per quanto utile, riferimento; parimenti l’Ufficio, prima di dichiarare inadeguati i dati prodotti, sarà sempre tenuto ad effettuare formale richiesta di integrazione. Con riferimento al caso giudicato, peraltro, i giudici hanno accolto il ricorso ritenendo ampiamente dimostrata, in via aggiuntiva e non alternativa, l’altra esimente di legge, ovvero quella secondo cui il contribuente deve provare l’esistenza di un effettivo interesse economico in merito all’operazione e la sua concreta esecuzione. La parte ricorrente, in particolare, aveva prodotto, oltre ad un’adeguata documentazione doganale, un’analisi comparativa concernente un significativo campione della transazione, atta a dimostrare come il costo della fornitura, nonostante le spese di trasporto ed ulteriori voci accessorie, risultasse mediamente inferiore del 51% rispetto al prezzo di un’ipotetica pari fornitura nazionale. In merito ai prodotti acquistati dai fornitori localizzati nella Corea del Sud, la sentenza in commento, nell’annullare l’atto impugnato, non è stata meno foriera di utili indicazioni per gli operatori. L’elenco riportato dal DM 23 gennaio 2002, lista di riferimento per l’applicazione della disciplina qui in commento, in attesa della pubblicazione delle “white lists” di cui all’art. 168-bis del TUIR, riportava il Paese asiatico tra le giurisdizioni sensibili, limitatamente alle imprese ivi localizzate e titolate ad usufruire delle agevolazioni previste dalla “Tax Incentives Limitation Law”. Questo almeno sino alla pubblicazione del DM 27 luglio 2010, avvenuta il 4 agosto 2010, provvedimento con il quale la Corea del Sud è stata interamente derubricata dalla lista degli Stati paradisiaci, in ragione dei nuovi accordi amministrativi intervenuti tra le Autorità fiscali. Tanto premesso, i giudici si sono soffermati in modo particolare sulla Convenzione contro le doppie imposizioni esistente tra Italia e Corea del Sud: nel dettaglio, la Commissione ha evidenziato come tale Trattato riporti clausole antidiscriminatorie, di rango superiore alle norme interne, che ostano all’applicazione di discipline diverse in funzione della residenza fiscale della controparte. Si rammenta in proposito come l’art. 75 del DPR n. 600/73 disponga che “nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”; l’art. 169 del TUIR, dal canto suo, riconosce la possibilità di derogare a questi ultimi nella sola misura in cui le disposizioni del Testo Unico siano più favorevoli al contribuente. In questa prospettiva, la sentenza di Milano sembra avvalorare la tesi, da lungo tempo fatta propria dalla più autorevole dottrina, secondo cui, in presenza di un accordo bilaterale conforme al modello OCSE, l’applicazione dell’art. 110, comma 10 del TUIR è confinata all’ipotesi in cui gli Stati contraenti abbiano previsto delle deroghe espresse al principio di non discriminazione. Tale conclusione è invero confortata dal contenuto delle negoziazioni bilaterali avviate dalle Autorità fiscali italiane nel corso degli ultimi anni: molte delle più recenti Convenzioni – ad esempio, quella operante con l’Etiopia o con il Sultanato dell’Oman – riportano un passaggio, tipicamente a conclusione dell’art. 24, volto ad evitare che, in nome di più generali principi di parificazione, si vengano a disapplicare le disposizioni interne antielusive o antievasive.
20/06/2011

Spese di manutenzione straordinaria degli immobili sostenute dal conduttore

Le spese di manutenzione straordinaria relative ad un immobile sostenute dal conduttore sono deducibili in capo allo stesso soggetto, ancorché la disciplina civilistica preveda che spetti al locatore l’esecuzione delle predette spese. Questo l’interessante principio sancito dalla Cassazione con la sentenza n. 13327, depositata ieri, con riferimento ad una fattispecie non infrequente nella pratica professionale. Infatti, sebbene l’art. 1576 del codice civile preveda che spetti al locatore eseguire durante la locazione tutte le riparazioni necessarie, eccezion fatta per quelle di piccola manutenzione, sovente per le locazioni di immobili strumentali, le spese di manutenzione straordinaria vengono convenzionalmente accollate al conduttore dell’immobile. Si ricorda che, secondo l’OIC 24, l’ammortamento di tali costi si effettua nel periodo minore tra quello di utilità futura delle spese sostenute e quello residuo di locazione, tenendo conto dell’eventuale periodo di rinnovo, se il rinnovo dipende dal conduttore. L’impostazione contabile si riflette anche sul piano fiscale. Come evidenziato dalla ris. dell’Agenzia delle Entrate 19 dicembre 2007 n. 383, le spese di ammodernamento e di ristrutturazione capitalizzate nella voce “altre immobilizzazioni immateriali” sono assoggettate alla disciplina fiscale delle spese pluriennali di cui al comma 3 dell’articolo 108 del TUIR. In base a detta disposizione, la deducibilità delle spese relative a più esercizi spetta “nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio”, tenendo presente che i criteri civilistici di ripartizione delle spese in esame costituiscono presupposto per la determinazione della quota deducibile (cfr. C.M. n. 73/E del 27 maggio 1994). Venendo al caso esaminato dalla Cassazione, secondo l’Amministrazione finanziaria i predetti costi non potevano essere dedotti in quanto le spese dovevano essere a carico del locatore, il quale resterebbe il beneficiario delle opere eseguite. Opportunamente la Corte di Cassazione rileva che le spese in questione, in quanto finalizzate al riordino e alla ristrutturazione del locale, sono certamente collegabili allo svolgimento dell’attività imprenditoriale (quindi inerenti) per cui, ai fini della deducibilità, è sufficiente che le stesse siano sostenute nell’esercizio dell’impresa e siano documentate. Ribadisce la Suprema Corte: “Ciò che rileva, in definitiva, è la strumentalità dell’immobile, sul quale vengono eseguiti i lavori di ristrutturazione o miglioramento, all’attività d’impresa, a prescindere dalla proprietà del bene da parte del soggetto che esegue i lavori”. L’affermazione della Corte appare sicuramente condivisibile, atteso che rinvia la soluzione della problematica alla corretta applicazione del principio dell’inerenza. Proprio in ragione di tale principio, la disciplina fiscale di alcune fattispecie può risultare problematica. Si pensi all’ipotesi in cui il conduttore si faccia contrattualmente carico di alcune spese direttamente riferibili alla proprietà, quali, ad esempio, il rifacimento della facciata ovvero del tetto. Con riguardo a tali spese l’inerenza è più sfumata e quindi la cautela è d’obbligo. Diverso è il caso della ristrutturazione dello spazio direttamente utilizzato nell’attività d’impresa, rispetto al quale non si possono avere dubbi sulla deducibilità delle relative spese. Ciò vale non soltanto per le opere murarie, ma anche per l’impiantistica e per tutto quanto risulta essere necessario a rendere l’immobile idoneo all’uso sotto il profilo tecnico e giuridico (ad esempio, conforme alla normativa sulla sicurezza sul lavoro). L’unica ipotesi che porterebbe all’indeducibilità è quella ipotizzata dalla stessa Cassazione nella sentenza in commento: costi fittizi non effettivamente sostenuti.
20/06/2011

Ritenute non versate, regolarizzazione entro 3 mesi dalla citazione a giudizio

Al fine di escludere la punibilità del datore di lavoro che abbia omesso di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei propri dipendenti, il termine di tre mesi concesso allo stesso per provvedere al versamento di quanto dovuto può decorrere, in mancanza della contestazione o della notifica dell’avvenuto accertamento della violazione da parte dell’Ente previdenziale, anche dalla notifica del decreto di citazione a giudizio. È questo il consolidato principio di diritto ribadito dalla III Sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 23651 depositata ieri. Al riguardo, va ricordato che, ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, del DL 463/1983, l’omesso versamento delle ritenute operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è punito con la reclusione fino a 3 anni e con la multa fino a 1.033 euro. Come chiarito dalla giurisprudenza, con la previsione di tale reato – ascrivibile alla categoria dei “delitti”, con conseguente impossibilità di ricorrere a misure di “monetizzazione” (prescrizione obbligatoria o oblazione) – il Legislatore ha inteso reprimere non il semplice fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, bensì il più grave fatto commissivo dell’appropriazione indebita, da parte del datore di lavoro, delle somme prelevate dalla retribuzione dei dipendenti. Detto reato richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà dell’omissione, la quale non viene meno per il fatto che il datore di lavoro abbia demandato a terzi (consulenti del lavoro, commercialisti, ecc.) l’incarico di provvedere: l’obbligazione contributiva rimane, infatti, in capo al titolare del rapporto assicurativo, sul quale grava anche il dovere di controllare che il terzo adempia all’obbligazione (Cass. pen. nn. 21989/2005 e 2354/2009). È previsto che all’accertamento dell’omesso versamento delle ritenute debba seguire un provvedimento di contestazione o notificazione dell’illecito, contenente l’intimazione ad adempiere entro il termine di tre mesi. Nel caso in cui il pagamento avvenga entro tale termine, opera, infatti, ai sensi del medesimo comma 1-bis dell’art. 2 del DL 463/1983, una speciale causa di non punibilità sopravvenuta per il trasgressore, il quale, dunque, non incorre in sanzioni penali. Sotto il profilo più strettamente procedurale, il successivo comma 1-ter prevede, inoltre, che, dopo il versamento delle ritenute intimato con la contestazione o notificazione dell’illecito ovvero dopo l’inutile decorso del termine ivi previsto, l’organo accertatore debba trasmettere la denuncia di reato all’Autorità giudiziaria. La previsione di tale obbligo anche in presenza di avvenuto adempimento si spiega considerando che il reato, anche se estinto, produce comunque alcuni dei suoi effetti giuridici (es. la recidiva). Nel caso di specie, il datore di lavoro, condannato per il reato di cui si tratta, aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo, da un lato, di non aver ricevuto la notifica dell’accertamento della violazione e, dall’altro, di aver comunque già provveduto, al momento del giudizio di primo grado, a sanare la propria posizione contributiva. La Suprema Corte ritiene il ricorso infondato, considerando corretta la sentenza della Corte d’Appello, la quale aveva rilevato che la notifica era regolarmente avvenuta all’indirizzo indicato dal datore di lavoro nel verbale ispettivo e, in ogni caso, che i pagamenti finalizzati alla regolarizzazione erano stati effettuati tardivamente non soltanto rispetto alla data della suddetta notifica, bensì anche rispetto alla “contestazione in sede giudiziaria”. È, infatti, diffuso il principio giurisprudenziale secondo cui, per la decorrenza del termine concesso al datore di lavoro per provvedere al versamento dei contributi dovuti, in modo da rendere operante la causa di non punibilità di cui sopra, sia sufficiente l’effettiva conoscenza, da parte del medesimo, dell’accertamento svolto nei suoi confronti, senza che, a tal fine, siano necessarie forme particolari. In particolare, la stessa Cassazione ha affermato che, ove manchi o comunque non risulti certa la contestazione o la notifica dell’avvenuto accertamento delle violazioni, il termine in questione possa iniziare a decorrere anche dalla notifica del decreto di citazione a giudizio (o eventualmente dalla notifica dell’avviso di chiusura delle indagini preliminari). Tra le pronunce che si sono espresse in tal senso, vengono richiamate, tra le altre, le sentenze nn. 4723 e 38501 del 2007, ove si è altresì precisato che, qualora il termine di tre mesi non sia ancora decorso al momento del dibattimento, l’imputato può chiedere al giudice un differimento dello stesso al fine di provvedere all’adempimento. Nel caso in esame, invece, anche qualora il dies a quo del predetto termine fosse stato individuato facendo riferimento alla notifica del decreto di citazione a giudizio (in realtà, si parla di notifica del decreto penale), il pagamento integrale di quanto dovuto risultava essere stato effettuato ben oltre la sua scadenza.
14/06/2011

Proroga generale dei versamenti da UNICO

Il DPCM 12 maggio 2011 ha prorogato al 18 luglio 2011 i termini per i versamenti derivanti dai modelli UNICO 2011 e IRAP 2011, nonché della prima rata di acconto della “cedolare secca sugli affitti”, in relazione a tutti i contribuenti persone fisiche, anche se non soggetti agli studi di settore (a differenza dell’anno scorso, quindi, la misura opera anche per i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali che adottano il regime dei contribuenti minimi); per i versamenti derivanti dai modelli UNICO 2011 e IRAP 2011, in relazione ai contribuenti diversi dalle persone fisiche, se sono soggetti agli studi di settore; di presentazione e di trasmissione telematica dei modelli 730/2011; per i versamenti e gli altri adempimenti scadenti nel periodo feriale (compreso tra il 1° ed il 20 agosto 2011). Rientrano nella proroga in esame anche i soggetti per i quali operano cause di esclusione dagli studi di settore (diverse da quella rappresentata dalla dichiarazione di ricavi o compensi superiori al limite stabilito, per ciascuno studio di settore, dal relativo DM di approvazione) o cause di inapplicabilità degli studi stessi. Per i contribuenti diversi dalle persone fisiche, “estranei” agli studi di settore, rimangono, invece, fermi i termini ordinari per eseguire i versamenti a saldo delle imposte per il 2010, nonché della prima rata di acconto per il 2011 (vale a dire, fino al 16 giugno 2011, senza alcuna maggiorazione, oppure dal 17 giugno 2011 al 16 luglio 2011, con la maggiorazione dello 0,4% a titolo di interesse corrispettivo). Nell’ambito di tale categoria, rientrano, tra l’altro, i contribuenti per i quali trovano applicazione i parametri contabili e i titolari solo di reddito agrario (es. società semplici).
13/06/2011

Il lavoro prestato oltre il sesto giorno va retribuito con maggiorazione

Se un lavoratore turnista svolge la propria attività per sette o più giorni consecutivi, ha diritto al riconoscimento di una maggiorazione della retribuzione giornaliera per ogni giorno di lavoro prestato oltre il sesto, anche se tale incremento retributivo non è previsto dalla contrattazione collettiva. Questo é quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12318 di ieri, 7 giugno 2011. Nel caso di specie, due dipendenti di un Istituto ospedaliero vedevano accolta dalla Corte d’Appello la loro domanda per il riconoscimento di una percentuale di maggiorazione della retribuzione giornaliera per ogni giorno di lavoro prestato oltre il sesto. Per i giudici di merito, questo diritto doveva essere riconosciuto in virtù della maggiore gravosità che comporta l’attività lavorativa protratta oltre il sesto giorno, e doveva essere assicurato anche se la contrattazione collettiva, nel caso specifico il CCNL comparto sanità, non prevedeva tale incremento retributivo. L’Istituto ospedaliero ricorre dunque alla Corte di Cassazione con un unico motivo, lamentando che la Corte d’Appello non avrebbe considerato, nell’interpretare il contratto collettivo di categoria, le peculiarità del lavoro ospedaliero, che necessariamente e legittimamente si articolava su turni di sette giorni. In questo modo, sempre secondo il ricorrente, sarebbe stato imposto un obbligo retributivo non previsto dalla contrattazione collettiva, nonostante si fosse in presenza di una prestazione lavorativa resa conformemente alla disciplina contrattuale e legale. Per i giudici di Cassazione il ricorso è infondato e, basandosi su un consolidato orientamento giurisprudenziale, si afferma che in presenza di prestazioni lavorative comportanti turni di lavoro di sette giorni consecutivi con riposo compensativo, qualora il lavoratore chieda maggiori compensi – rispetto a quelli già corrisposti secondo le previsioni del CCNL – per la maggiore gravosità della prestazione dovuta allo spostamento del riposo settimanale, è compito del giudice verificare se i compensi previsti dal contratto collettivo abbiano anche la funzione di compensare questo tipo di gravosità. In altre parole, il giudice deve accertare se, secondo i meccanismi compensativi previsti dalla contrattazione collettiva, sia assicurato al lavoratore un trattamento complessivo adeguato – ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione – in relazione al disagio di dover aspettare più di sei giorni l’interruzione dell’attività lavorativa, e con correttivi per impedire l’eccessiva frequenza e lunghezza del periodo di lavoro non interrotto. La Corte d’Appello ha dunque correttamente valutato e accertato che il contratto collettivo non ha previsto specifiche forme di remunerazione del riposo settimanale usufruito oltre il settimo giorno e che, a tal fine, non può nemmeno valorizzarsi la possibilità prevista dal CCNL che il lavoratore usufruisca di due giornate di riposo consecutive nella quinta settimana del mese, poiché il rapporto lavoro/pausa rimane immutato, nel senso che le due giornate consecutive scaturiscono dalla necessità di ripristinare il rapporto nel corso del mese, non già ad attribuire riposi ulteriori rispetto a quelli contrattualmente fissati. Nello specifico, i giudici di merito hanno preso atto che, ai sensi del contratto collettivo applicato, il numero dei riposi settimanali spettanti a ciascun dipendente è pari a 52 giornate all’anno indipendentemente dalle forme di articolazione dell’orario di lavoro, ed è proprio questa estensione a tutti i lavoratori (anche non turnisti o che non prestano lavoro oltre il sesto giorno), che conferma la mancanza di uno specifico meccanismo compensativo. Anzi, si evidenzia che neppure l’indennità per lavoro espletato nei giorni festivi può considerarsi alla stregua di tale meccanismo compensativo poiché compete a tutti i dipendenti, indipendentemente dalla coincidenza della loro prestazione lavorativa con il settimo giorno.
08/06/2011

Elenco "clienti fornitori" circ. 24_2011: istruzioni dall’Agenzia delle Entrate

La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 24 di ieri, 30 maggio 2011, chiarisce le modalità applicative dell’obbligo di comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, di importo non inferiore a 3.000 euro, introdotto dall’art. 21 del DL n. 78/2010. La comunicazione, avente cadenza annuale, deve essere inviata entro il 30 aprile di ciascun anno, anche se – per il 2010 – il termine è differito al 31 ottobre 2011 ed ha per oggetto le sole operazioni, soggette all’obbligo di fatturazione, di importo almeno pari a 25.000 euro, al netto dell’imposta. Sul punto, la circolare precisa che, ai fini della rettifica o dell’integrazione della comunicazione, è possibile inviare file integralmente sostitutivi dei precedenti non oltre 30 giorni dalla scadenza del termine, scaduto il quale si applica – se del caso – l’istituto del ravvedimento operoso. La sanzione irrogata per l’omessa, incompleta o infedele comunicazione varia da 258 a 2.065 euro, così come previsto dal citato art. 21 del DL n. 78/2010. Il nuovo adempimento riguarda, senza eccezioni, tutti i soggetti passivi IVA che agiscono in quanto tali come cedenti/prestatori o cessionari/committenti. Conseguentemente, la comunicazione è obbligatoria anche per: i soggetti in contabilità semplificata; gli enti non commerciali, se agiscono nell’esercizio dell’attività commerciale o agricola; i soggetti non residenti con stabile organizzazione in Italia o ivi identificati direttamente o per mezzo di un rappresentante fiscale; i curatori fallimentari e commissari liquidatori per conto della società fallita o in liquidazione coatta amministrativa; i soggetti che hanno optato per la dispensa dagli adempimenti per le operazioni esenti; i soggetti che applicano il regime fiscale agevolato per le nuove iniziative imprenditoriali e di lavoro autonomo; i contribuenti minimi, invece, sono esonerati dall’obbligo di comunicazione. Sotto il profilo oggettivo, la circolare n. 24/2011 chiarisce che vanno comunicate anche: le operazioni, di importo almeno pari a 3.600 euro, nella cui fattura l’imposta non deve essere esposta, cioè indicata separatamente dal corrispettivo (es. agenzie di viaggio che applicano il regime speciale di cui all’art. 74-ter del DPR n. 633/72); le operazioni in reverse charge e quelle soggette al regime del margine, fermo restando che, per queste ultime, si comunica il solo “margine”, che rappresenta la base di commisurazione dell’imposta; le cessioni gratuite di beni oggetto dell’attività d’impresa, nonché le ipotesi di autoconsumo e di destinazione di beni a finalità extraimprenditoriali o extraprofessionali, in riferimento al prezzo di acquisto o, in mancanza, al prezzo di costo dei beni o di beni simili, che costituisce la base imponibile ex art. 13, comma 2, lett. c), del DPR n. 633/72. E' stato, inoltre, chiarito che, in via generale, ai fini della verifica del raggiungimento della soglia di 3.000 e 3.600 euro, occorre avere riguardo ai corrispettivi dovuti secondo le condizioni contrattuali, fatta eccezione per le operazioni assoggettate ad imposta in base al “valore normale”. Nel calcolo delle soglie non vanno considerate le anticipazioni in nome e per conto del cliente, in quanto escluse da IVA ai sensi dell’art. 15, comma 1, n. 3), del DPR n. 633/72. Rispetto alle operazioni che il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 22 dicembre 2010 ha escluso dall’obbligo comunicativo, la circolare in esame – in via interpretativa – estende l’esonero alle operazioni intracomunitarie da dichiarare ai fini INTRASTAT ed ai passaggi interni di beni tra rami d’azienda, ove documentati da fattura. È stata, inoltre, confermata la previsione contenuta nell’art. 7 del DL n. 70/2011 (c.d. “Decreto Sviluppo”), che esclude dall’adempimento le operazioni effettuate nei confronti di soggetti che non rivestono la qualifica di soggetti passivi IVA, se il pagamento del corrispettivo avviene mediante carte di credito, di debito o prepagate emesse dagli operatori finanziari di cui all’art. 7, comma 6, del DPR n. 605/73 (es. banche e poste); sul punto, viene chiarito che l’esonero non si applica qualora il pagamento sia eseguito con carte emesse da operatori finanziari non residenti privi di stabile organizzazione in Italia. Infine, riguardo ai dati da indicare nella comunicazione, necessari per individuare le operazioni poste in essere, occorre tenere conto anche delle note di variazione (in aumento o in diminuzione) di cui all’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972. Il comportamento da seguire dipende dal momento della variazione, anteriore o meno al termine previsto per la comunicazione: nel primo caso (variazione anteriore alla comunicazione), si deve considerare l’importo rettificato dell’operazione, risultante cioè dalla variazione in diminuzione o in aumento; nel secondo caso (variazione successiva alla comunicazione), la circolare sembrerebbe considerare la sola ipotesi in cui la soglia risulti superata dopo la comunicazione, nel qual caso l’operazione va rilevata, nella sua interezza, nell’anno di emissione della nota di variazione. Al di fuori di questa ipotesi, andrebbe ulteriormente chiarito se l’importo della rettifica sia oggetto di autonoma comunicazione, anche ove riguardi un’operazione già comunicata perché sopra soglia.
31/05/2011

IRAP: nel quadro IS i dati del ricalcolo dell’acconto 2010

I contribuenti nei confronti dei quali, nel periodo d’imposta 2010, ha operato l’incremento automatico dello 0,15% delle aliquote IRAP, perché hanno conseguito tutta o parte della base imponibile nelle Regioni in deficit sanitario (Lazio, Campania, Molise e Calabria), devono prestare attenzione alla compilazione della dichiarazione IRAP 2011. I dati relativi alla rideterminazione dell’acconto 2010 vanno infatti riportati nella sezione VII del quadro IS. Il suddetto incremento trae origine dall’art. 2, commi 66-98 della L. 23 dicembre 2009 n. 191 (Finanziaria 2010), con il quale è stato recepito a livello normativo il contenuto del nuovo “Patto per la salute” per gli anni 2010-2012, approvato con il provvedimento del 3 dicembre 2009 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. In particolare, l’art. 2, commi 86 e 91 della suddetta legge Finanziaria 2010 ha stabilito che l’accertamento del mancato raggiungimento annuale degli obiettivi del Piano di rientro dal disavanzo del Servizio sanitario, anche con riferimento all’esercizio 2009, comporta l’incremento automatico, rispetto al livello delle aliquote vigenti, di:
- 0,15 punti percentuali dell’IRAP;
- 0,30 punti percentuali dell’addizionale regionale IRPEF.
Con il comunicato stampa diramato in data 1° luglio 2010, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha reso noto che, relativamente al 2010, l’incremento ha operato nelle Regioni Lazio, Campania, Molise e Calabria. Le nuove aliquote hanno avuto effetto già a partire dagli acconti IRAP dovuti per il 2010. Peraltro, il successivo comunicato stampa dell’Agenzia delle Entrate del 2 luglio 2010 ha precisato che l’aumento incideva soltanto sul calcolo della seconda o unica rata di acconto. In pratica, detta rata andava determinata, in alternativa:
- con il c.d. “metodo storico”, assumendo il 99% (persone fisiche e società di persone) o il 100% (società di capitali ed enti commerciali e non commerciali) dell’IRAP del periodo precedente (2009), relativa al valore della produzione realizzato nelle suddette Regioni, che si sarebbe determinata applicando l’aliquota d’imposta maggiorata dello 0,15%;
- con il c.d. “metodo previsionale”, assumendo il 99% (persone fisiche e società di persone) o il 100% (società di capitali ed enti commerciali e non commerciali) dell’IRAP “virtuale” 2010, relativa al valore della produzione realizzato nelle suddette Regioni, determinata applicando l’aliquota d’imposta maggiorata dello 0,15%.
Dall’importo così ottenuto occorreva poi sottrarre quanto versato a titolo di primo acconto, sul quale la maggiorazione non era stata applicata. Venendo ora al dettaglio dei dati da riportare nella dichiarazione IRAP 2011, nel rigo IS32 occorre indicare:
- nella colonna 1, il codice identificativo della Regione per la quale è stata prevista la maggiorazione in commento (ad esempio, per il Lazio il codice 8) e alla quale è stato attribuito il valore della produzione o una quota del valore della produzione relativo al periodo d’imposta precedente a quello di riferimento (2009, per i soggetti “solari”);
- nella colonna 2, l’imposta corrispondente al valore della produzione (o alla quota del valore della produzione) relativo al periodo d’imposta precedente a quello di riferimento (2009, per i soggetti “solari”), attribuito alla Regione esposta nella colonna 1, rideterminata applicando l’aliquota IRAP comprensiva della maggiorazione sopra citata. Con riferimento alle Regioni sopra indicate, qualora occorra procedere a una ripartizione della base imponibile, vanno compilati due o più moduli, avendo cura di numerare progressivamente la casella “Mod. N.” posta in alto a destra del quadro IS.
Nelle colonne da 3 a 5 del rigo IS32 va indicato:
- nella colonna 3, l’imposta corrispondente alla quota del valore della produzione relativa al periodo d’imposta precedente a quello di riferimento (2009), eventualmente attribuita a Regioni diverse da quelle per le quali è prevista la maggiorazione di aliquota IRAP;
- nella colonna 4, la somma degli importi indicati nelle colonne 2 di tutti i moduli compilati e nella colonna 3;
- nella colonna 5, l’importo dell’acconto rideterminato, calcolato con il metodo storico, sulla base dell’imposta indicata in colonna 4.
30/05/2011

Provvigioni attive da rilevare secondo competenza e prudenza

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 9539 del 29 aprile 2011 (si veda “Provvigioni deducibili a contratto eseguito” del 30 aprile 2011) offre lo spunto per effettuare l’analisi del trattamento contabile e fiscale delle provvigioni. In questa sede si vuole, in particolare, esaminare il trattamento contabile in capo all’agente che percepisce le provvigioni c.d. attive, rinviando a successivi interventi per il trattamento da riservare al soggetto che corrisponde le provvigioni c.d. passive e per le connesse problematiche di natura fiscale. La disciplina civilistica del contratto di agenzia è contenuta negli artt. 1742 ss. c.c. Attraverso tale tipo di contratto, una parte (agente) assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra (preponente) e verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata. L’obbligazione principale che fa capo al preponente è quella di corrispondere la provvigione quando l’operazione è conclusa per effetto dell’intervento dell’agente (art. 1748 comma 1 c.c.). Peraltro, la disciplina in esame è stata profondamente innovata ad opera del DLgs. 15 febbraio 1999 n. 65, attuativo della Direttiva 18 dicembre 86 n. 86/653/CE. In particolare, assume rilievo il contenuto dell’art. 1748 c.c., in base al quale (comma 1) l’agente ha diritto alla provvigione per tutti gli affari “conclusi” per effetto del suo intervento (mentre, nella disciplina previgente, l’agente aveva diritto alla provvigione soltanto per gli affari che avevano avuto “regolare esecuzione”).
Inoltre, la provvigione spetta all’agente (comma 4):
- salvo patto contrario, dal momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito, o avrebbe dovuto eseguire, la prestazione in base al contratto concluso con il terzo;
- in ogni caso, al più tardi al momento e nella misura in cui il terzo ha eseguito, o avrebbe dovuto eseguire, la prestazione, qualora il preponente avesse eseguito quella a suo carico.
Quanto al trattamento contabile della fattispecie, in linea generale, l’applicazione del principio della competenza (art. 2423-bis comma 1 n. 3 e 4 c.c.) comporterebbe, per l’agente, l’iscrizione dei ricavi nell’esercizio in cui il servizio (quale è l’intermediazione resa) è ultimato. Il principio della competenza deve, tuttavia, essere necessariamente contemperato con quello della prudenza (art. 2423-bis comma 1 n. 1, 2 e 4 c.c.), che impone di non iscrivere ricavi non effettivamente realizzati. In ordine all’imputazione delle provvigioni attive nel bilancio dell’agente, si registrano, quindi, due orientamenti. Secondo una prima tesi, l’agente sarebbe tenuto ad iscrivere in bilancio le provvigioni all’atto della conclusione del contratto tra preponente e cliente, anche se il diritto alle provvigioni stesse è differito, in base al contratto di agenzia, a un momento successivo (quale, tipicamente, il pagamento da parte del cliente). Tale impostazione si fonderebbe sulla constatazione secondo cui l’agente matura il diritto a percepire le provvigioni, ai sensi dell’art. 1748 comma 1 c.c., “quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento”. Pur non riguardando l’aspetto strettamente contabile dell’operazione, questa è la lettura che lascerebbero intendere le ris. Agenzia delle Entrate 8 agosto 2005 n. 115 e 12 luglio 2006 n. 91. Essa, tuttavia, dovrebbe essere coordinata con quanto prescritto dai principi contabili, che impediscono l’iscrizione di ricavi non certi. Secondo una tesi alternativa, riconducibile a una “prevalenza” del principio di prudenza, le provvigioni sono, invece, iscritte in bilancio nel momento in cui il contratto attribuisce all’agente il diritto a percepire il compenso. Se si considera, infatti, che la provvigione “spetta all’agente dal momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione in base al contratto concluso con il terzo” (art. 1748 comma 4 c.c.), si dovrebbe argomentare che la certezza del ricavo dipende proprio dall’esecuzione della prestazione da parte dell’impresa preponente. In conclusione, per l’agente la provvigione costituirebbe ricavo dell’esercizio in cui il preponente esegue la prestazione a suo carico (consegna o spedizione dei beni mobili, stipula dell’atto per beni immobili, ultimazione per i servizi), ovvero quello in cui avrebbe dovuto eseguirla. Si ricorda, infine, che le provvigioni spettanti all’agente devono essere iscritte nella voce A.1 del Conto economico, se rappresentano ricavi propri dell’attività caratteristica esercitata dall’impresa, oppure nella voce A.5, qualora l’attività di intermediazione sia solamente accessoria a quella esercitata (documento OIC n. 12 e relativo documento interpretativo).
27/05/2011

Detrazione del 36%, abolita la comunicazione di inizio lavori

In relazione alla detrazione IRPEF del 36% per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, l’art. 7, comma 2 del DL n. 70/2011 (c.d. “Decreto Sviluppo”) pubblicato nella G.U. n. 110 di venerdì scorso, sopprime l’obbligo di inviare la comunicazione di inizio lavori al Centro Operativo dell’Agenzia delle Entrate di Pescara e l’obbligo di indicare distintamente, nelle fatture relative ai lavori agevolati, il costo della manodopera. In merito all’abolizione della comunicazione preventiva al Centro Operativo di Pescara, la lett. q) del citato art. 7, comma 2, modificando l’art. 1, comma 1, lett. a) del DM 18 febbraio 1998 n. 41, dispone che, ai fini dell’agevolazione in questione, è obbligatorio indicare nella dichiarazione dei redditi alcuni dati prima contenuti nella comunicazione di inizio lavori ed in particolare i dati catastali identificativi dell’immobile oggetto di intervento. In caso di immobile locato vanno indicati gli estremi di registrazione dell’atto che costituisce il titolo per la detenzione. Dovranno essere conservati ed esibiti, su richiesta degli uffici, i documenti che saranno indicati in un apposito provvedimento dell’Agenzia delle Entrate. Tale provvedimento dovrebbe chiarire se i documenti che costituivano allegati obbligatori alla comunicazione di inizio lavori (soppressa) rientrino comunque tra quelli da conservare ed esibire su richiesta degli uffici a cura del contribuente, unitamente alle fatture o ricevute fiscali comprovanti le spese sostenute per gli interventi agevolati ed alla ricevuta dei bonifici di pagamento, per cui l’obbligo di conservazione è stabilito, ora come allora, dall’art. 1, comma 1, lett. b) del DM 18 febbraio 1998 n. 41. In relazione alla soppressione dell’obbligo di indicare in fattura il costo della manodopera, si osserva che tale obbligo è stato introdotto a decorrere dalle spese sostenute dal 4 luglio 2006 (si veda l’art. 35, commi 19 e 20 del DL 4 luglio 2006 n. 223, convertito nella L. 4 agosto 2006 n. 248) ed è stato in seguito confermato dall’art. 1, comma 388 della L. n. 296/2006 (Finanziaria 2007), in relazione alla proroga dell’agevolazione per l’anno 2007, dall’art. 1 comma 19 della L. n. 244/2007 (Finanziaria 2008), in relazione alla proroga dell’agevolazione per gli anni 2008-2010 (e 2011) e dall’art. 2, comma 10, lett. a) e b) della L. n. 191/2009 (Finanziaria 2010), in relazione alla proroga dell’agevolazione per l’anno 2012. Poiché il DL n. 70/2011 abroga l’art. 1, comma 19 della L. n. 244/2007, sembrerebbe che per le spese sostenute in relazione a fatture emesse tra il 4 luglio 2006 ed il 31 dicembre 2007 permanga l’obbligo di indicare il costo della manodopera in fattura.
18/05/2011

Ufficiale la proroga per i versamenti di UNICO e 730

Con un comunicato stampa, l’Agenzia delle Entrate ha reso ufficialmente noto che ieri è stato firmato il DPCM che dispone lo slittamento annunciato dei termini, dal 16 giugno al 6 luglio 2011, senza maggiorazioni, ai sensi dell’art. 12, comma 5 del DLgs. n. 241/97, dei versamenti delle imposte dirette, dell’IRAP e dell’acconto della cedolare secca. I versamenti possono essere inoltre effettuati dal 7 luglio al 5 agosto, con maggiorazione dello 0,4%. La proroga riguarda indistintamente le persone fisiche, mentre per tutti gli altri lo spostamento in avanti delle scadenze si riferisce soltanto alle attività interessate dagli studi di settore. Ci sarà più tempo anche per i contribuenti che presentano il modello 730, che potrà infatti essere consegnato al sostituto d’imposta entro lunedì 16 maggio e ai professionisti abilitati o ai CAF entro il 20 giugno. Inoltre, a favore di professionisti e CAF, il DPCM prevede un differimento dal 30 giugno al 12 luglio 2011 per la trasmissione telematica del 730 presentato da lavoratori dipendenti e pensionati. Infine, il DPCM stabilisce che le scadenze per versamenti e adempimenti in agenda tra il 1° e il 20 agosto verranno tutte spostate a sabato 20 e, quindi, automaticamente, a lunedì 22 agosto, per consentire ai contribuenti di avere più tempo, evitando eventuali disagi legati al periodo estivo. In ogni caso, non rientrano in quest’ultima finestra i versamenti con la maggiorazione dello 0,4%, cha vanno effettuati dal 7 luglio al 5 agosto.
16/05/2011

Con la cancellazione, la società rinuncia alle azioni giudiziarie esperibili

In caso di cancellazione di una società dal Registro delle imprese, i singoli soci non sono legittimati all’esercizio di azioni giudiziarie la cui titolarità sarebbe spettata alla società, ma che questa ha scelto di non esperire, sciogliendosi e facendosi cancellare dal Registro. E' questo il principio di diritto enunciato dalla sezione I della Cassazione nella sentenza n. 16758 del 16 luglio 2010. Tale pronuncia assume rilevanza in quanto, da un lato, conferma quanto statuito dalle Sezioni Unite della stessa Corte in ordine agli effetti “estintivi” della cancellazione di tutte le società – di persone e di capitali – dal Registro delle imprese (sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010); dall’altro, affronta un ulteriore e specifico problema, sul quale le Sezioni Unite non erano state chiamate a pronunciarsi: se spetti, o meno, ai singoli soci la legittimazione a far valere in giudizio diritti o azioni la cui titolarità competeva alla società prima della cancellazione. Nel caso di specie, una sas aveva stipulato un contratto preliminare per l’acquisto di un terreno, poi risolto consensualmente mediante scrittura privata. A seguito dello scioglimento e della cancellazione della sas dal Registro delle imprese, tuttavia, alcuni soci, sostenendo che si fosse trattato di una risoluzione simulata, avevano chiesto al giudice di annullare l’atto risolutorio e di emettere una sentenza sostitutiva del contratto non concluso, intestando loro i terreni promessi in vendita alla società, ormai non più esistente. Come accennato, la Suprema Corte ribadisce, innanzitutto, che, anche con riferimento alle società di persone, la cancellazione dal Registro delle imprese determina l’estinzione dell’ente societario, sebbene perdurino rapporti giuridici o azioni giudiziarie in cui le stesse società siano parti. Ciò comporta che la società cancellata non possa più essere considerata titolare dei diritti o degli obblighi che in precedenza facevano capo ad essa: nel caso di specie, deve, quindi, escludersi che la legittimazione a far dichiarare la simulazione e a pretendere l’esecuzione in forma specifica del preliminare stipulato dalla sas continuasse a competere a quest’ultima, nonostante la cancellazione. Ma – ed è questa la questione da risolvere – tale legittimazione può essere riconosciuta ai singoli soci? Ai fini della soluzione del problema, sembrerebbe doversi fare riferimento a quanto affermato con riguardo alla sorte dei residui patrimoniali attivi non liquidati prima della cancellazione, nonché dei rapporti giuridici attivi “emersi” dopo la medesima (c.d. sopravvivenze e sopravvenienze attive). Sul punto permangono, anche dopo l’intervento delle Sezioni Unite, contrasti interpretativi: in particolare, secondo alcuni, in questi casi dovrebbe essere ordinata la cancellazione (dell’iscrizione) della cancellazione della società dal Registro delle imprese – in quanto avvenuta in difetto delle condizioni di legge – con conseguente “riviviscenza” della società e riapertura della liquidazione; altri, invece, configurano un meccanismo successorio dal quale scaturirebbe una situazione di comunione tra gli ex soci, avente ad oggetto i beni non liquidati. In realtà – osserva la Corte – non sembra necessario prendere posizione su tali opzioni ricostruttive: nel caso che ci interessa, infatti, non si parla di sopravvenienze o residui attivi, bensì di una pretesa giudiziaria volta a far dichiarare simulata la risoluzione di un preliminare di vendita immobiliare. Non si tratta, quindi, di beni, di crediti o comunque di valori di sicura identificazione, dei quali si sarebbe potuta ipotizzare la liquidazione in favore dei soci, e la cui successiva scoperta consentirebbe di dubitare che la cancellazione sia stata effettuata in presenza dei presupposti richiesti dalla legge. Appare, inoltre, assai dubbio che una simile azione – esercitata soltanto da alcuni degli ex soci – corrisponda a una posizione giuridica loro trasmessa dalla società estinta: va, infatti, considerato che la società, la quale sarebbe stata indiscutibilmente legittimata all’esercizio della stessa, non l’ha esercitata quando era “in vita” e, con la decisione di porsi in liquidazione e cancellarsi dal Registro (decisione presa a suo tempo dai soci all’unanimità), ha evidentemente e definitivamente scelto di non farlo. A differenza di quanto accade in presenza di sopravvivenze o sopravvenienze attive, per dirimere la questione non è, dunque, necessario interrogarsi su quale sia il titolo in base al quale vengono trasmessi ai soci beni o diritti prima spettanti alla società: da un lato, infatti, la mera possibilità di iniziare un’azione giudiziaria non può assimilarsi a un “bene”; dall’altro, è in ogni caso evidente come il successore non possa esercitare un’azione spettante al suo dante causa in presenza di un pregresso comportamento di quest’ultimo inequivocabilmente inteso a rinunciarvi, venendo meno in tale ipotesi l’oggetto stesso dell’ipotizzata trasmissione successoria. Nel caso in esame, la richiesta di cancellazione della società dal Registro delle imprese deve essere considerata alla stregua di una rinuncia tacita all’esercizio dei rimedi giudiziari che essa avrebbe potuto esperire e questo basta per escludere qualsiasi legittimazione ad agire in capo ai singoli soci.
09/05/2011

Le Direzioni Regionali non possono fare verifiche

E' nullo l’avviso di accertamento fondato sulle risultanze del PVC redatto a seguito di verifica fiscale da parte della Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate, atteso che tale organo è carente del potere di verifica, che la legge attribuisce ad altre articolazioni dell’Amministrazione Finanziaria. Lo ha stabilito la C.T. Prov. di Milano (sez. II), con la sentenza n. 9 del 13 gennaio 2011. Come si evince dalla motivazione della pronuncia, il punto di partenza è l’articolo 62-sexies, comma 2, del DL 331/1993, che attribuiva un potere di controllo, ispezione e verifica alle Direzioni Regionali; la norma, però, è stata abrogata ad opera dell’art. 23, comma 1, lett. pp), del DPR 107/2001, in vigore dal 25 aprile 2001. Tale potere sarebbe poi stato nuovamente attribuito, secondo l’interpretazione dei giudici milanesi, con il DL 185/2008, che, all’articolo 27, comma 13, ha demandato a tali organi regionali il controllo sui soggetti di grandi dimensioni (con volume d’affari non inferiore ai cento milioni di euro), comprese le attività di verifica fiscale, a decorrere dal 1° gennaio 2009. Pertanto, da aprile 2001 fino a tutto il 2008, le Direzioni Regionali non sarebbero state dotate del potere di ispezione, accesso e verifica presso i contribuenti: ogni loro PVC redatto in tale periodo, dunque, sarebbe nullo. E' pur vero che, in sede di istituzione delle Agenzie fiscali, l’articolo 57 del DLgs. 300/1999 aveva attribuito un potere di autoregolamentazione all’Agenzia delle Entrate, in forza del quale il suo Direttore, con Provvedimento n. 36122 del 23 febbraio 2001, aveva stabilito la competenza anche delle Direzioni Regionali per l’espletamento delle attività di verifica fiscale. Tuttavia, i giudici milanesi hanno ricordato che l’articolo 14, secondo comma, della Carta Costituzionale, stabilisce che gli accertamenti e le ispezioni ai fini fiscali devono essere regolati da leggi speciali e, pertanto, secondo la C.T. Prov., soltanto un provvedimento normativo avente forza di legge può disciplinare i poteri di verifica e ispezione presso i contribuenti (e conseguentemente i soggetti legittimati a svolgere tali attività), escludendo che a tal fine possa provvedere un atto di organizzazione interna, quale è il succitato Provvedimento direttoriale. L’articolo 57 del DLgs. 300/1999, per i giudici milanesi, consente all’Amministrazione soltanto di regolamentare la propria struttura interna, ma non le conferisce la potestà di attribuire poteri, sottoposti a riserva di legge, a soggetti e organi diversi da quelli espressamente previsti dalla legge. In conclusione, la declaratoria di nullità del PVC redatto dalla Direzione Regionale nel 2007 (anno in cui vi era assenza di potere di verifica, secondo il collegio milanese) ha comportato altresì la nullità dell’avviso di accertamento. La sentenza in commento, invero, riprende le argomentazioni già espresse, per la prima volta, dalla C.T. Prov. di Bari, che, con la pronuncia n. 12/23/08 del 19 marzo 2008, avallando la tesi proposta da un contribuente, aveva annullato l’atto impositivo fondato su una verifica (PVC) della Direzione Regionale. In quella sede, oltre alle motivazioni sopra esposte, i giudici baresi avevano anche ricordato che non solo il potere di verifica e ispezione deve essere regolato con un atto normativo avente forza di legge, ma che l’art. 7, comma 13, della L. 358/1991, tuttora vigente, recita che “Le attività di verifica e di ispezione nei confronti dei contribuenti sono attribuite all’esclusiva competenza degli uffici indicati nel comma 10 (uffici locali dell’Agenzia delle Entrate, ndr) e dei reparti della Guardia di finanza”. All’indomani della sentenza della C.T. Prov. di Bari, l’Agenzia delle Entrate (dalle pagine della sua rivista) aveva cercato di stigmatizzare l’interpretazione dei giudici, affermando che, successivamente all’istituzione dell’Agenzia, sono il DLgs. 300/1999 e le disposizioni regolamentari (Statuto, Regolamento e Provvedimenti) a stabilirne il suo funzionamento, comprese le attribuzioni agli organi interni. Nonostante ciò, poco dopo anche la C.T. Reg. si pronunciava nello stesso senso dei giudici provinciali, ovvero per la carenza del potere di verifica delle Direzioni Regionali (sent. n. 132/6/09 dell’11 dicembre 2009). Di diverso avviso, invece, si è mostrata la C.T. Prov. di Roma, che, con la sentenza n. 175/2/09 dell’11 maggio 2009, ha condiviso la tesi del Fisco per cui l’attività ispettiva svolta dalle Direzioni Regionali è pienamente legittimata dagli atti regolamentari di organizzazione interna. In attesa, quindi, che si pronunci la Cassazione, è possibile che i PVC redatti dalle Direzioni Regionali fino al 2008, risultando viziati da nullità e non essendo autonomamente impugnabili (art. 19 del DLgs. 546/1992), comportino, presso le Commissioni tributarie, una declaratoria di nullità dei provvedimenti finali del procedimento amministrativo, ovvero gli avvisi di accertamento, in forza del noto principio dell’illegittimità derivata (allorquando, ovviamente, i giudici tributari ne ritengano sussistenti i presupposti). Appare pacifico, invece, che dal 2009 le Direzioni Regionali possano effettuare (così come effettivamente avviene) soltanto verifiche presso i soggetti di grandi dimensioni.
05/05/2011

Illegittimo l’avviso di accertamento non preceduto da p.v.c.

La mancata redazione del processo verbale di constatazione (PVC), a seguito di un controllo effettuato presso il contribuente, comporta l’illegittimità del successivo avviso di accertamento, perché preclude al soggetto controllato l’esercizio dei diritti di difesa previsti dallo Statuto del Contribuente. Lo ha stabilito la C.T. Reg. Milano (sez. 38), che, con la sentenza n. 38 del 23 febbraio 2011, ha annullato un avviso di accertamento di circa 14 milioni di euro. Al di là del merito della pretesa tributaria, che è comunque stata vagliata e ritenuta infondata dai giudici regionali, la decisione si origina dalla censura avanzata dalla società accertata circa la violazione dell’art. 24 della L. 4/1929, in base al quale le violazioni delle norme finanziarie sono constatate mediante P.V., e dell’art. 12, comma 4, della L. 212/2000, per cui delle osservazioni e dei rilievi del contribuente deve darsi atto nel P.V. delle operazioni di verifica. Inoltre, la contribuente evidenziava che quest’ultima disposizione sarebbe connessa con quella recata dal comma 7 della stessa legge, in base al quale, dopo il rilascio della copia del P.V. di chiusura delle operazioni, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori, e l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza. Secondo la società, il Fisco aveva violato la suesposta normativa perché non aveva redatto il PVC prima dell’emissione dell’avviso di accertamento; in tal modo, l’Amministrazione finanziaria aveva precluso al soggetto accertato di esercitare il diritto di presentare osservazioni entro sessanta giorni dal rilascio del PVC stesso, a nulla rilevando, peraltro, la circostanza che l’attività effettuata dai funzionari presso il contribuente fosse ricollegabile all’esecuzione di un semplice accesso piuttosto che a una verifica generale, atteso che la DRE della Toscana, con una direttiva del 24 agosto 2000, aveva stabilito che le disposizioni recate dall’art. 12 dello Statuto del Contribuente devono intendersi riferite a qualsiasi tipo di intervento esterno caratterizzato dalla presenza dei funzionari nell’impresa. L’Ufficio contestava l’interpretazione della contribuente, affermando che i commi 4 e 7 dell’art. 12 dello Statuto del Contribuente si riferirebbero, invero, soltanto alle attività istruttorie esterne consistenti in verifiche fiscali e non certamente a semplici accessi per reperire la documentazione necessaria e, che, per di più, siano durati soltanto un giorno, come nel caso di specie. A supporto dalla propria tesi, l’Ufficio sottolineava che l’art. 12 in oggetto è intitolato “Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali” e che la struttura della norma è tale per cui il comma 1 si riferisce a tutti i tipi di attività esterna (accesso, verifica, etc.), mentre i successivi commi da 2 a 7 riguardano specificatamente e soltanto l’attività di verifica presso il contribuente, per lo svolgimento della quale vengono previste ulteriori prescrizioni. Inoltre, l’Agenzia delle Entrate osservava che, ai fini della decorrenza dei sessanta giorni previsti dal comma 7, è necessaria la consegna del “P.V.”, già definito al comma 4 come “P.V. delle operazioni di verifica”, che ne escluderebbe, quindi, l’applicazione in caso di semplice accesso. In ultima analisi, poi, il Fisco ribadiva che l’art. 12 dello Statuto non stabilisce alcuna sanzione di nullità dell’atto impositivo in caso di violazione delle sue disposizioni, mentre laddove il Legislatore abbia voluto prevedere la nullità l’ha espressamente indicata, come nell’ipotesi di cui agli artt. 6, comma 5, e 11, comma 2, dello stesso Statuto. La C.T. Reg., avallando la tesi della contribuente, ha stabilito che l’Ufficio, omettendo la predisposizione del PVC prima dell’avviso di accertamento, aveva violato gli artt. 24 della L. 4/1929 e 12, commi 4 e 7, dello Statuto, privando così la contribuente del diritto di difesa previsto dal predetto comma 7. Secondo il Collegio, quindi, qualsiasi tipo di controllo presso i contribuenti (accessi, verifiche, etc.) deve comportare, al termine delle attività ispettive, la redazione del relativo PVC, in assenza del quale si determina un’illegittima compressione dei diritti di difesa del contribuente garantiti dallo Statuto, che non può avere altra conseguenza che la nullità dell’avviso di accertamento, che recepisce gli esiti della viziata istruttoria (principio di invalidità derivata). In tal senso, peraltro, si era già espressa la stessa C.T. Reg. (sentenza n. 150/22/10 del 16 dicembre 2010). La pronuncia in commento ha un interessante precedente nella sentenza della C.T. Reg. Firenze n. 68 del 23 ottobre 2009, con cui era già stato stabilito che, essendo il PVC uno “strumento di tutela del contribuente nella fase di verifica”, la sua omissione determina la palese violazione dell’articolo 12, comma 7, dello Statuto e, quindi, l’illegittimità dell’atto impositivo. Peraltro, nel caso di specie, non era neppure stata effettuata alcuna attività istruttoria esterna, ma si trattava addirittura di un accertamento “a tavolino”. Non resta, pertanto, che attendere una definitiva pronuncia della Cassazione, che ponga fine alla controversa questione.
04/05/2011

Provvigioni deducibili a contratto eseguito

Con la sentenza n. 9539 del 29 aprile 2011, la Cassazione è intervenuta sulla competenza ai fini fiscali dei costi sostenuti per le provvigioni spettanti agli agenti di commercio. Il giudizio ha analizzato il rapporto tra l’applicazione del principio della competenza economica per la deducibilità dei costi ex art. 109 del TUIR delle provvigioni di agenzia ed il disposto del comma 1 dell’art. 1748 c.c. secondo cui “per tutti gli affari conclusi durante il contratto l’agente ha diritto alla provvigione quando l’operazione è stata conclusa per effetto del suo intervento”. Il successivo comma 4 prevede che “Salvo che sia diversamente pattuito, la provvigione spetta all’agente dal momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione in base al contratto concluso con il terzo”. Si ricorda che ai sensi dell’art. 109, comma 2 del TUIR, ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza:
- i corrispettivi delle cessioni si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei beni si considerano sostenute, alla data della consegna o spedizione per i beni mobili e della stipulazione dell’atto per gli immobili e per le aziende, ovvero, se diversa e successiva, alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale. Non si tiene conto delle clausole di riserva della proprietà. La locazione con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per ambedue le parti è assimilata alla vendita con riserva di proprietà;
- i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi.
Nella sentenza si osserva che quel che appare rilevante, sotto un profilo che viene definito dinamico, è pur sempre l’esecuzione della prestazione da parte del preponente ai sensi del comma 4 dell’art. 1748 c.c., col solo limite (stabilito dalla norma citata), questa volta inderogabile, sia come termine sia come quantum, dell’adempimento del terzo o analogamente a quanto pattuito per il preponente, dal momento in cui “avrebbe dovuto eseguire la prestazione qualora il preponente avesse eseguito la prestazione a suo carico”. Pertanto, in applicazione dei criteri di cui all’art. 109 del TUIR, rileva la data di esecuzione del contratto (consegna o spedizione dei beni mobili, stipula dell’atto per i beni immobili e le altre ipotesi previste dal comma 2, lett. a) e b) dell’art. 109 del TUIR) ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza dei costi di provvigione. In altre parole, la disposizione che riconosce la nascita del diritto dell’agente alla provvigione nel momento della stipula del contratto non supera quanto richiesto dall’art. 109, comma 2 del TUIR ai fini dell’individuazione dell’esercizio di competenza affinché il preponente possa dedursi il costo. Ad avviso della Corte di Cassazione, quindi, non è possibile invocare il collegamento tra nascita del diritto alla provvigione in capo all’agente e diritto del preponente a dedurre il costo della provvigione, collegamento che va fatto, invece, tra esecuzione (o obbligo di esecuzione del contratto) da parte del preponente, cui la nuova disciplina ricollega l’esigibilità della provvigione e diritto di esporre il costo in base alla disposizione citata.
02/05/2011

Nel 730/2011 lavoro straordinario al rimborso

Una delle principali novità del modello 730/2011 è rappresentata dalla possibilità, per i lavoratori dipendenti del settore privato, di richiedere il rimborso delle maggiori imposte pagate in relazione alle somme percepite negli anni 2008 e 2009 per il conseguimento di elementi di produttività e redditività assoggettabili a imposta sostitutiva in tali anni. Il regime fiscale agevolato, che prevede un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali pari al 10%, in luogo della tassazione ordinaria per le componenti del reddito di lavoro dipendente correlate all’incremento della produttività dell’impresa, era stato previsto per la prima volta, in via sperimentale con riferimento al periodo luglio – dicembre 2008, dall’art. 2 del DL 27 maggio 2008 n. 93. Esso si applicava alle retribuzioni corrisposte nel limite di 3.000 euro lordi, ai dipendenti del settore privato che avessero conseguito, nel 2007, redditi da lavoro (comprese le pensioni e gli assegni a queste equiparati) complessivamente non superiori a 30.000 euro lordi. Questa disciplina di favore è stata prorogata, sia pure con alcune modificazioni, prima al 2009 e successivamente al 2010. Per gli anni 2009 e 2010, essa ha riguardato i dipendenti che, nell’anno precedente a quello di spettanza del beneficio, avessero percepito redditi di lavoro dipendente di ammontare non superiore a 35.000 euro, per un importo dei redditi agevolabili elevato a 6.000 euro. Sul punto, con la circolare n. 12 del 26 aprile 2011, Assonime osserva che le disposizioni di proroga sembravano aver circoscritto l’agevolazione alle sole somme erogate al dipendente “in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa”. In seguito, però, l’ambito oggettivo di applicazione dell’agevolazione è stato notevolmente ampliato per effetto dell’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate nella ris. n. 83 del 17 agosto 2010. Precisamente, è stata adottata un’interpretazione estensiva degli elementi retributivi premiali (premi di produttività) agevolabili, ritenendo che in essi possano rientrare, tra l’altro:
- le indennità o maggiorazioni di turno o comunque le maggiorazioni retributive corrisposte per lavoro normalmente prestato in base ad un orario articolato su turni;
- le somme erogate a titolo di lavoro notturno ordinario;
- la maggiorazione corrisposta ai lavoratori che, usufruendo del giorno di riposo settimanale in giornata diversa dalla domenica (con spostamento del turno di riposo), siano tenuti a prestare lavoro la domenica.
Alla luce dell’ampliamento dell’ambito oggettivo di applicazione dell’agevolazione operato in via interpretativa dall’Agenzia delle Entrate, il contribuente che negli anni 2008 e 2009 abbia percepito compensi agevolabili tassati in via ordinaria potrà richiedere il rimborso delle maggiori imposte pagate. Tale opzione può essere esercitata all’interno del modello 730/2011 mediante la compilazione del rigo F13, le cui istruzioni precisano che, per determinare il rimborso spettante al contribuente, occorre ottenere:
- il CUD 2011 che attesti le somme erogate negli anni 2008 e/o 2009 a titolo di incremento della produttività;
- il CUD e la dichiarazione dei redditi relativi all’anno nel quale sono stati erogati i compensi.
Si ricorda, infine, che il rimborso non può essere richiesto con il modello 730/2011 qualora sia stata già presentata istanza di rimborso all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate oppure sia stata presentata una dichiarazione integrativa per gli anni 2008 e/o 2009 per far valere la tassazione più favorevole.
28/04/2011

Dal 30 aprile comunicazioni obbligatorie con nuove regole

Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, con il decreto direttoriale n. 1546/2011, ha introdotto, con validità dal 30 aprile 2011, alcune modifiche e aggiornamenti alle comunicazioni telematiche obbligatorie che i datori devono effettuare dal momento in cui instaurano un rapporto di lavoro. Sono quindi interessati da queste novità i moduli da utilizzare per tali comunicazioni e le loro modalità di invio telematico alla Regione o Provincia Autonoma di competenza, effettuato direttamente o tramite soggetti abilitati. Un primo significativo intervento di aggiornamento riguarda il modello Unificato Lav, ovvero il modulo mediante il quale tutti i datori di lavoro pubblici e privati di qualsiasi settore – ad eccezione delle Agenzie per il lavoro, relativamente ai rapporti di somministrazione – adempiono all’obbligo di comunicazione dell’assunzione dei lavoratori, della proroga, trasformazione e cessazione dei relativi rapporti di lavoro. Una prima modifica che interessa questo modulo riguarda il Quadro Datore di Lavoro dove, nel relativo campo dedicato all’indirizzo delle sede legale si specifica che quest’ultima deve essere dislocata nel territorio nazionale. Ulteriori e importanti novità riguardano la sezione Quadro lavoratore, dove vanno indicati i dati identificativi del lavoratore, e che vede ora l’introduzione di due nuovi campi da utilizzare in caso di assunzione di lavoratori extracomunitari. Si tratta dei campi denominati “Sussistenza della sistemazione alloggiativa”, dove il datore di lavoro si impegna o meno a garantire la sistemazione alloggiativa, e “Impegno del datore di lavoro al pagamento delle spese per il rimpatrio”. Entrambi questi campi sono da compilare solo in caso di utilizzo del modello UNILAV in sostituzione del Modello Q, ovvero il contratto di soggiorno per lavoro subordinato concluso direttamente tra datore di lavoro e lavoratore extracomunitario. Un ulteriore intervento riguarda il Quadro Trasformazione, da compilarsi nei casi di trasformazione del rapporto di lavoro, di trasferimento, distacco o comando del lavoratore. Il campo interessato dalla novità è quello dedicato alla Pat INAIL, dove ora si deve inserire quella del datore di lavoro al momento del distacco o comando. Inoltre, in caso di distacco presso azienda estera, occorre indicare solo l’opzione “SI” senza compilare, nella parte relativa al datore distaccatario, il campo codice fiscale, CAP e la Pat INAIL. Importanti modifiche sono inoltre state apportate al modulo Unificato Somm, mediante il quale le Agenzie per il lavoro adempiono all’obbligo di comunicazione relativo a tutte le tipologie di rapporti di somministrazione. Nella sezione denominata Quadro datore Agenzia di somministrazione, viene ribadito – anche in questo caso – che la sede legale deve essere dislocata nel territorio nazionale, mentre nel Quadro Rapporto Agenzia/lavoratore, si specifica che in caso di contratto di apprendistato o inserimento lavorativo non è necessario indicare la data di fine della somministrazione. Invece, per quanto concerne il Quadro Ditta Utilizzatrice, si precisa che, nell’indicazione delle date di inizio e fine del contratto di somministrazione, occorre indicare i medesimi termini previsti dal contratto stipulato tra Agenzia e ditta utilizzatrice. Inoltre, rimanendo sempre nello stesso quadro, l’indicazione del codice fiscale non è obbligatoria nel caso di una ditta utilizzatrice estera che opera in Italia (previa indicazione con “SI” nel relativo campo). Nella sezione dedicata al rapporto ditta utilizzatrice/lavoratore occorre poi inserire la data di fine missione, qualora il rapporto di lavoro sia a tempo determinato. Ancora, ulteriori e significativi aggiornamenti riguardano il modulo Unificato VARDatori, ora utilizzabile per tutte le comunicazioni di: variazione della ragione sociale; incorporazione; fusione; usufrutto; cessione ramo d’azienda; cessione di contratto; affitto ramo d’azienda. Infine, l’ultima novità riguarda le modalità di trasmissione dei moduli, in particolare il c.d. “codice comunicazione”, ovvero quel codice identificativo univoco a livello nazionale attribuito dal servizio informatico ad ogni singola comunicazione inviata. In questo caso, è stato inserito nella struttura del codice anche il riferimento numerico alla Regione di provenienza della comunicazione.
22/04/2011

Interessi passivi in UNICO SC 2011

La predisposizione della sezione della dichiarazione dei redditi, riguardante la deduzione degli oneri finanziari delle società di capitali, presenta alcune novità procedurali. Le modifiche traggono origine dai chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 23 giugno 2010 n. 38, nell’ipotesi di riporto da periodi d’imposta precedenti di eccedenze non dedotte (ad esempio, nel 2009), ma in presenza di eccedenze di interessi attivi nel periodo d’imposta di compilazione della dichiarazione (nel 2010). Per comprendere pienamente le novità compilative, è necessario ricordare che, fino allo scorso anno (UNICO SC 2010), il rigo RF118 della dichiarazione dei redditi doveva essere compilato secondo delle modalità mentre nella compilazione del medesimo rigo nel modello UNICO 2011, le informazioni richieste sono le medesime, ma è cambiato l’ordine di esposizione. A differenza del passato, nel modello UNICO 2011 è richiesta prima l’indicazione degli interessi passivi (sia quelli dell’anno 2010, sia quelli eventualmente riportati dagli anni precedenti) e, poi, l’esposizione degli interessi attivi, al fine di calcolare l’eccedenza, già tenendo conto anche degli interessi passivi eventualmente riportati dagli anni precedenti. La novità in parola si spiega, come anticipato, con i chiarimenti illustrati dall’Agenzia nella circolare n. 38/2010, che ha affrontato il caso in cui nel periodo d’imposta di compilazione del modello UNICO (2010) gli interessi attivi siano superiori a quelli passivi del medesimo periodo, in presenza di un riporto a nuovo dall’anno precedente (2009) di un’eccedenza di interessi non dedotti. Al ricorrere di tale ipotesi, seguendo il dettato normativo del comma 4 dell’art. 96 del TUIR, e le istruzioni al modello UNICO, gli interessi attivi eccedenti quelli passivi di periodo (2010), non sarebbero utilizzabili in diminuzione degli interessi passivi riportati da anni precedenti, in quanto la citata disposizione prevede che l’eccedenza non dedotta negli anni precedenti possa essere scomputata – e, quindi, dedotta – solamente in presenza di un 30% del ROL di periodo superiore all’eccedenza di interessi relativa al periodo. In altre parole, secondo la normativa vigente, soltanto un ROL non utilizzato nell’anno può consentire alla società di dedurre gli interessi riportati dagli anni precedenti. L’Amministrazione finanziaria, andando oltre la norma, consente di dedurre l’eccedenza riportata dagli anni precedenti anche mediante l’utilizzo degli interessi attivi residui formatasi nel periodo di riferimento del modello UNICO, aggiungendo in tal modo un’ulteriore “opzione” per il contribuente virtuoso. Per tale motivo, il rigo RF118 è stato oggetto di restyling, al fine di consentire l’indicazione nelle prime due colonne di tutti gli interessi passivi (di periodo e riportati dagli anni precedenti), ed in colonna 3 quelli attivi di periodo. In tal modo, la differenza tra interessi passivi e attivi del periodo incorpora già al proprio interno l’eccedenza non dedotta nei precedenti periodi, talché, se gli interessi attivi del periodo sono particolarmente elevati, ciò consente alla società di portare in deduzione, oltre agli interessi passivi del periodo, anche almeno una parte di quelli riportati a nuovo dalle precedenti annualità.
22/04/2011

Modello EAS 2010 entro il 31 marzo 2011

Gli enti non profit già costituiti al 30 gennaio 2011 hanno tempo sino al 31 marzo per presentare il modello EAS, necessario per beneficiare delle agevolazioni fiscali riconosciute ai fini IRES e IVA. Gli enti costituitisi dal 31 gennaio 2011 devono presentare il modello entro 60 giorni dalla data di costituzione. L’obbligo di presentazione del modello EAS è stato introdotto dal c.d. “DL anticrisi” e l’Agenzia delle Entrate aveva fissato la scadenza per la presentazione, in prima battuta, al 30 ottobre 2009, rinviandola poi al 31 dicembre 2009. Il DL 29 dicembre 2010 n. 225, meglio noto come “milleproroghe”, ha riaperto i termini di presentazione del modello EAS da parte degli enti non commerciali di tipo associativo (salvo alcune esclusioni) e delle società sportive dilettantistiche, al fine di beneficiare della non imponibilità dei corrispettivi, delle quote e dei contributi ai fini IRES (ai sensi dell’art. 148 del TUIR) e IVA (ai sensi dell’art. 4 del DPR 633/72). Si segnala altresì che la circ. Agenzia delle Entrate 24 febbraio 2011 n. 6 considera tempestivamente presentati i modelli EAS trasmessi prima del 29 dicembre 2010 (data di entrata in vigore del DL 225/2010), ma tardivamente rispetto alla precedente scadenza del 31 dicembre 2009 o dei 60 giorni per i soggetti neocostituiti. Tali soggetti non devono quindi ripresentare il modello EAS entro il 31 marzo 2011, a meno che siano intervenute variazioni dei dati già comunicati. In linea generale, in caso di variazione dei dati trasmessi, il modello EAS deve essere nuovamente presentato entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui si è verificata la variazione. Per effetto del DL 225/2010, deve ritenersi che la riapertura al 31 marzo 2011 riguardi anche i termini in esame, cioè quelli previsti per comunicare eventuali variazioni dei dati rispetto a quanto indicato in sede di prima presentazione del modello EAS entro il 31 dicembre 2009 e che siano scaduti dopo la suddetta data del 31 dicembre 2009. Ad esempio, se il modello EAS è stato presentato il 15 novembre 2009 e il 20 dicembre 2009 è intervenuta una variazione che comporta l’obbligo di comunicazione, occorreva ripresentare il modello EAS per comunicare la variazione entro il 31 marzo 2010; se tale adempimento non è stato rispettato, può ora essere effettuato entro il 31 marzo 2011.
30/03/2011

DURC: aggiornato il servizio per le pratiche online

Con la circolare 22 del 24 marzo 2011, l’INAIL ha reso noto l’intervento di aggiornamento effettuato sull’applicazione online www.sportellounicoprevidenziale.it, dedicata alla richiesta e al rilascio del DURC, apportando nuove funzionalità e una rinnovata veste grafica. Lo stesso Ente spiega, nel suo intervento di prassi, che la finalità dell’aggiornamento è migliorare il funzionamento del servizio telematico attraverso l’implementazione di funzionalità aggiuntive riguardanti i contratti per forniture e servizi (anche in economia), i consorzi, la gestione di ulteriori tipologie di richieste, la grafica e il contenuto dei certificati, nonché l’emissione di un nuovo DURC in sostituzione di un precedente certificato, oggetto di annullamento. Entrando nel merito, nella parte della circolare di maggior interesse per aziende e intermediari, l’INAIL segnala che con la nuova versione – la 4.0 – nulla è cambiato per quanto concerne l’accesso al sito da parte di coloro che devono continuare a utilizzare le utenze già in uso per i servizi online del medesimo Ente assicurativo e dell’INPS. A tal proposito, le relative informazioni sono pubblicate sul sito e raggiungibili seguendo il percorso: “Info” – “Informazioni per l’accesso”. Inoltre, per operare la consultazione delle richieste effettuate con la precedente versione, l’INAIL ricorda che tutte le richieste inoltrate dal 1° gennaio 2006 (data di attivazione del servizio) al 24 marzo 2011 sono presenti nella nuova versione e possono essere quindi essere consultate dagli utenti con le consuete modalità. Non sono invece più consultabili, in quanto cancellate, tutte le richieste di DURC che alla data del 24 marzo 2011 sono state inserite nella precedente versione dell’applicativo (la 3.5), ma che non sono state inoltrate: si tratta delle pratiche c.d. “incomplete”. Continuando con le novità, si segnala l’inserimento di due nuove tipologie di richiesta di DURC, ovvero: “Contratti di forniture e servizi in economia con affidamento diretto” (i cui dati da inserire sono riportati sul quadro C del modello, sostanzialmente analogo a quello già in uso, con indicazione dell’oggetto del contratto che viene riportato sul DURC) e “Altri usi consentiti dalla legge”. In particolare, quest’ultima tipologia è prevista per gestire le richieste inerenti rapporti contrattuali tra privati, ancorché il DURC non sia espressamente previsto da una specifica norma di legge ovvero per gestire richieste di DURC non previste dall’applicativo, ma necessarie a dimostrare il possesso del requisito della regolarità contributiva in base a una specifica disposizione di legge. Tra le modifiche più significative apportate alle tipologie di richiesta del DURC, ne segnaliamo alcune di particolare interesse, presenti sempre nella circ. 22/2011 dell’INAIL. La prima riguarda la richiesta di DURC per appalti pubblici di forniture e servizi, che ora segue le stesse modalità previste per gli appalti di lavori pubblici. Un’ulteriore e significativa modifica è relativa agli appalti di lavori, forniture e servizi, per i quali è previsto il tipo contratto “affidamento” per la gestione delle richieste relative alle imprese mandanti – in caso di raggruppamento temporaneo di imprese – e alle imprese consorziate. Si punta così a “tracciare”, in relazione a un determinato appalto, il legame tra l’appaltatore, mandatario, consorzio e le imprese esecutrici, mandanti, consorziate. Si segnala, poi, l’obbligo di selezionare, in tutte le richieste di DURC, una delle specifiche previste nella sezione “tipo ditta” (“datori di lavoro”, “lavoratori autonomi”, “gestione separata - committente associante” e “gestione separata - titolare di reddito di lavoro autonomo, di arte e professione”). Si tratta di tipologie che si riferiscono all’iscrizione presso l’INPS al fine di individuare le posizioni contributive oggetto di verifica di regolarità. Per quanto concerne le modifiche riguardanti i DURC emessi nella nuova versione dell’applicativo, si segnalano alcuni importanti interventi. Ad esempio, per gli appalti pubblici occorre effettuare la descrizione completa della tipologia della richiesta, con indicazione del tipo (appalto, subappalto, affidamento), della fase (es. stipula contratto) e, nel caso di contratti di forniture e servizi in economia con affidamento diretto, della descrizione dell’oggetto del contratto (es. acquisto cancelleria) indicata nella richiesta; nel caso di subappalto e di affidamento, è necessaria l’indicazione della stazione appaltante e del subappaltatore/mandante/consorziata. Invece, per la tipologia “altri usi consentiti dalla legge”, occorre descrivere lo specifico motivo della richiesta indicato dall’utente. Il DURC verrà emesso nel momento in cui tutti gli enti abbiano inserito nella procedura l’esito della propria verifica e, comunque, al 31° giorno dalla data di richiesta, salvo eventuale sospensione, ai fini istruttori, della durata massima di 15 giorni. Infine, nella circ. 22/2011 l’INAIL precisa che, nella nuova versione 4.0, è stata eliminata la possibilità di effettuare, contestualmente alla richiesta di DURC, la denuncia di nuovo lavoro temporaneo allo stesso INAIL, poiché è stato rilasciato apposito servizio online su www.inail.it
30/03/2011

Serve l’autorizzazione del PM per accedere nella casa/studio del commercialista

L’accesso presso la casa/studio del dottore commercialista (ma il principio vale per ogni categoria professionale, oltre che per i contribuenti) può avvenire, ai fini fiscali, solo previo ottenimento dell’apposita autorizzazione del Procuratore della Repubblica, come prevede l’art. 52 del DPR 633/72. Ove ciò non venga rispettato, gli elementi rinvenuti sono inutilizzabili, e l’accertamento, se non sorretto da ulteriori fonti, deve essere annullato. Questa è la decisione della Corte di Cassazione, presa con la sentenza 6908 depositata lo scorso 25 marzo. Nel caso in oggetto, nessun rilievo ha avuto il fatto che il professionista avesse, presso l’abitazione oggetto dell’accesso, la “sola residenza anagrafica”, posto che non era un fatto contestato quello in forza del quale egli avesse “anche” la residenza. Il disposto normativo è chiaro: se l’accesso avviene in luoghi adibiti all’esercizio di attività commerciali/professionali, è sufficiente la sola autorizzazione del capo ufficio se l’accesso avviene in luoghi c.d. “promiscui“, ovvero adibiti anche ad abitazione, l’autorizzazione deve provenire dal Procuratore della Repubblica; se l’accesso avviene presso l’abitazione del contribuente, l’autorizzazione deve sempre essere quella del PM, ma, in aggiunta, serve la dimostrazione di gravi indizi di evasione. Nella specie, il fatto che il luogo di accesso fosse adibito anche a residenza rendeva ovviamente necessaria l’autorizzazione giudiziaria, da qui l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti. Dall’analisi della sentenza emerge che l’adibizione dell’immobile anche come abitazione non era un fatto contestato; al riguardo, occorre ricordare che, al pari di quanto sostenuto dalla Guardia di Finanza con la circolare 1/2008, ai fini della necessità dell’autorizzazione, occorre che la destinazione ad abitazione sia attuale ed effettiva, non essendo di certo sufficiente l’affermazione dell’imprenditore in tal senso. Secondo la costante giurisprudenza di Cassazione, ove venga violato il precetto della norma si ha una lesione del principio costituzionale di inviolabilità del domicilio, con conseguente inutilizzabilità degli elementi acquisiti (cfr., ad esempio, Cass. Sezioni Unite 17 ottobre 2002 n. 16424). La questione è diversa qualora si controverta in merito ad un accesso eseguito presso lo studio professionale o presso il luogo ove viene esercitata l’attività commerciale (eccezion fatta per documenti in merito ai quali venisse opposto il segreto professionale), posto che, almeno secondo Cass. 12 febbraio 3388/2010, nessuna nullità/inutilizzabilità può essere comminata, a diffferenza di quanto si è detto per gli accessi domiciliari.
29/03/2011

D.P.S. scadenza al 31 marzo

Scade il prossimo 31 marzo il termine annuale per la redazione e l’aggiornamento del documento programmatico sulla sicurezza (DPS), la misura minima di sicurezza prevista, in relazione all’obbligo generale di protezione dei dati personali, dall’art. 34 comma 1 lett. g) e dal punto 19 dell’allegato B) del DLgs. 196/2003, meglio noto come Codice della privacy. In linea generale, infatti, secondo l’art. 31 del Codice della privacy, i dati personali oggetto di trattamento sono custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati e alle specifiche caratteristiche del trattamento, in modo da ridurre al minimo, mediante l’adozione di idonee e preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita, anche accidentale, dei dati stessi, accesso non autorizzato, trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta. Innanzitutto, in merito, si ricorda che l’obbligo di redazione del DPS ricorre in caso di trattamento di dati personali, “sensibili” o giudiziari, con strumenti elettronici (ad esempio, mediante computer). Per dati “sensibili” si intendono quei dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Con l’art. 29 comma 1 del DL 112/2008, che ha aggiunto il comma 1-bis all’art. 34 del Codice della privacy, sono state introdotte alcune semplificazioni con riguardo ai trattamenti effettuati con strumenti elettronici. Secondo tale norma, per i soggetti che trattano con strumenti elettronici soltanto dati personali “non sensibili” e come unici dati “sensibili” quelli costituiti dallo stato di salute o di malattia dei propri dipendenti e collaboratori anche a progetto, senza indicazione della relativa diagnosi, ovvero dall’adesione ad organizzazioni sindacali o a carattere sindacale, l’obbligo di redigere e aggiornare il DPS è sostituito da un’autocertificazione in cui si attesta di trattare solo tali dati in osservanza delle altre misure di sicurezza prescritte. Modalità semplificate sono previste anche per i soggetti pubblici e privati che trattano dati personali unicamente per correnti finalità amministrative e contabili, in particolare presso liberi professionisti, artigiani e piccole e medie imprese (sul punto si veda il Provv. del Garante per la protezione dei dati personali datato 27 novembre 2008). Per la mancata redazione o il mancato aggiornamento del DPS, il Codice prescrive l’applicazione di sanzioni amministrative e penali. Si ricorda ancora che, nella relazione accompagnatoria del bilancio d’esercizio, se dovuta, devono essere indicate l’avvenuta redazione o aggiornamento del DPS.
29/03/2011

Interessi passivi dei soggetti IRES al test del ROL

Secondo il regime delineato dall’art. 96, comma 1 del TUIR per la deducibilità degli interessi passivi da parte dei soggetti IRES che svolgono un’attività industriale o commerciale, l’eventuale eccedenza di interessi passivi rispetto a quelli attivi è deducibile nei limiti del 30% del risultato operativo lordo della gestione caratteristica. Per risultato operativo lordo (ROL) si intende la differenza tra il valore della produzione (lettera A) e i costi della produzione (lettera B) del Conto economico, con l’esclusione degli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali ed immateriali iscritti nelle voci di cui al numero 10) lettere a) e b) e dei canoni di locazione finanziaria dei beni strumentali. In merito, si ricorda che la circ. Agenzia delle Entrate 21 aprile 2009 n. 19 (§ 2.3) ha chiarito che, ai fini del calcolo in questione, i dati da assumere sono esclusivamente quelli civilistici, e quindi sono irrilevanti le riprese fiscali. Sul tema è stato anche osservato che l’esclusione della voce B.10.c del Conto economico penalizza ingiustamente le imprese che, in aderenza al principio di prudenza ai fini della redazione del bilancio, operano delle svalutazioni sui beni strumentali (cfr. circ. Assonime 18 novembre 2009 n. 46, § 5). Ai fini del calcolo del ROL, assume notevole importanza la corretta imputazione dei componenti positivi e negativi nell’area ordinaria piuttosto che straordinaria, atteso che solo nel primo caso essi rilevano ai fini della normativa in esame. In particolare, assume notevole importanza, per massimizzare il ROL aumentando la sezione relativa al valore della produzione, la voce A.5 del Conto economico denominata “Altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio”. Si tratta di una voce di natura residuale, comprendente tutti i componenti positivi di reddito di natura ordinaria diversi da quelli indicati nella precedente voce A.1. In sostanza, vi sono ricompresi i ricavi e proventi di natura non finanziaria relativi alla gestione accessoria. Possono essere iscritti in tale voce i seguenti componenti di reddito:
- i proventi derivanti dalle gestioni accessorie;
- le plusvalenze da alienazione di beni strumentali;
- i ripristini di valore delle immobilizzazioni materiali e immateriali e dei crediti;
- le sopravvenienze e insussistenze relative a valori stimati;
- i ricavi e proventi diversi, di natura non finanziaria;
- i contributi.
29/03/2011

Liquidazioni SRL deliberate nel 2010: bilancio e dichiarazioni

Solo il bilancio al 31 dicembre 2010, predisposto e sottoscritto dal liquidatore, è soggetto agli obblighi di deposito presso il Registro delle imprese. Nel corso del 2010 si è assistito con una certa frequenza alla messa in liquidazione di società la cui situazione patrimoniale non consentiva più la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Nei contesti societari di piccola o media dimensione lo scioglimento anticipato avviene solitamente con una deliberazione dell’assemblea in sede straordinaria che nomina contestualmente il liquidatore (che nella maggior parte dei casi é l’ex amministratore della società), assemblea effettuata prima che le perdite abbiano eroso il capitale in modo tale da obbligare ad attivare i procedimenti di ricapitalizzazione previsti dal codice civile. In questi casi, il periodo che intercorre tra l’iscrizione della nomina dei liquidatori e la fine dell’esercizio sociale costituisce il primo periodo di liquidazione; come evidenziato dal documento OIC 5, infatti, alla data di iscrizione presso il Registro delle imprese della nomina dei liquidatori (siano essi anche i precedenti amministratori) inizia la gestione liquidatoria, con il conseguente obbligo di redigere tutta la documentazione prevista dal principio contabile stesso. Occorre, quindi, predisporre:
- una “situazione dei conti” alla data di effetto dello scioglimento, ovvero alla data in cui la delibera assembleare è stata iscritta presso il Registro delle imprese, rappresentata in sostanza da un semplice bilancio di verifica senza scritture di assestamento;
- un “rendiconto sulla gestione” alla data di avvio della gestione liquidatoria, ovvero alla data in cui è stata iscritta presso il Registro delle imprese la nomina del liquidatore (data che coincide con quella di riferimento della “situazione dei conti”, se è unica la delibera che ha deciso lo scioglimento anticipato e la nomina del liquidatore), rappresentato da un vero e proprio bilancio straordinario completo di scritture di rettifica, anche se non sono previsti né l’approvazione assembleare, né il deposito presso il Registro delle imprese;
- un “bilancio iniziale di liquidazione”, sempre alla stessa data, che esprima gli importi a criteri di realizzo anziché secondo i consueti criteri basati sul costo storico, anch’esso non soggetto agli obblighi pubblicitari previsti per i bilanci ordinari.
Con riferimento a questo ultimo documento, lo stesso principio contabile evidenzia che, nel caso in cui l’impresa continui l’attività (seppure con una gestione di tipo meramente conservativo), é consentito il mantenimento dei criteri di valutazione ordinari, fermo comunque restando che si tratta di un periodo d’imposta di liquidazione. In questo modo, il primo bilancio soggetto alle ordinarie procedure di approvazione e deposito é costituito dal bilancio al 31 dicembre 2010, che accoglie i dati delle operazioni compiute sia nel periodo “ante liquidazione”, sia nel periodo interinale di liquidazione (normalmente si procede per mezzo di una rappresentazione con un Conto economico con colonne affiancate, come suggerito dallo stesso documento OIC 5). L’intervenuta messa in liquidazione nel corso del 2010 determina effetti anche dal punto di vista fiscale. Sotto il profilo delle imposte sui redditi, é previsto il frazionamento dell’esercizio sociale in due periodi d’imposta, il primo dall’inizio dell’esercizio al giorno precedente all’iscrizione presso il Registro delle imprese della delibera di messa in liquidazione, e il secondo dalla data di iscrizione della delibera al termine dell’esercizio. Ciascuno dei due periodi di imposta è, naturalmente, soggetto ad autonomi obblighi dichiarativi. In questo caso, per la determinazione del reddito del periodo ante liquidazione si può utilizzare il Conto economico del “rendiconto sulla gestione”, apportando chiaramente tutte le variazioni previste dalla normativa fiscale.
29/03/2011

Cinque per mille 2011: iscrizioni dal 15 marzo

Con la circolare n. 9 diffusa ieri, 3 marzo 2011, l’Agenzia delle Entrate ricapitola la disciplina relativa al beneficio del cinque per mille dell’IRPEF per l’anno finanziario 2011. La possibilità di destinare il cinque per mille dell’IRPEF dovuta per il periodo d’imposta 2010 a determinate finalità, infatti, è stata prorogata dall’art. 2, comma 1 del DL 29 dicembre 2010 n. 225 (c.d. “Milleproroghe”), convertito nella L. 26 febbraio 2011 n. 10. Il beneficio è regolato secondo le stesse modalità e termini previsti per il 2010. Quanto alla normativa, occorre, quindi, fare riferimento:
- all’art. 2, commi da 4-novies a 4-undecies del DL 25 marzo 2010 n. 40, convertito nella L. 22 maggio 2010 n. 73;
- al DPCM del 23 aprile 2010, per quanto concerne le modalità e i termini degli adempimenti a carico degli enti interessati e delle attività che le Amministrazioni competenti sono tenute a porre in essere ai fini del riparto del beneficio.
Si segnala che i termini stabiliti in tale DPCM sono stati aggiornati per gli anni: da 2009 a 2010, da 2010 a 2011 e da 2011 a 2012. Rimangono, quindi, invariati il giorno ed il mese, mentre viene aggiornato l’anno di riferimento. In sostanza, la proroga disposta dal “Milleproroghe” consente di destinare il cinque per mille a sostegno delle stesse categorie di soggetti e con i medesimi termini e modalità stabilite dalle disposizioni sul cinque per mille per l’esercizio finanziario 2010. La destinazione del cinque per mille può avvenire, alternativamente, ad una delle seguenti finalità:
- sostegno del volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), delle associazioni di promozione sociale (APS) iscritte nei registri nazionale, regionali e provinciali previsti dall’art. 7 della L. 7 dicembre 2000 n. 383, oppure delle associazioni e fondazioni riconosciute che operano in particolari settori (assistenza sociale e socio-sanitaria, assistenza sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, tutela, promozione e valorizzazione delle cose d’interesse artistico e storico, tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente, promozione della cultura e dell’arte, tutela dei diritti civili, ricerca scientifica di particolare interesse sociale);
- sostegno alle a.s.d. riconosciute ai fini sportivi dal CONI a norma di legge che svolgono una rilevante attività di interesse sociale;
- sostegno delle attività sociali svolte dal Comune di residenza del contribuente;
- finanziamento della ricerca scientifica e dell’università;
- finanziamento della ricerca sanitaria.
Gli adempimenti che i soggetti interessati devono effettuare per l’iscrizione negli elenchi dei beneficiari ed i relativi termini vengono schematizzati dall’Agenzia in apposite tabelle, distinte per ciascun ente. Ad esempio, gli enti del volontariato, le ONLUS, le associazioni di promozione sociale, le associazioni sportive dilettantistiche e le altre associazioni o fondazioni riconosciute presentano la domanda di iscrizione, a pena di decadenza, esclusivamente in via telematica, entro il 7 maggio 2011, direttamente o tramite un intermediario abilitato (dottore commercialista). L’iscrizione, invece, deve essere effettuata, a pena di decadenza, entro il 30 aprile 2011 per le Università e gli altri soggetti operanti nel settore della ricerca scientifica e per i soggetti che operano nel settore della ricerca sanitaria. Le procedure di iscrizione saranno attivate dalle amministrazioni competenti a partire dal 15 marzo 2011. Gli elenchi provvisori dei soggetti ammessi al beneficio saranno pubblicati sul sito Internet dell’Agenzia delle Entrate entro il 14 maggio 2011, mentre quelli definitivi saranno disponibili solo dal 25 maggio 2011, a seguito della correzione di eventuali errori segnalati a cura degli enti del settore no profit e delle associazioni sportive dilettantistiche.
10/03/2011

Gli accertamenti esecutivi nei confronti di un socio di SNC

La neointrodotta esecutività degli avvisi di accertamento riserva molte sorprese, visto che, in sostanza, viene modificato l’intero sistema di riscossione degli importi richiesti con accertamento ai fini delle imposte sui redditi/IVA. Una delle tante questioni che il nuovo assetto, in vigore dal prossimo 1° luglio, si trascina dietro concerne la tutela del socio di società in nome collettivo nelle cause relative a debiti tributari della società (IVA, IRAP). E' chiaro che, stante la natura solidale e illimitata della responsabilità dei soci e ferma restando la preventiva escussione (art. 2291 e 2304 c.c.), i soci rispondono dei debiti tributari accertati in capo alla società, ed è altrettanto chiaro che, una volta accertato il debito, è possibile notificare la cartella di pagamento direttamente al socio al fine di esigere ad esempio l’IVA, dovuta in forza di un avviso di accertamento emanato e notificato alla società (Cass. 9 maggio 2007 n. 10584; Cass. 21 aprile 2008 n. 10267). In sostanza, non è necessario, a pena di nullità della cartella, che l’Agenzia delle Entrate notifichi al socio l’avviso emanato in capo alla società, visto che, come “correttivo” del sistema, il socio, in “deroga” all’autonomia degli atti impugnabili, in sede di impugnazione dell’atto esattivo può sollevare eccezioni relative all’atto presupposto non notificato (quindi, il ricorso contro il ruolo non dovrà essere circoscritto a vizi propri dell’atto esattivo, ma potrà contenere questioni relative alla legittimità della rettifica o alla debenza del tributo). Se già ora tale affermazione non è stata condivisa da molti, siccome il socio deve difendersi contro un atto (la cartella) composto da codici e numerazioni che, se sono poco comprensibili per chi ha ricevuto l’accertamento, non lo sono affatto per un soggetto (il socio) che può anche essere ignaro della pretesa del Fisco creditore, per il futuro la difesa sarà semplicemente impossibile. Infatti, una volta accertato il debito in capo alla società, se si accetta il ragionamento della Cassazione, l’atto successivo non sarà la cartella (che non vi sarà nemmeno più), ma direttamente il pignoramento. Bisogna tenere conto in questi casi dalle facoltà e delle modalità di impugnativa ex-art. 2 del DLgs. 546/92 afferma espressamente che la giurisdizione fiscale si ferma agli atti espropriativi. Quindi, se il giudice fiscale ritiene impugnabile il pignoramento, il socio, con molta fatica, potrà contestare la debenza del tributo; in caso contrario, non potrà nemmeno fare opposizione all’esecuzione, visto che l’art. 57 del DPR 602/73, almeno sino a quando la Consulta non interverrà (la questione è stata sollevata dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 30 settembre 2009), circoscrive le opposizioni all’esecuzione alla pignorabilità dei beni.
10/03/2011

Deducibilità negata per le schede di carburante senza chilometri

Con la sentenza n. 3947 del 18 febbraio 2011, la Cassazione ha affermato che, ai fini della deducibilità dei costi per l’acquisto di carburante, la scheda carburante deve essere compilata indicando tutti i dati previsti dal DPR 444/97, compresi i chilometri percorsi a fine mese e quelli complessivi indicati dall’apposito contachilometri del veicolo; diversamente, i costi non sono deducibili dal reddito d’impresa. La sentenza in esame, in realtà, si allinea ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, in virtù del quale tutti gli elementi della scheda carburante (quali appunto i chilometri o la firma dell’esercente dell’impianto di distribuzione) sono essenziali ai fini della deducibilità dei costi e della detraibilità dell’IVA (cfr. Cass. 5 novembre 2008 n. 26539, Cass. 19 ottobre 2007 n. 21941). Nella fattispecie oggetto della controversia, l’impresa aveva dedotto integralmente i costi relativi all’acquisto di carburante relativo a veicoli utilizzati per il trasporto benché non tutte le schede carburanti contenessero l’indicazione dei chilometri. I giudici della Commissione Regionale avevano convalidato tale comportamento affermando che, risultando depositate centinaia di schede carburante debitamente compilate, la ripetitività delle schede relative all’automezzo consentiva di ritenere deducibile il costo per il carburante anche per le schede che non contenevano l’indicazione della percorrenza, posto che risultava rispettato il requisito dell’inerenza. L’Agenzia delle Entrate impugnava tale decisione. Riprendendo brevemente la disciplina generale della scheda carburante, si ricorda che gli acquisti di carburante per autotrazione effettuati presso gli impianti stradali di distribuzione devono risultare da apposite annotazioni eseguite in una scheda conforme al modello allegato al DPR 444/97; tale scheda è sostitutiva della fattura di cui all’art. 22 comma 3 del DPR 633/72. L’obbligo dell’istituzione della scheda carburante e delle annotazioni relative ai singoli acquisti si applica ai contribuenti che intendono avvalersi del diritto alla detrazione dell’IVA, ai sensi dell’art. 19 del DPR 633/72, nonché della deduzione del costo di acquisto ai fini delle imposte dirette (cfr. CM 205/E/98). Sulla scheda carburante devono essere indicati, ad opera dell’acquirente: la targa; la ditta, la denominazione o ragione sociale, ovvero il cognome e nome, il domicilio fiscale e il numero di partita IVA del soggetto che acquista il carburante; per i soggetti domiciliati all’estero, l’ubicazione della stabile organizzazione in Italia. Ai sensi dell’art. 4 comma 1 del DPR 444/97, è obbligatorio, prima della registrazione, indicare il numero di chilometri rilevabili alla fine di ogni mese o trimestre dall’apposito dispositivo esistente sul veicolo. In particolare, secondo la CM 205/E/98, § 3.3, occorre riportare il dato complessivo e non solo i chilometri effettivamente percorsi nel periodo. La Suprema Corte, nella sentenza in esame, ribadisce la natura “essenziale” di tutti gli elementi richiesti dalla normativa affinché la scheda carburanti possa rappresentare un costo deducibile, analogamente alla fattura. E' infatti evidente, continua la sentenza, la finalità antielusiva perseguita dal Legislatore, nel senso di consentire sempre una pronta verifica documentale sia della riferibilità (es. indicazione della targa) sia dei “quantitativi di carburante che si assumono acquistati in riferimento al concreto consumo di ogni automezzo, intuitivamente verificabile solo in base all’annotazione dei chilometri di percorrenza”. Pertanto, la correlazione tra la scheda carburante e la fattura esclude la possibilità di utilizzare qualsiasi elemento equipollente – quale la ripetitività assunta dalla C.T. Reg – dovendo essere documentata l’effettività del costo e non solo l’inerenza dello stesso. La citata norma dispone, testualmente, l’obbligo di annotazione dei chilometri per “l’intestatario del mezzo di trasporto, utilizzato nell’esercizio d’impresa”. Stante il tenore letterale della norma, è ormai consolidato l’orientamento in base al quale l’indicazione dei chilometri debba essere effettuata dai soli esercenti attività d’impresa e non anche dagli artisti e professionisti.
03/03/2011

Diritti d’autore senza deduzione forfaittaria

Al ricorrere di talune condizioni, nel computo del limite di 30.000 euro per l’accesso e la permanenza nel regime dei contribuenti minimi devono essere considerati anche i compensi percepiti per la cessione del diritto d’autore. Lo ha precisato l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 311/2008 in relazione ad un contribuente che esercitava un’attività di lavoro autonomo come giornalista (per la quale si avvaleva del regime dei minimi) e che, nel contempo, effettuava prestazioni qualificabili come “cessione di diritti d’autore”. In tale occasione, è stato precisato che, per la verifica del limite di ricavi o compensi, occorre fare riferimento “ai ricavi o compensi complessivamente conseguiti dall’imprenditore o dal professionista, prescindendo dalla specifica attività cui si riferiscono. In altri termini, la condizione di accesso al regime dei contribuenti minimi, pur se riferita ai ricavi o ai compensi percepiti nell’esercizio di imprese, arti o professioni, riguarda la posizione del contribuente considerata nel suo insieme e non la specifica attività svolta”. Nella fattispecie oggetto del chiarimento, le cessioni avvenivano nell’ambito della professione, “contribuendo a dimensionare e caratterizzare l’attività complessivamente svolta dal contribuente”. Pertanto, i compensi percepiti in base al contratto di cessione di diritti d’autore dovevano sommarsi ai compensi percepiti nell’esercizio dell’attività professionale, ai fini della verifica del limite di 30.000 euro di compensi. Si ritiene che i predetti compensi rilevino per l’intero ammontare, non trovando applicazione nel regime in esame la deduzione forfetaria prevista dall’art. 54 comma 8 del TUIR (fatta salva la deduzione analitica delle spese). Infatti, secondo quanto precisato dalle istruzioni alla compilazione del quadro CM di UNICO 2011 PF, “le deduzioni forfetarie per spese non documentate non trovano applicazione nell’ambito del regime dei minimi in quanto detto regime si fonda sul principio di cassa, che prevede la rilevanza delle sole spese sostenute”. Un chiarimento del medesimo tenore era stato fornito dalla circolare Agenzia delle Entrate n. 7/2008 (§ 5.1, quesito d), con riferimento alla deduzione forfetaria prevista per gli autotrasportatori dall’art. 66 comma 5 del TUIR. Eventuali spese sostenute dal contribuente possono essere portate in diminuzione dei componenti positivi con indicazione nel rigo CM5 (Totale componenti negativi). Il chiarimento pare in linea con quello reso dalla risoluzione n. 145/2007, a tenore della quale ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno può applicarsi il regime agevolato delle nuove iniziative produttive solo qualora l’autore consegua questi compensi nell’esercizio di un’arte o una professione abituale, ai sensi dell’art. 53 comma 1 del TUIR (si veda “I redditi da diritto d’autore in ordine sparso” del 5 luglio 2010). La risoluzione n. 311 ha, altresì, precisato che, verificandosi tale ipotesi, se la cessione del diritto d’autore avviene durante la permanenza nel regime agevolato, l’operazione: soggiace all’obbligo di certificazione dei compensi prevista per tale regime; é soggetta ad imposizione sostitutiva. Ai fini dichiarativi, quindi, i predetti compensi trovano collocazione nel rigo CM2 (Totale componenti positivi) del modello UNICO 2011 PF.
03/03/2011

Cessioni di quote SRL, notai sanzionati per pubblicità ingannevole

La campagna pubblicitaria “Senza notaio meno sicurezza - Cessioni di quote di srl - Ipotesi a confronto”, realizzata dal Consiglio nazionale del Notariato e apparsa su alcuni quotidiani nazionali il 6, 7 e 8 agosto 2008, era ingannevole. A stabilirlo è stata l’Antitrust che, con un provvedimento di ieri, ha vietato l’ulteriore diffusione della pubblicità e condannato il CNN al pagamento di una sanzione pecuniaria di 5mila euro. L’autorità garante della concorrenza e del mercato, dunque, ha di fatto accolto la segnalazione presentata, il 12 agosto 2008, da CNDCEC e ODCEC di Bologna, che lamentavano la “mancanza di trasparenza della campagna, idonea ad ingenerare nei destinatari erronei convincimenti circa le caratteristiche e i costi del servizio pubblicizzato”. Nelle 28 pagine del dispositivo, infatti, si legge che “nel messaggio (pubblicitario, ndR) non è stata garantita ai potenziali destinatari la possibilità di percepire in maniera sufficientemente chiara i costi professionali dell’attività di assistenza alla cessione delle quote di srl del notaio e, in particolare, il profilo della derogabilità della tariffa”. In più, in merito alla comparazione del servizio di assistenza fornito dalle due categorie professionali, l’Antitrust la definisce “poco obiettiva, in quanto il messaggio fornisce indicazioni sul servizio comparato, confrontandone le caratteristiche mediante l’uso di dati non effettivi relativamente, ad esempio, al profilo dei controlli e delle responsabilità dei professionisti”. Comparazione che, per l’Autorità, finisce per “degenerare in discredito per la categoria dei commercialisti, perché, per i contenuti e le espressioni utilizzate (es. postino telematico), pone in essere un confronto non obiettivo e puntuale”. In conclusione, dunque, “il messaggio non informa in modo corretto e veritiero in ordine alle caratteristiche ed ai costi del servizio offerto da notai e commercialisti ed è in grado di pregiudicare il comportamento dei destinatari”. Soddisfatto della pronuncia, la prima in materia di concorrenza tra due professioni regolamentate, il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili: “Il provvedimento dell’Antitrust – si legge in una nota – chiarisce, in modo assai netto, che la cessione quote di srl può essere effettuata in maniera assolutamente sicura, legittima ed efficiente, sia dai notai che dai dottori commercialisti. La comminazione di una sanzione estremamente ridotta – ha aggiunto il Presidente del CNDCEC, Claudio Siciliotti – ci interessava poco; molto più importante era la questione di principio e la tutela dell’immagine dei colleghi. Basta leggere le 28 pagine del dispositivo per cogliere la nettezza con cui è stato giudicato scorretto il comportamento da noi ritenuto lesivo, evidentemente a buon diritto. Tra l’altro, è a dir poco evidente che questa pronuncia dell’Antitrust possa essere alquanto significativa anche per i risvolti in sede civile, atteso che è tuttora pendente una causa per il risarcimento del danno di immagine che il CNDCEC ha promosso nei confronti del Consiglio nazionale del Notariato”.
03/03/2011

Calcolo dell’IRAP in base al bilancio: opzione entro il 1° marzo 2011

Il 1° marzo 2011 scade il termine entro il quale le società di persone commerciali (snc, sas ed equiparate) e gli imprenditori individuali che intendono optare per la determinazione della base imponibile IRAP in base al bilancio (ex art. 5 del DLgs. 446/97) devono inviare l’apposito modello di comunicazione all’Agenzia delle Entrate. La trasmissione deve avvenire esclusivamente in via telematica (direttamente o tramite intermediari abilitati). L’opzione è irrevocabile per tre periodi d’imposta e, al termine del triennio, si intende tacitamente rinnovata per un altro triennio, sempre che l’impresa non opti nuovamente per la determinazione del valore della produzione netta secondo le regole proprie delle società di persone e degli imprenditori individuali. Per questo, nonostante il termine ultimo sia ancora lontano, occorre muoversi per tempo: infatti, i soggetti che intendono esercitare la scelta devono valutare l’eventuale risparmio fiscale da essa derivante, tenuto conto delle differenti modalità di determinazione del valore della produzione netta in capo alle società di capitali, da un lato, e alle società di persone commerciali e agli imprenditori individuali, dall’altro. Innanzitutto, sono diversi i proventi e gli oneri concorrenti alla formazione della base imponibile. Ad esempio, le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali e patrimoniali rilevano solo per le società di capitali, mentre sono irrilevanti per le società di persone e gli imprenditori individuali (in assenza di opzione). In secondo luogo, occorre considerare il differente ammontare imponibile e deducibile dei componenti positivi e negativi rilevanti. Infatti, mentre per le società di capitali questi ultimi sono assunti – di regola – così come risultanti dal Conto economico, per le società di persone e gli imprenditori individuali (in assenza di opzione) i proventi e gli oneri concorrenti alla determinazione della base imponibile continuano a rilevare nella stessa misura prevista ai fini delle imposte sui redditi. Tale valutazione dovrà interessare l’intero triennio oggetto di opzione. La facoltà in esame è riservata ai contribuenti in regime di contabilità ordinaria, a nulla rilevando che detto regime sia applicato per obbligo o per opzione. Pertanto, la possibilità di determinare la base imponibile IRAP secondo le regole previste per le società di capitali è comunque esclusa per i soggetti in contabilità semplificata (ai sensi dell’art. 18 del DPR 600/73). Per effetto del vincolo triennale dell’opzione esercitata, il contribuente è altresì obbligato a mantenere, per lo stesso periodo, il regime di contabilità ordinaria. Così, l’opzione esercitata entro il prossimo 1° marzo 2011 sarà valida per il triennio 2011-2013 e, per lo stesso periodo, la società di persone o l’imprenditore individuale deve restare in contabilità ordinaria, anche se, per ipotesi, a partire dal 2012 dovesse ricadere naturalmente in quello di contabilità semplificata. Entro il 1° marzo 2014 sarà necessario ripresentare l’istanza soltanto se si intende revocare l’opzione effettuata (vale a dire, se si intende tornare ad applicare le disposizioni previste dall’art. 5-bis del DLgs. 446/97), revoca che avrà effetto anche per il 2015 e il 2016 e, fino a eventuale nuova opzione, per il futuro. Per le società di persone neo-costituite, l’opzione può essere esercitata entro 60 giorni dall’inizio del primo periodo di imposta. Così, se una snc si costituisce in data 1° ottobre 2011 e adotta – per obbligo o per opzione – il regime di contabilità ordinaria, può optare per la determinazione della base imponibile IRAP secondo le regole dettate dall’art. 5 del DLgs. 446/97 già a partire dal periodo d’imposta che va dal 1° ottobre 2011 al 31 dicembre 2011. L’opzione sarà valida anche per il 2012 e il 2013. La relativa comunicazione dovrà essere inviata entro il 29 novembre 2011. Analogamente, per gli imprenditori individuali che iniziano l’attività in corso d’anno, l’opzione può essere esercitata in relazione a tale periodo di imposta entro 60 giorni dalla data di inizio dell’attività indicata sulla dichiarazione di inizio attività (ex art. 35 del DPR 633/72). Infine, un soggetto IRES (es. srl) che si trasforma in società di persone (es. snc), se intende mantenere il regime di determinazione della base imponibile proprio delle società di capitali, deve esercitare l’opzione entro il termine di 60 giorni dalla data di efficacia giuridica della trasformazione medesima. Invece, in caso di trasformazione di una società di persone (es. snc) in una società di capitali (es. srl), non è necessaria alcuna comunicazione, posto che queste ultime determinano la base imponibile esclusivamente in base al bilancio, a prescindere dalle modalità di determinazione della base imponibile in precedenza applicate dalla società trasformanda.
07/02/2011

VIES: archivio soggetti autorizzati ad effettuare operazioni intracomunitarie

E' disponibile, su www.agenziaentrate.it la funzione di consultazione dell’elenco delle partite IVA dei contribuenti già in possesso, allo scorso 30 gennaio, dei requisiti minimi necessari all’inclusione nell’archivio dei soggetti autorizzati ad effettuare operazioni intracomunitarie. Si tratta, quindi, dei contribuenti rispetto ai quali non risultava sussistente, a tale data, una delle seguenti cause di esonero, differenziate a seconda della data di presentazione della dichiarazione di inizio attività:
- sino al 30 maggio 2010, ovvero precedentemente all’entrata in vigore del DL n. 78/2010, che ha introdotto il regime di autorizzazione alle operazioni intracomunitarie: non hanno trasmesso, negli anni 2009 e 2010, gli elenchi riepilogativi delle cessioni di beni, delle prestazioni di servizi e degli acquisti intracomunitari, ovvero risultano inadempienti rispetto agli obblighi dichiarativi riguardanti il periodo d’imposta 2010;
- dal 31 maggio 2010: non hanno manifestato, in sede di dichiarazione di inizio attività, la volontà di effettuare operazioni intracomunitarie, a norma dell’art. 35, comma 2, lettera e-bis), del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, oppure – in mancanza – non hanno comunque posto in essere, nel secondo semestre 2010, operazioni intracomunitarie ed adempiuto gli obblighi di presentazione dei relativi elenchi riepilogativi.
Il servizio telematico in parola consente di verificare, previo inserimento della corrispondente partita IVA, se un soggetto è munito dei presupposti richiesti per l’inclusione nel VIES: i contribuenti in possesso di tali requisiti non sono tenuti ad alcun adempimento ulteriore, poiché rientreranno automaticamente nell’archivio al 28 febbraio 2011, quando verranno esclusi gli operatori non autorizzati. Nel medesimo periodo, diverrà disponibile la consultazione dell’archivio VIES, consentendo altresì di accertare la propria inclusione da parte dei soggetti che hanno presentato l’apposita istanza di autorizzazione, secondo le modalità indicate dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 29 dicembre 2010 (prot. n. 180376). Sul punto, si rammenta che – ai sensi dell’art. 35, comma 7-bis, del DPR n. 633/1972 – l’Amministrazione finanziaria può emettere un provvedimento di diniego dell’autorizzazione ad effettuare le operazioni intracomunitarie entro 30 giorni dalla richiesta del contribuente. Tale istanza può essere presentata anche dai soggetti che si trovano nelle condizioni di essere esclusi: nel caso in cui al 28 febbraio 2011, data di completamento della procedura di estromissione dall’elenco dei soggetti autorizzati, siano già scaduti i predetti 30 giorni, il richiedente permarrà senza soluzione di continuità nel VIES, e sarà legittimato ad effettuare operazioni intracomunitarie, essendo comunque soggetto ad una prima valutazione dei dati entro il 31 luglio 2011. Al contrario, qualora il termine di 30 giorni sia ancora pendente a fine febbraio, il soggetto passivo IVA sarà escluso dall’archivio degli operatori autorizzati, per poi essere nuovamente ammesso a partire dal 31° giorno successivo alla presentazione della domanda, purché non sia intervenuto un atto di diniego, previa valutazione dei dati forniti e dei correlati elementi di rischio. Si pensi, ad esempio, alla mancanza dei necessari presupposti oggettivi e soggettivi, alla carenza dei requisiti di inclusione nel VIES, al coinvolgimento del contribuente in fenomeni evasivi o di frode fiscale, nonché agli eventuali gravi inadempimenti dichiarativi riscontrati nell’ultimo quinquennio. Il compimento di operazioni intracomunitarie, prima del decorso del termine di 30 giorni dalla tramissione della domanda ed in assenza di un provvedimento di diniego dell’Agenzia delle Entrate, non ne determina la decadenza, costituendo, invece, un valido presupposto per l’applicazione di una sanzione amministrativa, in misura fissa, da un minimo di 258 ad un massimo di 2.065 euro (art. 11 del DLgs. 18 dicembre 1997, n. 471). L’Agenzia precisa che la domanda di inserimento nell’archivio VIES, necessaria per effettuare operazioni IVA intracomunitarie, può essere presentata, sia a mano sia tramite raccomandata, a qualsiasi ufficio territoriale delle Entrate.

03/02/2011

L’errore sulla competenza si "aggiusta" con l’adesione

Un errore sull’imputazione a periodo di una componente reddituale non può comportare una duplicazione d’imposta. Quindi se, per ipotesi, un contribuente dichiara per errore un costo in un anno non di competenza, egli non perde il diritto alla deduzione del medesimo nell’esercizio corretto. Trasportando ciò nel procedimento tributario, dalla data in cui viene confermata la pretesa relativa all’accertamento emanato sulla violazione della competenza fiscale (o a seguito di omessa impugnazione o di sentenza di rigetto definitiva o, ancora, dalla data di stipula dell’atto di adesione), il contribuente può, entro il termine biennale di cui all’art. 21 del DLgs. 546/92, chiedere il rimborso delle somme pagate per effetto della mancata deduzione del costo nell’esercizio corretto. Rimane ferma, ove ne sussistano i presupposti, la possibilità di correggere l’errore mediante la presentazione di due dichiarazioni integrative, una a favore e l’altra a sfavore. Come anticipato, l’Agenzia delle Entrate (circolare 4 maggio 2010 n. 23) ha esplicitamente ammesso ciò, anche se alcuni Uffici, sulla base di un’interpretazione oltremodo formalistica delle istruzioni ivi contenute, tengono un comportamento a nostro avviso poco consono all’economia processuale nonché, in un certo senso, ai princìpi contenuti nella circolare stessa. I termini della questione sono i seguenti: se viene contestata l’errata imputazione a periodo, nulla vieta che ciò venga definito mediante adesione, così, tra l’altro, il contribuente può fruire della riduzione delle sanzioni, o, se possibile, mediante adesione all’invito. Tuttavia, alcuni Uffici negano, in sede di stesura dell’atto di adesione, il riconoscimento delle somme versate in eccesso per la mancata deduzione del costo nell’esercizio di competenza, posto che ciò, secondo la Cassazione (si veda, per tutte, la sentenza 6331 del 2008), o meglio, secondo l’interpretazione formalistica del dictum dei giudici e, di conseguenza, secondo la circolare, presuppone l’avvenuta definizione dell’atto fondato sulla violazione della competenza. Solo allora scaturirebbe il diritto al rimborso, entro il citato termine biennale. Va ricordato che la Corte di Cassazione, con la sentenza 30 dicembre 2009 n. 28016, ha specificato, in relazione ad una rettifica sulla contabilizzazione delle rimanenze di magazzino, che la violazione della competenza fiscale, talvolta, non cagiona danno all’Erario, quindi non è idonea a sorreggere un avviso di accertamento.
20/01/2011

Anagrafica completa per le operazioni black list

Sul tema dell'obbligo di comunicazione delle operazioni intercorse con soggetti collocati in paradisi fiscali, di cui all’art. 1 del DL 40/2010, le indicazioni fornite dall'A.d.E. appaiono preziose anche in vista della scadenza del 31 gennaio prossimo, termine entro il quale é possibile provvedere gratuitamente alla sistemazione (rettifica, integrazione, modifica) del contenuto degli invii effettuati in relazione al terzo trimestre 2010, oppure ai mesi da luglio a novembre 2010. Tra le informazioni da inserire nelle comunicazioni in commento, sono anche menzionati i riferimenti anagrafici della controparte collocata in Paese black list, completa dell’eventuale numero identificativo fiscale o partita IVA, se esistente. Spesso tali dati non sono stati indicati, in quanto di difficile reperimento. Si è allora richiesto se tali incompletezze dovranno essere rettificate, oppure possa essere considerata sufficiente la compilazione con la ragione sociale e il luogo di sede o residenza. A parere dell’Agenzia, i dati richiesti debbono essere correttamente indicati e, se mancanti, si configura una possibile violazione; appare dunque necessaria la rettifica. Nel caso in cui il soggetto passivo non abbia regolarizzato gli errori o le omissioni commesse entro il 31 gennaio 2011, gli organi accertatori verificheranno, caso per caso, la sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’esimente. Insomma, è possibile non fare nulla solo laddove si possa dimostrare che si é tentato in ogni modo, senza successo, di reperire le informazioni necessarie. Sul punto, si poteva auspicare una posizione più morbida. Una casistica che spesso è stata oggetto di quesito riguarda, poi, le operazioni di acquisto o di cessione di beni non rilevanti territorialmente in Italia; in particolare, è stato richiesto se corre l’obbligo di segnalare gli acquisti di carburante effettuati in un Paese a fiscalità privilegiata. Correttamente, le Entrate rilevano che le operazioni di acquisto di carburante e lubrificanti per autotrazione, effettuate da soggetti IVA presso distributori stabiliti in Paesi black list, in quanto operazioni non soggette all’imposta sul valore aggiunto, non sono soggette all’obbligo di registrazione ai fini IVA e, quindi, neppure alla comunicazione in esame. L’obbligo di comunicazione, infatti, per quanto concerne le operazioni non soggette a registrazione ai fini IVA, riguarda solo le prestazioni di servizi territorialmente non rilevanti nello Stato agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, in virtù di espressa previsione contenuta nell’articolo 3 del DM 5 agosto 2010. La conclusione, a parere di chi scrive, può essere opportunamente estesa anche alle cessioni di beni che si trovano allo Stato estero (art. 7-bis del DPR 633/72). In relazione alle importazioni, sia pure senza una chiarezza che invece pareva opportuna, si afferma che occorre indicare i dati della bolletta doganale e non quelli della fattura del fornitore estero. Sembra, insomma, che la stessa Agenzia delle Entrate, contrariamente a quanto indicato nella circ. n. 53/2010, abbia aderito alla tesi di Assonime, in forza della quale non si dovrebbe attribuire importanza alla fattura di acquisto del fornitore paradisiaco, anche quando registrata in un momento antecedente rispetto alla bolletta doganale. Se così fosse ufficialmente confermato, il compito degli operatori sarebbe assai più semplice, non dovendosi interrogare (nel caso di segnalazione della fattura di acquisto in assenza di bolletta doganale) sulla natura della operazione (fuori campo IVA oppure imponibile) né sull’ammontare della stessa. Sempre sul tema delle importazioni, è stato inoltre confermato che debbono essere segnalate anche le operazioni di reimportazione, a seguito di reso, di beni in precedenza ceduti a un operatore black list. Le stesse, infatti, costituiscono un’ipotesi di importazione non imponibile ai sensi dell’articolo 68 del DPR 26 ottobre 1972, n. 633. Chiarito, infine, anche il caso delle istruzioni per la compilazione nel caso di note di variazione. Infatti, ove è scritto che l’importo delle operazioni attive va indicato “al netto delle note di variazione ricevute nel periodo”, mentre quello delle operazioni passive va indicato “al netto delle note di variazione emesse nel periodo”, deve essere inteso che le parole “ricevute” ed “emesse” sono state erroneamente invertite. Un pizzico di attenzione in più, onestamente, non guasterebbe.
19/01/2011

Non ha rilevanza penale l’uso di programmi abusivi nello studio

Non costituisce reato l’utilizzazione per lo svolgimento dell’attività dello studio professionale di programmi informatici privi del contrassegno SIAE. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, nella sentenza 30 novembre 2010 n. 42429, in relazione ad un caso in cui al legale rappresentante di uno studio associato (di architetti) era stata contestata la fattispecie di cui all’art. 171-bis, comma 1 della L. 633/41, in ragione dell’utilizzo per l’attività professionale di software non munito della relativa licenza d’uso. Ai sensi dell’art. 171-bis, comma 1 primo periodo della L. 633/41, è soggetto alla pena della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa da 2.582 a 15.493 euro chiunque per trarne profitto abusivamente duplica programmi per elaboratore; importa, distribuisce, vende, “detiene” a scopo commerciale o “imprenditoriale” o concede in locazione programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE). I giudici di primo grado e di appello condannavano il rappresentante legale dello studio associato, ritenendo che l’utilizzo per lo svolgimento dell’attività professionale configurasse una detenzione a scopo imprenditoriale. Tale soluzione non è condivisa dalla sentenza in commento, che, confermando quanto già stabilito in precedenti pronunce (cfr. Cass. 22 dicembre 2009 n. 49385), sottolinea come la detenzione a scopo commerciale o imprenditoriale non si riferisca anche alla detenzione ed utilizzazione nell’ambito di una attività libero professionale. Tale attività, infatti, non rientra in quella “commerciale o imprenditoriale” contemplata dalla fattispecie incriminatrice. Non può, inoltre, essere estesa analogicamente la nozione di attività imprenditoriale fino a comprendere ogni ipotesi di lavoro autonomo, realizzandosi una applicazione della norma “in malam partem” vietata in materia penale (art. 14 delle preleggi). La Suprema Corte si sofferma anche sull’eccezione di inopponibilità ai privati della mancanza del contrassegno SIAE, in quanto regola tecnica non previamente comunicata alla Commissione UE. Si ricorda, infatti, che la Corte di Giustizia europea, nella sentenza 8 novembre 2007 C-20/05 (Schwibbert), ha statuito che l’obbligo di apposizione del contrassegno SIAE rientra nel novero delle regole tecniche che devono essere notificate dallo Stato alla Commissione UE – in base alle Direttive 83/189/CE e 98/34/CE – al fine di verificare la compatibilità dell’obbligo con il principio di libera circolazione delle merci. Con la conseguenza che, qualora tali regole tecniche non siano state notificate alla Commissione, non possono produrre effetti nei confronti dei privati. Sussiste, quindi, l’obbligo dei giudici nazionali di disapplicare le norme che prevedono come “elemento costitutivo” del reato la mancata apposizione del predetto contrassegno in relazione ai fatti commessi anteriormente alla comunicazione delle predette regole tecniche (cfr. Cass. 2 aprile 2008 n. 13823). Regole che sono state collocate nel DPCM 23 febbraio 2009 n. 31 (“Regolamento di disciplina del contrassegno da apporre sui supporti, ai sensi dell’articolo 181-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633”), adottato a conclusione della procedura di notifica (n. 2008/0162/I) avviata dal Governo italiano, in data 23 aprile 2008, ai sensi della Direttiva n. 98/34/CE. In relazione alle ipotesi contemplate dall’art. 171-bis, comma 1 della L. 633/41, la mancanza del contrassegno non è elemento costitutivo della sola abusiva duplicazione di programmi per elaboratore; sicché la pronuncia della Corte di Giustizia non esplica alcun effetto sulla configurabilità di tale fattispecie. La mancanza del contrassegno è, invece, elemento costitutivo di tutte le altre ipotesi, compresa quella contestata nel caso di specie ovvero di detenzione a scopo imprenditoriale; per essa, quindi, è determinante il fatto di essere stata posta in essere anteriormente alla necessaria notifica alla Commissione Ue delle regole tecniche. Sulla base di tutto quanto premesso, l’imputato è stato assolto con la formula ampiamente liberatoria: “perché il fatto non sussiste” (cfr. Cass. 13 gennaio 2010 n. 1073).
11/01/2011

Autorizzazione obbligatoria per le operazioni intra

Con l’entrata in vigore del nuovo regime autorizzatorio per l’effettuazione delle operazioni intracomunitarie, introdotto dall’art. 27 del DL n. 78/2010, si è reso necessario definire le modalità di diniego o revoca dell’autorizzazione, così come i criteri e le modalità per l’inclusione delle partite IVA nell’archivio informatico dei soggetti passivi che effettuano cessioni e acquisti di beni in ambito intracomunitario. A tanto ha provveduto l’Agenzia delle Entrate con due provvedimenti del 29 dicembre 2010. In base all’art. 35, comma 2, lett. e-bis), del DPR n. 633/1972, i soggetti intenzionati ad effettuare le operazioni intracomunitarie di cui al Titolo II, Capo II, del DL n. 331/1993, ossia le cessioni e gli acquisti intracomunitari di beni, devono essere autorizzati dall’Agenzia delle Entrate. La modalità di manifestazione dell’opzione è diversa a seconda che il soggetto sia già titolare di partita IVA o meno. In particolare i soggetti che richiedono l’attribuzione del numero di partita IVA esprimono la volontà compilando il campo “Operazioni Intracomunitarie” del Quadro I dei modelli AA7 (per i soggetti diversi dalle persone fisiche) o AA9 (per le persone fisiche); gli enti non commerciali non soggetti passivi, invece, compilano la casella “C” del Quadro A del modello AA7. I soggetti già titolari di partita IVA presentano apposita istanza direttamente all’Agenzia delle Entrate, anche per comunicare l’intenzione di retrocedere dall’opzione. Contestualmente al ricevimento della dichiarazione di volontà, sarà sospesa la soggettività attiva e passiva delle operazioni intracomunitarie, anche attraverso l’esclusione dei soggetti autorizzati dall’archivio informatico, fino al trentesimo giorno successivo alla data di attribuzione del numero di partita IVA. In questo periodo, l’Agenzia, dopo avere verificato che i dati forniti siano completi ed esatti, effettua una valutazione preliminare degli stessi e del connesso rischio di frode. Solo al trentunesimo giorno avverrà l’inserimento del contribuente nell’archivio, sempreché non sia stato emesso provvedimento di diniego nel caso in cui i controlli abbiano avuto esito negativo. Per i soggetti inclusi nell’archivio informatico, l’Agenzia svolge controlli più approfonditi entro sei mesi dalla ricezione della dichiarazione di volontà. L’eventuale esclusione dall’archivio avviene con provvedimento di revoca, previa ulteriore valutazione della posizione del contribuente.
Entro il 28 febbraio 2011 saranno esclusi dall’archivio i soggetti che hanno presentato la dichiarazione di inizio attività a partire dal 31 maggio 2010 senza manifestare, secondo le citate modalità, la volontà di effettuare operazioni intracomunitarie, ovvero quelli che, in mancanza, non hanno effettuato operazioni intracomunitarie nel secondo semestre 2010 e adempiuto agli obblighi INTRASTAT; i soggetti che hanno presentato la dichiarazione di inizio attività anteriormente al 31 maggio 2010 e che non hanno presentano i modelli INTRASTAT negli anni 2009 e 2010 o che, pur avendoli presentati, non hanno adempiuto agli obblighi dichiarativi IVA per il 2009. In entrambi i casi, i soggetti intenzionati ad effettuare operazioni intracomunitarie possono richiedere, secondo le modalità previste per i titolari di partita IVA, l’inclusione nell’archivio informatico. Si ricorda, infine, che saranno periodicamente verificate le posizioni registrate nell’archivio sulla base degli stessi criteri di valutazione del rischio previsti per i controlli effettuati nei sei mesi successivi all’opzione.
11/01/2011

Scadenza del 31 dicembre per fruire della ritenuta ridotta 4,6% per agenti

Gli intermediari commerciali che si avvalgono, in via continuativa, dell’opera di dipendenti o terzi hanno tempo fino 31 dicembre per inviare, tramite raccomandata A/R, la dichiarazione al proprio committente necessaria al fine di fruire delle ritenute ridotte sulle provvigioni percepite. Le regole per le ritenute da applicare nei rapporti di intermediazione commerciale sono dettate dall’art. 25-bis del DPR 600/73. Secondo tale diposizione, è applicata una ritenuta a titolo di acconto sulle provvigioni corrisposte da parte di società di capitali, enti e soggetti assimilati ex art. 73 del TUIR, società di persone ed equiparate, imprenditori individuali, lavoratori autonomi e associazioni tra artisti e professionisti. Sono escluse dall’obbligo di operare la ritenuta, le imprese agricole individuali esercenti le attività di cui all’art. 2135 c.c. Inoltre, le ritenute non si applicano alle provvigioni percepite dai soggetti elencati nel comma 5 del citato art. 25-bis (tra i quali si segnalano: agenzie di viaggio e turismo; rivenditori autorizzati di documenti di viaggio relativi al trasporto di persone; soggetti che esercitano attività di distribuzione di pellicole cinematografiche; agenti di assicurazione per le prestazioni rese direttamente alle imprese di assicurazioni). Oggetto delle ritenuta sono le provvigioni riconosciute dai suddetti soggetti per prestazioni, anche occasionali, relative a rapporti di commissione, di agenzia, di mediazione, di rappresentanza di commercio e di procacciamento di affari). Secondo quanto precisato dalla circolare 10 giugno 1983 n. 24, la base imponibile è costituita dalle provvigioni, comunque denominate, ed è comprensiva del compenso spettante all’intermediario commerciale, di eventuali sovraprezzi, di compensi speciali e da ogni altro compenso inerente l’attività prestata (compresi i rimborsi spese). Come regola generale, la ritenuta, a titolo di acconto delle imposte sui redditi, deve essere applicata considerando l’aliquota minima prevista dall’art. 11 del TUIR per il primo scaglione di reddito, attualmente pari al 23%, da commisurare sul 50% delle provvigioni. Ai sensi del comma 2, secondo periodo, dell’art. 25-bis del DPR 600/73, se i percipienti dichiarano ai loro committenti, preponenti o mandanti che nell’esercizio della loro attività si avvalgono in via continuativa dell’opera di dipendenti o di terzi, la ritenuta è commisurata al 20% dell’ammontare delle stesse provvigioni. L’attività dei percipienti le provvigioni si considera esercitata con l’ausilio in via continuativa dell’opera di dipendenti o di terzi qualora, indipendentemente dal numero degli stessi, il rapporto di lavoro dipendente e quello di collaborazione diano luogo a prestazioni per la prevalente parte dell’anno, ovvero del minore periodo in cui è svolta l’attività, anche se l’opera predetta non sia resa dalle stesse persone, dipendenti o terzi. Pertanto, nel primo caso opera una ritenuta pari all’11,5% delle provvigioni, mentre nel secondo è pari al 4,6%. Al fine di beneficiare della ritenuta “ridotta”, l’intermediario commerciale deve inviare al proprio committente apposita dichiarazione, per ciascun anno solare, entro il 31 dicembre dell’anno precedente (art. 3 del DM 16 aprile 1983). In sostanza, inviando la comunicazione entro il 31 dicembre 2010, la ritenuta “ridotta” si applicherà sulle provvigioni relative al 2011. Se le condizioni previste per la riduzione al 20% della base di commisurazione della ritenuta si verificano in corso d’anno, la relativa dichiarazione deve essere presentata non oltre 15 giorni da quello in cui le condizioni stesse si sono verificate; entro lo stesso termine devono essere dichiarate le variazioni in corso d’anno che fanno venire meno le predette condizioni. Si sottolinea inoltre che la suddetta dichiarazione deve essere redatta in carta semplice, datata e sottoscritta, deve contenere i dati identificativi del percipiente la provvigione, deve contenere l’attestazione in cui lo stesso dichiara di avvalersi in via continuativa di dipendenti o terzi ed infine essere inviata tramite lettera raccomandata A/R. In caso di dichiarazione non veritiera, si applica la pena pecuniaria da due a tre volte la maggior ritenuta che avrebbe dovuto essere effettuata. Si ricorda, infine, che per le prestazioni degli incaricati delle vendite a domicilio, la ritenuta è applicata a titolo di imposta (non d’acconto) e deve essere commisurata al 78% dell’ammontare delle provvigioni.
29/12/2010

Ex socio di SNC risponde di debiti pregressi solo verso terzi, non verso società

Il socio di una società in nome collettivo che abbia ceduto la propria partecipazione risponde delle obbligazioni sociali sorte anteriormente alla cessione esclusivamente nei confronti dei creditori sociali e non anche nei confronti della società e degli acquirenti della quota. Il cedente, pertanto – specie quando non abbia garantito gli acquirenti della quota dell’inesistenza di debiti sociali – non può essere chiamato a tenere indenni la società e i cessionari, che abbiano provveduto per intero al soddisfacimento di tali debiti, di quanto corrisposto ai creditori sociali. E' il principio che emerge dalla sentenza n. 25123 del 13 dicembre 2010, con la quale la sezione terza della Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’ex socio di una snc, dal quale la società e i soci rimasti, cui lo stesso aveva ceduto la propria quota, pretendevano il versamento della metà di quanto pagato ad una creditrice sociale, in adempimento di un’obbligazione sorta allorché egli era ancora socio. Al riguardo, va ricordato che, nelle società di persone, in base all’art. 2290 c.c., quando si scioglie il rapporto del singolo socio con la società, il socio uscente continua ad essere responsabile verso i terzi per tutte le obbligazioni contratte da quest’ultima fino al giorno in cui si è verificato lo scioglimento del vincolo sociale (o meglio, come vedremo, fino al giorno in cui l’avvenuto scioglimento diventa efficace nei confronti dei terzi). In altri termini, la cessazione dell’appartenenza alla società per qualsiasi causa (morte, recesso, esclusione) non fa venire meno la responsabilità del socio uscente per le obbligazioni sociali già esistenti al verificarsi di tali eventi. Il socio che sia uscito dalla compagine societaria non risponde, invece, delle obbligazioni sorte successivamente allo scioglimento del rapporto sociale. Ciò, però, come accennato, a condizione che detto scio­glimento sia stato portato a conoscenza dei terzi – ossia sia stato reso opponibile a questi ultimi – mediante l’assolvimento degli oneri pubblicitari previsti dalla legge: in particolare, per quanto concerne le snc e le sas regolari, l’iscrizione dello scioglimento parziale del vincolo sociale nel Registro delle Imprese. In assenza di detta forma di pubblicità, invece, graverà sul socio uscente l’onere di dimostrare l’effettiva conoscenza dell’avvenuto scioglimento da parte del terzo. E' diffusa l’opinione che il citato art. 2290 c.c. trovi applicazione anche nell’ipotesi di cessione volontaria della quota sociale. Secondo quanto affermato in giurisprudenza, infatti, “la cessione della quota di società di persone... contiene in sé la volontà di dismettere la partecipazione ceduta, con il complesso delle posizioni connesse e, dunque, di uscire dal novero dei soci. Sicché, la cessione della quota, ove non rimanga nel limitato ambito del rapporto “inter partes”, ma trovi il consenso unanime occorrente per la variazione della compagine sociale con il subingresso del cessionario al cedente, segna il perfezionarsi del recesso di quest’ultimo e la sua soggezione alla responsabilità delineata dall’art. 2290 c.c.” (così Cass. 4 giugno 1999 n. 5479; cfr. anche Cass. 16 giugno 2004 n. 11304 e Cass. 12 aprile 2010 n. 8649). Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte – ribadita l’applicabilità dell’art. 2290 c.c. anche in caso di cessione della quota, pur escludendo, nella specie, la configurabilità di un’ipotesi di scioglimento parziale del rapporto sociale in senso proprio (essendosi realizzata unicamente una cessione della quota di partecipazione da parte del ricorrente agli altri soci) – ha evidenziato come tale disposizione, facendo espressamente riferimento alla responsabilità verso i terzi (rispetto alla società), non sia invocabile né dalla società, né dagli acquirenti della quota. Discostandosi da quanto deciso sul punto dalla Corte d’Appello, i giudici di legittimità sono, dunque, giunti alla conclusione che l’ex socio di una snc, che non abbia espressamente garantito gli acquirenti della quota dell’inesistenza di debiti sociali, non può essere chiamato a rispondere dei suddetti debiti né nei confronti della società, né nei confronti dei cessionari, quand’anche si tratti di obbligazioni sorte prima della cessione. Di tali obbligazioni, egli risponde esclusivamente verso i terzi. La società e i cessionari della quota, una volta adempiute le stesse, non hanno diritto di regresso nei suoi confronti e, quindi, non hanno diritto ad essere tenuti indenni di quanto corrisposto ai creditori sociali.
15/12/2010

Codici tributo per i contributi INPGI

L’Agenzia delle Entrate ha istituito i codici tributo per il versamento, tramite il modello “F24 Accise”, dei contributi di spettanza dell’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI). In particolare, al fine di consentire il versamento, tramite il modello “F24 Accise” dei contributi dovuti all’INPGI, sono stati istituiti i seguenti codici tributo: RL29, CVL1, RC21, CRL1, CRL2, CVL2, RC15. L’istituzione di tali codici tributo si é resa necessaria ai fini dell’applicazione del DM 18 luglio 2005. Tale decreto, infatti, dispone che i versamenti unitari e le compensazioni di cui all’art. 17 del DLgs. 9 luglio 1997 n. 241 si applicano anche ai contributi dovuti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani – INPGI. La risoluzione contiene anche le istruzioni per la compilazione. Con riferimento alle modalità di compilazione, la risoluzione precisa che in sede di compilazione del modello di versamento “F24 Accise”, i suddetti codici tributo sono esposti nella sezione “Accise/Monopoli ed altri versamenti non ammessi in compensazione”, in corrispondenza degli “importi a debito versati”. Inoltre, nella stessa sezione: nel campo “Ente” è indicata la lettera “P”; il campo “codice identificativo” è valorizzato con il “codice azienda”; nei campi “mese” e “anno di riferimento”, espressi nella forma “MM” e “AAAA”, sono evidenziati il mese e l’anno per cui si effettua il versamento.
 

15/12/2010

Acquisti UE: i minimi versano l’IVA e spediscono l’INTRA

Nel caso di cessioni di beni nei confronti di operatori di un altro Stato membro, il “contribuente minimo” non addebiterà l’IVA al cliente comunitario dal momento che l’operazione non costituisce un’operazione intracomunitaria, ma soltanto una cessione interna senza diritto di rivalsa. Nel documento emesso (è comunque previsto l’obbligo di certificazione dei corrispettivi), lo stesso dovrà, pertanto, aver cura di riportare che l’operazione effettuata “non costituisce cessione intracomunitaria ai sensi dell’articolo 41, comma 2-bis del DL 331 del 1993”. Allo stesso tempo, il soggetto nazionale non è tenuto nemmeno alla presentazione degli elenchi riepilogativi relativi alle cessioni effettuate nei confronti di soggetti UE. I “contribuenti minimi”, tuttavia, quando effettuano acquisti intracomunitari (o comunque le altre operazioni di acquisto in relazione alle quali è prevista l’applicazione del meccanismo del reverse charge) sono tenuti a integrare la fattura ricevuta indicando l’aliquota e la relativa imposta, la quale dovrà essere da loro versata entro il giorno 16 del mese successivo a quello di effettuazione delle operazioni. In definitiva, non vi è per questi soggetti la compensazione mediante reverse charge che ha luogo per coloro i quali detraggono normalmente l’imposta. Gli stessi, inoltre, con riferimento a tali operazioni di acquisto devono presentare l’elenco riepilogativo relativo agli acquisti intracomunitari, ai sensi dell’articolo 50, comma 6, del DL n. 331 del 1993. La disciplina descritta in ordine alle cessioni e agli acquisti intracomunitari si applica anche per quanto concerne le prestazioni di servizi rese o ricevute dagli stessi soggetti (circolare Agenzia delle Entrate n. 36/2010, § 3).


15/12/2010

Deducibilità insidacabile dei compensi agli amministratori

I compensi erogati agli amministratori di società sono deducibili dal reddito d’impresa, in quanto ciò si evince direttamente dal dato normativo e, inoltre, all’Agenzia delle Entrate non è attribuito alcun potere di sindacato sulla congruità del suddetto compenso. Con queste motivazioni, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24957 del 10/12/2011, fa un netto dietrofront sulla deducibilità dei compensi agli amministratori, siccome, come noto, con la precedente decisione 18702/2010, si era espressa in senso esattamente opposto. Sarà per l’ampio (e, forse, eccessivo) dibattito che tale ordinanza aveva causato che i giudici, nella sentenza in oggetto, motivano ampiamente il “perché” della deducibilità e dell’insussistenza della potestà di sindacato da parte dell’Ufficio. Ovviamente, la decisione va condivisa, ciò che non può essere accettato è che, nella causa relativa all’ordinanza 18702, il contribuente debba vedere sancita l’indeducibilità del compenso. Questi non può esperire di certo il ricorso in revocazione, né impugnare la decisione di fronte ad alcun giudice. Venendo alla sentenza in esame, la Suprema Corte afferma che la deducibilità dei compensi erogati agli amministratori delle società di persone, enunciata dal “vecchio” art. 62 comma 3 del TUIR era applicabile anche alle società di capitali, in virtù del rinvio operato dall’allora vigente art. 95 comma 1. Nel sistema attuale i termini della questione non cambiano, visto che la situazione è identica, anche se rovesciata: non a caso, l’art. 95 del TUIR, contempla espressamente la deducibilità dei compensi erogati agli amministratori di società di capitali, e ciò è applicabile anche alle società di persone per effetto del rinvio di cui all’art. 56 comma 1. La parte più interessante della sentenza concerne però l’insussistenza del potere di sindacato sulla congruità dei compensi, argomento che, con l’ordinanza 9026 del 2002, era stato rimesso alle Sezioni Unite, anche se detta richiesta era stata poi rigettata dal Primo Presidente della Corte di Cassazione. Ora, l’Amministrazione finanziaria non può sindacare l’entità del compenso, perchè l’art. 62 [ora 95] del TUIR, nella sua nuova formulazione, non prevede più il richiamo a un parametro da utilizzare nella valutazione dell’entità dei compensi, per cui l’interprete non può che prendere atto di ciò (si vedano le precedenti sentenze 28595 del 2008 e 6599 del 2002). Il nuovo assetto normativo, quindi, ha “totalmente liberalizzato il concetto di spettanza ai fini della deducibilità”, in quanto l’art. 37-bis del DPR 600/73 non elenca, tra le tassative ipotesi di accertamento antielusivo, la congruità dei compensi. Inoltre, viene sancita la piena libertà dell’imprenditore di impostare la propria strategia d’impresa, e viene specificato, con riferimento al caso in esame, che “non è percepibile uno scopo fraudolento in danno dell’Agenzia delle Entrate, dato che le aliquote applicabili nei confronti dei redditi degli amministratori (non inferiori al 43,5) sono superiori rispetto a quelle applicabili mediamente per i redditi delle società (34,9)”. Dalle motivazioni adottate dai giudici, pare quindi che l’Agenzia delle Entrate non possa censurare l’entità del compenso nemmeno facendo riferimento al c.d. “abuso del diritto”, e ciò lo si potrebbe ricavare dal fatto che i giudici hanno chiarito che non è applicabile l’art. 37-bis, il che sarebbe superfluo se gli uffici potessero utilizzare il c.d. “abuso del diritto”, accertamento che tra l’altro non prevede alcuna garanzia procedimentale. Invero, i giudici non escludono tout court la possibilità che, in presenza di certe circostanze, il compenso venga sindacato, siccome viene sostenuto che non si può affermare che il sistema non contempli norme antielusive in presenza di una disciplina sulla simulazione e dei negozi in frode alla legge, “usufruendo delle quali sia l’Erario che il giudice, eventualmente investito della questione, potrebbero servirsi in caso di determinazione di compensi che appaiano insoliti e sproporzionati, anche se nell’ipotesi di amministratori non soci, come sembrerebbe essere nel caso in esame, appare improbabile una distribuzione occulta di utili”.

12/12/2010

Non serve un nuovo EAS se variano i dati di ente o rappresentante legale

Con la risoluzione n. 125 di ieri, 6 dicembre 2010, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che, in caso di mutamento del rappresentante legale o variazione dei dati dell’ente, gli enti associativi non commerciali non sono tenuti alla presentazione di un nuovo modello EAS, qualora si tratti di informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria. L’Agenzia delle Entrate ricorda che l’obbligo di presentazione del modello in questione (previsto dall’art. 30 commi 1-3-bis del DL 185/2008, convertito nella L. 2/2009) ha la finalità di far acquisire all’Amministrazione finanziaria i dati e le notizie rilevanti al fine di verificare la corretta fruizione dei benefici fiscali che la legge riconosce a tali enti (artt. 148 del TUIR e 4 del DPR 633/72). Secondo le istruzioni per la compilazione, in caso di variazione dei dati trasmessi in un primo momento, il modello EAS deve essere nuovamente presentato entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui si è verificata la variazione. Tale obbligo non sussiste se oggetto di modifica sono i seguenti dati: proventi per attività di sponsorizzazione o pubblicità, messaggi pubblicitari, ammontare medio delle entrate complessive, numero degli associati dell’ente, ammontare di erogazioni liberali o contributi pubblici ricevuti, numero e giorni delle manifestazioni di raccolta pubblica di fondi. Nulla viene precisato, quindi, circa le variazioni dei dati relativi al rappresentante legale o all’ente. Riprendendo l’orientamento formatosi con riguardo allo Statuto del Contribuente, l’Agenzia ricorda che non devono trasmettersi alla Pubblica Amministrazione i dati che siano già in possesso della stessa. Ora, poiché le variazioni delle informazioni sul rappresentante legale e, più in generale, sull’ente, devono essere comunicate all’Agenzia delle Entrate attraverso i modelli AA5/6, per i soggetti non titolari di partita IVA, e AA7/10, per i soggetti titolari di partita IVA (in particolare, compilando il quadro B “Soggetto d’imposta” ed il quadro C “Rappresentante”), non è necessario ripresentare un nuovo modello EAS per i cambiamenti dei dati delle sezioni “Dati relativi all’Ente” e “Rappresentante legale” già comunicate con i modelli testé citati. Entrambi i modelli (AA5/6 e AA7/10) possono essere presentati direttamente oppure spediti a mezzo servizio postale mediante raccomandata ad uno qualsiasi degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, a prescindere dal domicilio fiscale del contribuente, ovvero può essere trasmesso in via telematica direttamente (Fisconline) o attraverso intermediari abilitati (Entratel). Limitatamente al modello AA7/10, viene precisato che, se il soggetto d’imposta è tenuto all’iscrizione nel Registro delle Imprese ovvero alla denuncia al R.E.A. (Repertorio delle notizie economiche e amministrative), la dichiarazione di variazione dati deve essere presentata tramite la Comunicazione Unica, da inviare all’ufficio del Registro delle Imprese per via telematica o su supporto informatico.
07/12/2010

Dal 2011 modifiche alla territorialità IVA per i servizi

Dal 1° gennaio 2011, per effetto del riformulato art. 7-quinquies del DPR n. 633/1972, occorrerà operare una duplice distinzione, fondata sulla tipologia di servizio e, successivamente, sulla qualifica del committente come soggetto passivo o meno. Il luogo di esecuzione, per la generalità dei servizi contemplati dalla citata norma, sarà il criterio territoriale applicabile alle sole prestazioni rese a committenti non soggetti passivi, dato che, per quelli che agiscono in veste di soggetti passivi, troverà applicazione la regola generale, con reverse charge in capo al destinatario. Per i servizi di accesso alle manifestazioni (e relativi servizi accessori), invece, la tassazione sarà sempre collegata al luogo di esecuzione della prestazione, a prescindere dallo status del committente. In sostanza, nei rapporti tra soggetti passivi, la territorialità dell’operazione sarà “agganciata” al luogo di stabilimento del committente, anziché a quello – eventualmente diverso – di materiale svolgimento della prestazione. La modifica interessa i servizi relativi ad attività culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e simili, ivi comprese fiere ed esposizioni, nonché i servizi degli organizzatori di dette attività e i servizi accessori. Essi, quindi, saranno rilevanti in Italia se il committente, soggetto passivo, è ivi stabilito. I servizi di “accesso” e quelli ad essi accessori, anche se resi ad un soggetto passivo italiano, continueranno, invece, ad essere imponibili in Italia se la manifestazione si svolge in territorio italiano. Il passaggio dal criterio speciale a quello generale rappresenta una semplificazione, in ordine all’individuazione del luogo impositivo, per quei servizi la cui natura, ai fini della classificazione territoriale, sia di incerta definizione. La soluzione offerta dalla Corte UE è che il luogo impositivo deve essere individuato in funzione della natura della prestazione.
06/12/2010

IVA al 10% sugli appalti realizzati da associazioni temporanee di imprese

Assonime, con l’approfondimento n. 8/2010, si esprime in merito alla corretta aliquota IVA applicabile al corrispettivo dovuto per la realizzazione di opere di urbanizzazione (trattasi di un parcheggio pubblico) appaltate da un ente pubblico ad una ATI, associazione temporanea d’imprese. Tale ultimo soggetto, inoltre, ha affidato l’incarico di esecuzione unitaria dell’opera ad una società consortile, appositamente costituita tra le imprese partecipanti all’ATI. La società consortile ha acquistato in proprio i beni e i servizi necessari per la realizzazione dell’opera, provvedendo ad addebitare alle consorziate, al puro costo, le prestazioni eseguite per conto delle medesime, oltre alle spese di funzionamento e di gestione del consorzio stesso. Si è allora posto il problema della corretta aliquota IVA da applicare a tali flussi in capo alla società consortile. Il n. 127-septies della tabella A, parte terza, allegata al DPR n. 633/72, prevede l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta al 10% alle prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto relativi alla costruzione di opere di urbanizzazione primaria; tale aliquota si rende certamente applicabile ai corrispettivi addebitati dalle società consorziate (ciascuna per gli importi di competenza) all’ente pubblico. A parere di Assonime, inoltre, il trattamento agevolato si rende applicabile anche ai riaddebiti, da parte della società consortile alle consorziate, dei costi sostenuti per l’esecuzione materiale dell’opera per conto delle medesime società. La giustificazione deriva dal fatto che le obbligazioni intercorse tra la stazione appaltante e le consorziate, da un lato, e tra queste e la società consortile, dall’altro, hanno tra loro un identico contenuto, e cioè l’esecuzione di un appalto per la realizzazione di un’opera di urbanizzazione primaria. A conferma del ragionamento fondato sulla “identità oggettiva”, vengono citate:
  • la risoluzione n. 460437 del 4 agosto 1987, con la quale il Ministero ha affermato che le società consortili, appositamente costituite tra società temporaneamente riunite per la realizzazione di opere pubbliche, hanno il solo fine dell’esecuzione unitaria dei lavori già aggiudicati alle imprese stesse, per cui le società consortili assumono la funzione di strumento operativo delle singole imprese riunite, le quali mantengono, a loro volta, i rapporti derivanti dall’originario contratto;
  • la risoluzione n. 431292 del 5 dicembre 1990, in cui si è ritenuta applicabile l’aliquota IVA agevolata agli addebiti, da parte di un’impresa consortile alle proprie consorziate, dei costi sostenuti per la realizzazione di un tronco ferroviario (opera di urbanizzazione primaria), proprio in ragione dell’identico contenuto delle prestazioni rispettivamente rese dalle consorziate al committente, e dalla società consortile alle consorziate (appunto, la realizzazione di un intervento edilizio agevolato per conto delle medesime società);
  • la risoluzione n. 287 dell’11 ottobre 2007, con cui l’Agenzia delle Entrate ha affermato che, in presenza di rapporti di natura consortile, l’aliquota IVA ridotta, applicabile nell’ambito del rapporto principale di appalto, “potrà trovare applicazione anche nell’ambito del rapporto tra i consorziati e la società consortile, atteso che il risultato dell’opera, cui è preposta detta società, concorre al risultato finale delle opere oggetto dell’appalto principale”.
Diverso e autonomo trattamento, ai fini dell’IVA, deve invece riservarsi agli addebiti che il consorzio di imprese ha effettuato nei confronti delle consorziate per il rimborso delle spese sostenute per il “funzionamento” e la “gestione” dello stesso organismo consortile. Tali spese, infatti, traendo origine dallo svolgimento di un’attività di contenuto prettamente amministrativo, non sono oggettivamente riconducibili nel novero dei costi afferenti i servizi relativi alla costruzione dell’opera di urbanizzazione primaria. L’addebito dei costi in questione parrebbe piuttosto rivolto a rendere possibile l’esistenza stessa della società consortile e, quindi, la realizzazione dell’opera di urbanizzazione per la quale essa è stata costituita. Il relativo rimborso da parte delle consorziate, dunque, non deve assumere rilevanza agli effetti dell’IVA, in quanto si tratta di somme destinate alla copertura delle spese generali dell’organismo consortile, come tali non ricollegabili ad alcuna specifica prestazione resa da quest’ultimo. Tale opinione trova riscontro nella risoluzione n. 431143 del 4 febbraio 1991, ove si affermò che le somme versate dalle consorziate al consorzio a titolo di contributi per le spese generali non configurano ipotesi impositive, per carenza dei presupposti oggettivi, in quanto tali somme non costituiscono il corrispettivo di specifiche prestazioni di servizi ed evidenziano, in definitiva, operazioni finanziarie poste in essere nell’ambito del rapporto organico che lega gli associati all’ente associativo.
06/12/2010

Legittimo licenziamento per evidente violazione della diligente collaborazione

Con la sentenza n. 24361 del 1° dicembre 2010, la Corte di Cassazione ha stabilito che si può legittimamente licenziare il lavoratore responsabile di una serie di inadempienze riconducibili alla nozione di violazione degli obblighi di diligenza nell’adempimento della prestazione lavorativa e di scarso rendimento. Nel caso di specie, un impiegato addetto al laboratorio del servizio qualità di un’azienda si è reso responsabile di una serie di ritardi, omissioni e violazioni relative alla sua attività – per le quali è incorso in una ammonizione scritta e altre semplicemente verbali – ed è stato licenziato a seguito di contestazione disciplinare. Per il datore di lavoro, nell’insieme dei fatti contestati si evidenziava una grave violazione degli obblighi di diligenza del lavoratore e doveva quindi ritenersi legittimo il licenziamento per giusta causa, o in subordine, per giustificato motivo soggettivo. A seguito di ricorso del dipendente, il giudice di primo grado ha ritenuto illegittima la scelta del datore di lavoro di non contestare immediatamente volta per volta i singoli fatti – singolarmente non sufficienti per condurre al licenziamento – per consentire al lavoratore di difendersi; l’azienda è stata quindi condannata al ripristino del rapporto di lavoro e al risarcimento del danno. Tuttavia, le sorti si rovesciano in Corte d’appello, dove il giudice di merito, dopo avere elencato una serie di inadempienze ed escluso una violazione del principio di immediatezza della contestazione, ha ritenuto la loro sussistenza, tutte da ricomprendersi nella nozione di violazione degli obblighi di diligenza nell’adempimento della prestazione e di scarso rendimento. Per il giudice di secondo grado, anche se queste inadempienze non arrecavano propriamente un danno economico, era evidente che non potevano essere ulteriormente tollerate, anche in ragione del crescente malumore tra i colleghi ripetutamente costretti a terminare il lavoro lasciato in sospeso. A conforto di questa posizione, c’è anche una previsione della contrattazione collettiva, che prevede il licenziamento per giusta causa per il lavoratore autore di gravi infrazioni alla disciplina o alla negligenza nel lavoro. Nel ricorso in Cassazione, i giudici di legittimità hanno confermato la correttezza delle interpretazioni della Corte d’Appello, mettendone in rilievo alcuni aspetti importanti. In primo luogo, in relazione alla presunta violazione del principio dell’immediatezza, la Suprema Corte ribadisce che il requisito dell’immediatezza deve essere inteso in modo ampio e non restrittivo, essendo compatibile con l’intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per un preciso accertamento delle infrazioni commesse dal lavoratore. In secondo luogo, il comportamento del dipendente, oggetto della contestazione disciplinare, era fonte di malumore per i colleghi che rimediavano sistematicamente alle sue mancanze, e pur non cagionando danni per il datore di lavoro, era comunque identificabile come sintomo di un rendimento lavorativo insufficiente ed espressione di inadempimento costante della propria prestazione lavorativa. Inoltre, trattandosi di comportamenti plurimi concentrati in un breve periodo di tempo, è corretta l’interpretazione del giudice della Corte d’Appello, secondo la quale non vi era l’obbligo per il datore di lavoro di contestare e sanzionare volta per volta i singoli episodi; anzi, il lavoratore dipendente avrebbe potuto prendere atto degli errori commessi per ricostruire il vincolo fiduciario che si stava progressivamente incrinando. Detto tutto ciò, la Corte di Cassazione ribadisce, ai sensi di un suo consolidato orientamento, che è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento, qualora sia provata una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, e a lui imputabile, in conseguenza di una enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente da lui realizzato in un dato periodo di riferimento. Infine, i giudici di legittimità evidenziano una corretta applicazione delle norme del contratto collettivo. Per il ricorrente, il datore di lavoro avrebbe dovuto ottemperare alle previsioni dell’art. 53 del CCNL, che prevede una gradualità del provvedimento disciplinare (rimprovero verbale, multa, sospensione del lavoro e solo da ultimo il licenziamento) e non all’art. 54 che invece dispone l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro a seguito di negligenza sul lavoro. Anche in questo caso, la Cassazione evidenzia la correttezza dell’interpretazione della Corte d’Appello, la quale ha osservato che l’art. 53 del CCNL, a differenza dell’art. 54, fa riferimento ad una serie di provvedimenti o meglio di condotte del lavoratore che non comportano l’espulsione dall’azienda, ma tutte sanzioni finalizzate comunque al mantenimento del rapporto di lavoro.
06/12/2010

Autorizzazione del PM necessaria per gli accessi in localo ad uso promiscuo

L’accesso nei locali adibiti anche ad abitazione è subordinato ad un’apposita autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica, in armonia con quanto dispone l’art. 52 del DPR 633/72. Pertanto, gli elementi acquisiti in sede di accesso effettuato senza la predetta autorizzazione non possono essere utilizzati. Questo è il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24178, depositata in data 29 novembre 2010. Ciò non soffre deroga in ipotesi come quella di specie, ove l’accesso era avvenuto presso un bar (luogo ove si svolgeva l’attività del contribuente), comprendente un vano dell’abitazione del soggetto “accertato”, e a diverse conclusioni non si può giungere nemmeno in ragione del fatto che il resto dell’abitazione era sito nel piano superiore. I giudici, richiamando la sentenza 10664 del 1998, affermano che la “promiscuità” del locale si realizza ogniqualvolta la possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi. Tuttavia, a differenza dell’accesso eseguito presso l’abitazione del contribuente, l’autorizzazione non deve contenere l’indicazione dei gravi indizi di evasione. Inoltre, si rammenta che, come specificato dal Comando Generale della Guardia di Finanza (circ. 1/2008 Parte II, cap. 3), la destinazione ad abitazione privata deve essere effettiva ed attuale, e non è di certo sufficiente la dichiarazione dell’imprenditore in tal senso.
06/12/2010

Istanze di rimborso IVA al 31 marzo 2011

 Prorogato al 31 marzo 2011 il termine di presentazione delle istanze di rimborso dell’IVA assolta, nel 2009, dai soggetti passivi stabiliti in un Paese membro diverso da quello in cui sono stati effettuati gli acquisti di beni/servizi. L’Agenzia delle Entrate, con il provvedimento dell’11 novembre 2010 (pubblicato ieri), ha così recepito la Direttiva n. 2010/66/CE, che ha differito al 31 marzo 2011 il termine, originariamente fissato al 30 settembre 2010, per la trasmissione, allo Stato membro di stabilimento del richiedente, delle relative istanze. La proroga è stata concessa in via eccezionale, in riferimento al solo anno 2009, in considerazione del mancato funzionamento dei portali elettronici di alcuni Paesi membri, che ha impedito la presentazione, nei termini previsti, delle domande di rimborso. Al fine di considerare validamente presentate anche le istanze trasmesse nel periodo compreso tra il 1° ottobre 2010 e il 31 marzo 2011, il citato provvedimento dell’Agenzia delle Entrate, in linea con la Direttiva n. 2010/66/CE, ha dunque previsto l’effetto retroattivo della proroga. Si ricorda che, sotto il profilo oggettivo, il soggetto passivo italiano, per poter richiedere (ed ottenere) il rimborso, deve svolgere un’attività che dà diritto alla detrazione, mentre l’imposta sugli acquisti effettuati nel Paese di rimborso deve essere ivi detraibile. Il rimborso resta, in ogni caso, precluso nei confronti dei soggetti passivi che, nell’altro Paese membro, possiedono una stabile organizzazione, ovvero hanno effettuato operazioni attive diverse da quelle tassativamente previste, ossia quelle non imponibili di trasporto e relative prestazioni accessorie, nonché quelle soggette a “reverse charge”.
15/11/2010

Rimborsi IVA comunitari al 31 marzo 2011

Assonime, con la circolare n. 37 del 3 novembre 2010, dà notizia della proroga al 31 marzo 2011 del termine, originariamente fissato al 30 settembre 2010, per la presentazione delle istanze di rimborso dell’IVA assolta in altri Paesi membri dai soggetti passivi italiani; la proroga, in particolare, si riferisce alle richieste di rimborso relative agli acquisti e alle importazioni di beni e servizi effettuati, in altri Paesi membri, nell’anno 2009. La Direttiva n. 2008/9/CE ha previsto che, a regime, le istanze di rimborso dell’IVA assolta dai soggetti passivi comunitari in Stati membri diversi da quello di stabilimento del richiedente debbano essere presentate entro il 30 settembre dell’anno solare successivo al periodo di riferimento (e non più, quindi, entro il 30 giugno di tale anno, come invece disposto dall’VIII Direttiva, ora abrogata). Per l’anno 2009, la Direttiva n. 2010/66/CE ha, tuttavia, prorogato al 31 marzo 2011 il termine di presentazione delle istanze, tenendo così conto dei ritardi e dei problemi tecnici incontrati da alcuni Stati membri nella predisposizione dei portali elettronici attraverso i quali le istanze devono essere presentate. Con effetto retroattivo al 1° ottobre 2010 (giorno successivo al termine di scadenza del 30 settembre 2010), dovrà essere emanato un provvedimento che, per l’anno 2009, differisca al 31 marzo 2011 il termine finale di presentazione delle richieste di rimborso.
08/11/2010

Durante il preavviso, il licenziamento per giusta causa é inefficace

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22443 di ieri, 4 novembre 2010, ha stabilito che il licenziamento per giusta causa, intimato durante il periodo di preavviso a seguito di un precedente licenziamento per giustificato motivo, è privo di efficacia; conseguentemente, per il datore di lavoro permane l’obbligo di corrispondere l’indennità sostitutiva di mancato preavviso, poiché quest’ultimo non ha natura reale, bensì obbligatoria. Nel caso di specie, un direttore generale viene licenziato per giustificato motivo oggettivo, derivato da motivi di riorganizzazione aziendale che prevedono il venir meno della sua posizione. Circa due mesi dopo, a seguito della contestazione di una serie di addebiti, viene comunicato al dipendente che il licenziamento per giustificato motivo viene convertito in licenziamento per giusta causa, con conseguenti effetti sull’indennità sostitutiva del preavviso ed ogni altro istituto di legge e contratto. In altri termini, la parte datoriale si ritiene in questo modo libera dall’obbligo di corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso. Il lavoratore dipendente ricorre in giudizio e nei primi due gradi di i giudici stabiliscono che il licenziamento è inefficace perché disposto quando il rapporto di lavoro era già cessato, a seguito del precedente licenziamento per giustificato motivo. Il datore di lavoro ricorre in Corte di Cassazione contro queste decisioni, motivando il ricorso su due argomentazioni ben precise. In primis, la tesi dell’automatica risoluzione del rapporto di lavoro contrasta con la natura reale del preavviso e solo l’accordo delle parti, che in questo caso non c’è stato, può determinare l’estinzione prima del completo decorso del periodo di preavviso. In secondo luogo, viene denunciata la violazione dell’art. 2118 del codice civile, dal momento che i giudici avrebbero erroneamente mal interpretato l’art. 21 del CCNL per i direttori amministrativi, il quale prevede, in caso di licenziamento per giustificato motivo, il pagamento di un’indennità in cifra fissa, comprensiva del preavviso, desumendo così l’estinzione immediata del rapporto. Questa interpretazione contrasterebbe, sempre secondo il datore di lavoro, con quanto previsto dalla predetta disposizione civilistica che non consente al datore di estinguere immediatamente il rapporto corrispondendo l’indennità sostitutiva del preavviso, salvo accordo delle parti. In buona sintesi, l’elemento cardine delle argomentazioni del datore di lavoro ricorrente è che il preavviso abbia efficacia reale. Ma a tal proposito, la Suprema Corte ribadisce invece che la natura reale del preavviso è stata negata da una serie di precedenti decisioni, le quali hanno invece affermato e motivato – al contrario – la tesi dell’efficacia obbligatoria. Ad esempio, con la sentenza 11740/2007, la Cassazione ha affermato che, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, il preavviso ha efficacia obbligatoria e non reale, con la conseguenza che, nel caso in cui una delle due parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo – per la parte recedente – di corrispondere l’indennità sostitutiva. Questo principio è stato poi ribadito, sempre dalla Suprema Corte, con la sentenza 21216/2009, in base alla quale l’efficacia obbligatoria del preavviso, implicando l’estinzione immediata del rapporto con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva, comporta che tale indennità non rientra nella base di calcolo delle mensilità supplementari, delle ferie e del TFR spettante al lavoratore dimissionario, non riferendosi ad un periodo lavorato dal dipendente. Ancora, ai sensi della sentenza 13959/2009, la Cassazione ha stabilito che il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con esonero per il lavoratore dalla relativa prestazione, determina l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro a tutti gli effetti giuridici, con la conseguenza che il periodo di preavviso non lavorato non può essere computato ai fini del raggiungimento del requisito dei due anni di iscrizione all’AGO contro la disoccupazione involontaria per la corresponsione dell’indennità ordinaria di disoccupazione. Data per assodata, quindi, l’efficacia obbligatoria del preavviso, la Corte di Cassazione evidenzia una ulteriore implicazione: il primo licenziamento, essendo soggetto all’art. 21 del CCNL per i direttori amministrativi, che prevede l’obbligo di corresponsione di un’indennità in cifra fissa – comprensiva dell’indennità sostitutiva del preavviso – ha comportato l’estinzione del rapporto. Conseguentemente, il successivo nuovo licenziamento è da considerarsi un atto privo di efficacia, non idoneo ad incidere su un rapporto ormai esaurito. Infine, la previsione del citato art. 21 non collide con quanto disposto dall’art. 2118 del codice civile, che consente di estinguere con effetto immediato il rapporto, corrispondendo l’indennità di mancato preavviso.
05/11/2010

Comunicazioni «black list» solo se la controparte é un operatore economico

A pochi giorni dalla scadenza per i primi invii delle comunicazioni delle operazioni con l’estero previste dal DL 40/2010 sono ancora molte le questioni dubbie sul nuovo adempimento, anche dopo l’emanazione della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 53 dello scorso 21 ottobre. Una di queste riguarda la nozione di “operatore economico”, che deve caratterizzare la figura della controparte estera affinché scatti l’obbligo di comunicazione. Nella circolare 53/2010, l’Agenzia precisa che è operatore economico “chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di tale attività”, come stabilito dall’art. 9 della Direttiva 2006/112/CE. Viene, poi, sostenuto che tale natura può essere desunta dalla certificazione o dal numero identificativo rilasciato dall’Autorità fiscale estera, ovvero da una dichiarazione della controparte che attesta lo svolgimento di un’attività imprenditoriale, professionale o artistica. Ora, premesso che la prassi delle aziende dovrebbe andare nel senso inverso (non si chiede, infatti, alla controparte estera di dichiarare di svolgere un’attività economica, piuttosto ci si dovrebbe fare rilasciare una dichiarazione che attesti il contrario per far valere l’esclusione dall’adempimento), appare ambiguo fare riferimento proprio all’art. 9 della Direttiva comunitaria che stabilisce la nozione di soggetto passivo dell’IVA. Tale richiamo potrebbe, infatti, fare presumere la coincidenza tra la nozione di “operatore economico” con quella di “soggetto passivo IVA” nello Stato di stabilimento, il che restringerebbe di molto l’ambito applicativo delle comunicazioni in esame. Nell’ordinamento italiano, la nozione di operatore economico basata sul senso comune e quella di soggetto IVA basata su norme fondate sulla Direttiva sono di fatto sovrapponibili; non altrettanto si può dire in molti degli ordinamenti esteri, dove si è operatori economici anche senza essere soggetti IVA, mancando questa imposta o un’imposta similare sulla cifra d’affari. Si deve, pertanto, ritenere che la nozione di operatore economico della controparte estera possa prescindere dalla sussistenza di una posizione IVA all’estero, e che si debba considerare in modo “sostanziale” lo svolgimento di un’attività imprenditoriale, artistica o professionale. Ci si chiede, poi, se la natura di operatore economico sia condizionata o meno allo svolgimento, da parte della controparte estera, di un’attività d’impresa in via prevalente. In caso di prestazioni nei confronti di enti “misti”, appare maggiormente sicuro inserire i dati della vendita o della prestazione anche se queste vanno a beneficio dell’attività istituzionale dell’ente estero. Ci si ritroverebbe, però, in una situazione non speculare a quella delineata dalla circolare per le prestazioni commesse dagli enti non commerciali italiani, da inserire nelle comunicazioni solo se riferibili all’attività commerciale esercitata. La possibilità di configurare un “operatore economico” anche in assenza di una posizione IVA nello Stato di sede, residenza o domicilio dovrebbe, inoltre, essere avvalorata da un altro passo della circolare, che fa rientrare tra le prestazioni da comunicare quelle disciplinate dall’art. 7-sexies del DPR 633/72, le quali sono rese a committenti non soggetti passivi d’imposta. Va, tuttavia, sottolineato come la stessa circolare non menzioni, invece, le prestazioni disciplinate dall’art. 7-septies, anch’esse relative a transazioni con soggetti “non IVA”, questa volta però extracomunitari; potrebbe, ad ogni modo, trattarsi di una mera dimenticanza. Il quadro solamente tratteggiato è, di per sé, sufficiente a dimostrare come le uniche operazioni da escludere con certezza siano quelle effettuate nei confronti di privati consumatori, che il legislatore non ha inteso monitorare vista l’assenza di rischi fiscali; appare invece consigliabile, quanto meno in fase di prima applicazione, inserire tutte le altre transazioni, visto il quadro tuttora incerto e lacunoso.
26/10/2010

Accertamento bancario anche se le entrate e le uscite sono in pareggio

Le movimentazioni bancarie che non trovano riscontro nella contabilità del contribuente fanno scattare le presunzioni legali previste dalla normativa vigente, secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti si presumono imponibili non dichiarati. Ciò vale anche se le entrate e le uscite sono “in pareggio”, in quanto “il fatto che le entrate e le uscite fossero in pareggio non significa che si tratta di movimenti di cui si sia tenuto conto nella dichiarazione dei redditi”. Così, con la sentenza n. 21695 depositata il 22 ottobre 2010, la Corte di Cassazione ha fornito un contributo in più per meglio delineare l’ambito di operatività degli accertamenti bancari. Pertanto, nonostante le entrate coincidano con le uscite, il contribuente può essere notificatario di un accertamento fondato su dette presunzioni legali. Da quanto esposto si evince che il c.d. “accertamento bancario” ha un’estensione assai vasta. In passato, la stessa Suprema Corte aveva sancito l’irrilevanza del fatto che il soggetto verificato non esercitasse attività d’impresa e avesse un conto corrente con saldo negativo (Cass. 15 novembre 2007 n. 23690). In realtà, alcuni paletti sono stati posti da pronunce della giurisprudenza di merito. Ad esempio, è stato specificato che, se la rettifica riguarda attività di rivendita di merce, essa non può andare oltre la differenza tra il prezzo di rivendita e quello di acquisto, ovvero tra i corrispettivi dichiarati e i costi necessari alla loro produzione (C.T. Reg. Roma 9 maggio 2007 n. 47). Un altro punto esaminato dalla pronuncia in commento concerne la prova contraria. Come più volte stabilito, essa deve essere precisa e circostanziata, con la conseguenza che non può consistere in affermazioni apodittiche, a maggior ragione se avulse dal caso di specie. La Cassazione ha, in tal modo, cassato il ragionamento della Commissione tributaria regionale, siccome i giudici hanno ritenuto integrata la prova contraria derivante dal fatto che le entrate nel c/c dell’amministratore erano adeguate alle uscite, e che le operazioni avrebbero riguardato “operazioni di monetizzazione di assegni secondo prassi consolidate del settore”. Insomma, la prova contraria deve essere oggettivamente idonea a confutare la presunzione di imponibilità delle somme che non risultano essere transitate nelle scritture contabili. La circolare 1/2008 della Guardia di Finanza ha chiarito che la documentazione costituente prova contraria può essere costituita da prove da cui risulti con certezza l’irrilevanza fiscale dei conti, come, a titolo esemplificativo, documenti provenienti da soggetti aventi “funzione certificativa” (avvocati, notai). La prova non rileva se relativa a semplici scritture private o a mere dichiarazioni di parte.
26/10/2010

Appalti pubblici: inderogabilità della normativa in materia di DURC

La norma che fa obbligo alle imprese affidatarie di appalti pubblici di attestare la regolarità della propria posizione contributiva attraverso il DURC – pena la revoca dell’affidamento – costituisce espressione di un principio di ordine pubblico interno e presenta carattere inderogabile ed imperativo. Le stazioni pubbliche appaltanti non possono, dunque, assumere misure organizzative incompatibili con la richiamata disposizione, quand’anche si tratti di misure finalizzate a garantire, in funzione “anti-crisi”, la tempestività dei pagamenti della Pubblica Amministrazione. E' quanto emerge dalla deliberazione n. 159 adottata il 14 ottobre 2010 dalla Corte dei Conti - Sezione regionale di controllo per la Campania. Nella specie, il sindaco di un Comune campano aveva chiesto se, in applicazione dell’art. 9 del DL 78/2009, fosse possibile derogare “all’obbligo dell’esito regolare del DURC in relazione a soggetti, quali ditte individuali, artigiani, piccole imprese artigiane, piccoli imprenditori agricoli, che per la loro natura abbiano comprovate esigenze e difficoltà finanziarie”. Tale misura derogatoria – proseguiva il Comune – sarebbe, peraltro, stata “mitigata” dalla previsione della possibilità per il soggetto, “in presenza di acquisizione di DURC con esito non regolare”, di ricevere il pagamento per una sola volta “con l’obbligo di regolarizzare entro il termine di giorni 60 la propria posizione contributiva”. Il citato art. 9 del DL 78/2009, al comma 1, lettera a), prevede che, al fine di prevenire la formazione di nuove situazioni debitorie, le PA adottino le “misure organizzative” che risultino “opportune” per garantire il tempestivo pagamento delle somme dovute per somministrazioni, forniture ed appalti. Il parere reso con la deliberazione in commento concerne, dunque, la possibilità di introdurre, in virtù della suddetta disposizione, specifiche deroghe alla norma – l’art. 2 del DL 210/2002 – che, come anticipato, impone alle imprese affidatarie di appalti pubblici (di opere, servizi e forniture), a pena della revoca dell’affidamento, di certificare la propria regolarità contributiva munendosi di un documento unico di regolarità contributiva (c.d. DURC); vale a dire di un certificato unico attestante, sulla base di un’unica richiesta, la regolarità di un’impresa nell’adempimento degli obblighi previsti nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e delle Casse Edili, verificati alla luce della rispettiva normativa di riferimento. Ad oggi, la disciplina del DURC è contenuta principalmente nel DM 24 ottobre 2007. Di recente, nell’ambito degli appalti pubblici, il procedimento di rilascio del documento è stato semplificato attraverso l’introduzione dell’obbligo, per le stazioni appaltanti pubbliche, di acquisire d’ufficio il DURC, anche attraverso strumenti informatici, dagli Enti abilitati al suo rilascio (INPS, INAIL, Casse Edili), “in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge” (art. 16-bis, comma 10, del DL 185/2008). La Corte dei Corti risponde negativamente al quesito sottopostole. In particolare, secondo la Sezione regionale di controllo campana, l’art. 2 del DL 210/2002, nel porre a carico delle imprese il suddetto onere di attestazione – a pena della revoca dell’affidamento – non può non subordinare il pagamento delle singole fatture, relative agli incarichi ricevuti, alla previa verifica della sussistenza e persistenza, “per tutta la durata del rapporto contrattuale”, del possesso del requisito della regolarità contributiva. Detto requisito, infatti, come sostiene anche la prevalente giurisprudenza, deve sussistere sin dal momento della presentazione della domanda, essendo irrilevanti eventuali adempimenti successivi, e persistere fino al momento dell’aggiudicazione. Esso deve, poi, essere conservato per tutto lo svolgimento del rapporto contrattuale. Del resto – prosegue il parere in esame – il venir meno dello status soggettivo acquisito dall’operatore economico al termine della fase pubblicistica conclusasi con l’atto di affidamento, disposto in virtù dell’accertata sussistenza della regolarità contributiva, non può che riverberarsi sulla capacità a contrarre con la Pubblica Amministrazione dell’operatore stesso, capacità che deve, anch’essa, persistere per tutto lo svolgimento del rapporto contrattuale. L’Ente non ha, dunque, la possibilità di assumere iniziative organizzative incompatibili con la disciplina del DURC. In particolare, in caso di accertamento del mancato rispetto degli obblighi previdenziali, l’Amministrazione non ha facoltà di concedere all’impresa affidataria un termine per la regolarizzazione, essendo vincolata a revocare ex lege l’affidamento. A seguito dell’introduzione della normativa in materia di DURC – ricorda ancora la Corte dei Conti – non residua, infatti, in capo alla stazione appaltante, alcun margine di valutazione o di apprezzamento in ordine alla possibilità di concedere “uno spazio di tollerabilità” a beneficio delle imprese affidatarie (in tal senso, si veda anche la sentenza del Consiglio di Stato n. 1458 del 2009).
26/10/2010

Capital gain: La rinuncia al credito aumenta il costo fiscale di partecipazione

Il costo o valore di acquisto delle azioni o quote ai fini del calcolo delle plusvalenze di natura finanziaria realizzate dai soggetti non imprenditori si determina ai sensi dell’art. 68 comma 6 del TUIR. Tale norma, al contrario del disposto dell’art. 94 del TUIR che disciplina il caso dei soggetti imprenditori, non prevede che il costo fiscale delle partecipazioni sia comprensivo anche dei versamenti a fondo perduto o in conto capitale e della rinuncia ai crediti vantati dai soci nei confronti della società. Tuttavia, non sarebbe comprensibile dal punto di vista sistematico una tale differenza tra le due fattispecie. La problematica, infatti, è stata superata in via interpretativa con la circ. Agenzia delle Entrate n. 52 del 10 dicembre 2004 (§ 3), secondo cui, anche ai fini delle disposizioni sul capital gain, il costo delle partecipazioni é sempre comprensivo dei versamenti in denaro o in natura, a fondo perduto o in conto capitale e della rinuncia ai crediti vantati nei confronti della società. Sul tema, si segnala comunque che, secondo la ris. Agenzia delle Entrate n. 41 del 5 aprile 2001, la rinuncia dei soci ai crediti vantati verso la società può rientrare nell’ambito delle operazioni elusive, nel caso in cui la rinuncia del credito configuri un risparmio di imposta realizzabile attraverso l’immediata deduzione fiscale, a titolo di minusvalenza su partecipazioni, dell’ammontare del credito rinunciato. Resta inteso che vi sono anche altri oneri che possono incrementare il costo delle partecipazioni in società di persone. Precisamente, esso deve essere aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione (vedasi istruzioni al modello UNICO PF). Con riferimento specifico alle partecipazioni in società di persone, il costo fiscalmente riconosciuto é aumentato o diminuito rispettivamente dei redditi e delle perdite fiscali imputati; esso, inoltre, é ridotto – sino a concorrenza degli utili imputati – in ragione degli utili effettivamente distribuiti (art. 68 comma 6 del TUIR). La vera problematica relativa all’individuazione del costo fiscale di una partecipazione in una società di persone si presenta quando la medesima adotta il regime contabile semplificato ex art. 18 del DPR 600/73. Infatti, a livello tecnico, è assai complicato ricostruire quali sono gli utili effettivamente distribuiti a causa della mancanza dei dati contabili. In merito, si ritiene che, pur considerando le difficoltà derivanti dalla mancanza di dati contabili, dovrebbe rimanere comunque applicabile quanto disposto dall’art. 68 comma 6 del TUIR. Ciò, però, deve presupporre la presenza di documentazione idonea a provare le distribuzioni. In mancanza, tutti gli utili dovrebbero considerarsi effettivamente distribuiti, con effetto quindi pari a zero sulla quantificazione del costo della partecipazione.

25/10/2010

Il rifiuto di esibizione nella verifica pregiudica la fase contenziosa

Il rifiuto di esibizione contemplato dagli artt. 32 comma 4 del DPR 600/73 e 52 comma 5 del DPR 633/72 opera anche nell’ipotesi in cui l’Ufficio, mediante questionario, domandi chiarimenti al contribuente nonché documentazione concernente, nella specie, una cessione di azienda. Questo é il principio enunciato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 21665 del 22 ottobre 2010, ove i giudici hanno, in sostanza, confermato il dato normativo, che, almeno a prima vista, non dovrebbe necessitare di particolari operazioni interpretative. Di per sé, la pronuncia non introduce un principio nuovo, visto che, come prevede la norma, se l’Agenzia delle Entrate chiede determinati documenti (tramite questionario o in altra maniera), e il contribuente, senza giustificato motivo, non ottempera, oltre alle sanzioni amministrative, scatta la c.d. “sterilizzazione”, consistente nell’inutilizzabilità dei suddetti documenti nella successiva fase contenziosa. Tuttavia, il tema del c.d. “rifiuto di esibizione”, come si evince da precedenti sentenze del Supremo Collegio, é nient’altro che semplice. Prima di tutto, la disposizione é contenuta sia nel DPR 600/73 (art. 32 comma 4), nell’articolo relativo ai poteri degli uffici, sia nel DPR 633/72 (art. 52 comma 5), nell’articolo su accessi, ispezioni e verifiche. Poi, l’art. 33 del 600 espressamente prevede che per gli accessi, ai fini delle imposte sui redditi, si applica l’art. 52 del DPR 633/72. Ciò detto, le due norme ovviamente non coincidono, perché nel DPR 600/73 si afferma che “le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio” non possono essere usati nel processo, e che di ciò i verificatori devono informare il contribuente. Dal canto suo, il DPR 633/72 stabilisce che “i libri, i registri, scritture e documenti di cui é rifiutata l’esibizione” non possono essere usati nel processo, e che per rifiuto di esibizione si intende anche la dichiarazione di non possedere libri o registri. Da qui enormi problemi, analizzati anche di recente, sull’elemento soggettivo necessario per configurare il rifiuto di esibizione (per Cass. 30 dicembre 2009 n. 28049, nel caso delle verifiche “a tavolino” – art. 32 del DPR 600/73 – sarebbe sufficiente una condotta colposa, a differenza dei rifiuti che si pongono in essere in occasione delle verifiche sostanziali, ove sarebbe necessario l’elemento intenzionale; per Cass. 7269/2009, anche per l’art. 52 del 633 sarebbe sufficiente la colpa, mentre per la famosa pronuncia delle Sezioni Unite 45 del 2000 occorrerebbe il dolo). Insomma, sarebbe necessario, prima, verificare se il rifiuto si é concretizzato in indagini “a tavolino” o nelle more di “controlli sostanziali”, poi vagliare se si rientra nel dolo o nella colpa e, infine, vedere se può sussistere la preclusione probatoria. Certo, davanti ad un intreccio di norme strutturato in tal modo, non stupisce che la giurisprudenza abbia adottato soluzioni discordanti, arrivando addirittura a sostenere che l’art. 52 non si applica alle imposte sui redditi (Cass. 8 agosto 2003 n. 11981). Tanto premesso, ma il punto non pare essere ancora stato analizzato dalla giurisprudenza, potrebbe sostenersi che l’effetto preclusivo non debba applicarsi ove le richieste dell’Ufficio riguardino documenti già in suo possesso, in ottemperanza a quanto imposto dall’art. 6 dello Statuto dei diritti del Contribuente.

25/10/2010

Nuova circolare sulle comunicazioni "black list"

Diramata la circolare 53/2010 dell’Agenzia delle Entrate a commento dei nuovi obblighi di comunicazione delle operazioni con i paradisi fiscali introdotti dall’art. 1 del Decreto Legge 40/2010. L’emanazione della circolare permette di ottemperare al nuovo obbligo in un quadro maggiormente certo, visti i numerosi dubbi sollevati su aspetti qualificanti della nuova disciplina; ad essa si aggiunge il rilevante contributo di Assonime che, sempre ieri, ha pubblicato la circolare n. 32/2010, la quale fornisce un contributo interpretativo in larga parte coerente con quello dell’Agenzia delle Entrate, lasciando tuttavia aperte una serie di problematiche sulla quale l’Agenzia si è, invece, pronunciata in modo espresso. Per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti tenuti al nuovo obbligo di comunicazione, l’Agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che esso compete a tutti i “soggetti passivi” IVA (compresi i soggetti non residenti identificati direttamente, con rappresentante o con stabile organizzazione), esclude in modo opportuno i contribuenti minimi e i soggetti che hanno optato per il regime delle nuove iniziative produttive previsto dall’art. 13 della L. 388/2000, in virtù dell’assenza di obblighi di registrazione delle fatture che caratterizzano tali regimi. Per quanto riguarda gli enti non commerciali, invece, gli obblighi di segnalazione sussistono solo quando le operazioni sono riferite all’attività commerciale, e non a quella istituzionale. Va nel senso della semplificazione la dibattuta questione dell’esatta individuazione dei paradisi fiscali: sono tali gli Stati o territori indicati anche solo in uno dei decreti ministeriali che contengono le liste nere, e senza tenere conto delle limitazioni previste a seconda della forma giuridica o di eventuali regimi agevolati. Da accogliere con sfavore é, invece, l’indicazione dell’Agenzia delle Entrate secondo cui devono essere segnalate le importazioni, visto il richiamo costante espresso dai commentatori negli ultimi mesi ad una possibile esclusione fondata sia sul dato formale, sia sulla considerazione per cui si tratta di operazioni con rischio frode di fatto assente (le stesse considerazioni, peraltro, sono contenute nella circolare Assonime 32/2010). Si tratta di un’estensione che appesantirà di molto gli obblighi in molti contesti societari, con un effetto anche sulle periodicità, che si basano sul volume di operazioni effettuate. Agevolazioni, invece, per banche e assicurazioni: l’Agenzia delle Entrate ha, infatti, confermato l’interpretazione delle circolari ABI (e ripresa ieri dalla stessa Assonime) secondo cui, in caso di dispensa ex art. 36-bis del DPR 633/72, non vi é obbligo di comunicare le operazioni passive per le quali è stata applicata l’IVA, in quanto indetraibile. Per quanto riguarda il criterio con il quale imputare al mese o al trimestre le operazioni, l’Agenzia precisa che esso é rappresentato, in linea generale, dalla data di registrazione della fattura; per le prestazioni di servizi extraterritoriali si deve, invece, fare riferimento al momento di registrazione dell’operazione nelle scritture contabili o, in mancanza, a quello di pagamento. Ai fini dell’obbligo di comunicazione, è sufficiente che l’operatore economico abbia sede, residenza o domicilio in un Paese contemplato da una sola delle due liste citate dalla norma (DM 4 maggio 1999 e DM 21 novembre 2001), indipendentemente dalla natura giuridica e dall’attività svolta da tale operatore. L’Agenzia ha altresì precisato che non rilevano i limiti soggettivi e oggettivi previsti dagli articoli 2 e 3 del DM 21 novembre 2001. Ad esempio, l’art. 2 contempla gli Stati che, pur essendo paradisi fiscali, prevedono alcune fattispecie a tassazione ordinaria e che, pertanto, sono escluse dall’ambito applicativo del provvedimento. L’impostazione adottata dall’Agenzia delle Entrate, sebbene dispensi l’operatore da alcune verifiche in ordine alla natura giuridica della controparte, ha come conseguenza alquanto eclatante di ricomprendere nell’obbligo di comunicazione tutte le operazioni effettuate con il Lussemburgo che, oltre a essere Paese dell’Unione europea, è paradiso fiscale limitatamente alle holding del 1929. La circolare precisa che Cipro, Malta e la Corea del Sud non sono più paesi a regime fiscale privilegiato.
Sul funzionamento del sistema bancario e fiscale nei paesi "black list" si é espressa a più riprese anche l'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). La ragione principale che spinge a creare una società o ad aprire un conto in una banca di un paradiso fiscale é la tassazione più conveniente rispetto al proprio paese. E soprattutto la segretezza delle informazioni su beneficiari e oparazioni svolte. Una caratteristica quest'ultima che può essere garantita in tre modi secondo l'Ocse. Devono esserci una legislazione poco trasparente e pratiche amministrative che ostacolino lo scambio di informazioni con le autorità dei paesi stranieri. I "tax heaven" poi non richiedono espressamente alle società estere che ospitano, di dimostrare che la propria attività si svolge nel paese. I paradisi fiscali sono quasi tutti paesi offshore, ma non é sempre vero il contrario. Il Fondo monetario internazionale definisce offshore (letteramente oltremare) un paese in cui la maggior parte delle attività finanziarie interessa società straniere. Si tratta di un grosso calderone di cui fanno parte tanti paesi come la Svizzera, Singapore, ma anche Dublino e Londra, dove molte persone benestanti stabiliscono la propria residenza per pagare meno tasse (lo ha fatto Valentino Rossi salvo poi essere pizzicato dal Fisco italiano). La lotta ai paradisi fiscali ha subìto un'accelerazione negli ultimi anni per effetto della crisi che ha svuotato le casse dei grandi paesi occidentali, costretti a varare colossali piani di stimolo all'economia e miliardari salvataggi bancari. Il passo più importante è stato fatto al G20 di Londra del 2009, nel corso del quale è stato dato un forte incarico all'Ocse. Il 2 aprile dell'anno scorso l'organizzazione ha pubblicato una black list, dei paesi non collaborativi sul fronte dello scambio di informazioni di cui facevano parte Costa Rica Malesia, Filippine e Uruguay. Un gruppo molto più ampio di paesi, che comprendeva Svizzera, Austria e Belgio invece era stato inserito nella cosiddetta lista grigia. Di questa facevano parte quei paesi che, pur essendosi impegnati ufficialmente ad adeguarsi agli standard internazionali di trasparenza, non avevano ancora messo in pratica misure concrete. Diversi paesi di questa lista grigia, complice la pressione internazionale, hanno modificato la propria legislazione (la Svizzera ha rivisto le sue norme sul segreto bancario) oppure hanno siglato diversi accordi bilaterali per lo scambio di informazioni. Così nel giro di un paio di anni la lista nera è scomparsa e quella grigia si è svuotata. La pattuglia degli osservati speciali si è ridotta a Belize, Liberia, Monserrat, Nauru, Niue, Panama, Vanatu, Costa Rica, Guatemala e Uruguay. Questo vuol dire che Antigua (dove Berlusconi ha fatto consistenti investimenti immobiliari) o Santa Lucia (dove hanno sede le società proprietari della famosa casa di Montecarlo, per cui Gianfranco Fini è stato attaccato dai giornali vicini al premier) non sono più dei paradisi fiscali? Dall'Ocse spiegano che non è così. L'uscita dalla lista grigia quindi è una sorta di promozione "con riserva" per molti paesi che pertanto restano dei sorvegliati speciali da parte del Global Forum on trasparency, il soggetto che, sotto il cappello dell'Ocse, si occupa della lotta ai paradisi fiscali. La promozione da parte dell'Ocse è vincolata alla stipula di almeno 12 accordi bilaterali per lo scambio di informazioni. Questo fa capire quanto sia relativa. Un paradiso fiscale è tale a seconda dello stato in cui ci troviamo e se sono stati stipulati accordi bilaterali. Gran parte dei paesi ha quindi una propria black list. In Italia attualmente ce ne sono in vigore tre: quella del 1999 sulla presunzione di residenza, quella del 2001 relativo alla normativa Cfc - Controlled foreign company - e infine la black list del 23 gennaio 2002 sull'indeducibilità di costi. In questi giorni c'è stata molta attesa per due nuove liste, previste dall'articolo 36 del decreto legge 78 del 2010, che riguardano le fiduciarie (quelle dei paesi a rischio non potranno operare nel nostro paese) e gli appalti internazionali. Secondo indiscrezioni, in questi elenchi potrebbero esserci anche Svizzera e San Marino. Insomma anche se la "grey list" si è molto assottigliata, la guerra ai paradisi fiscali è ben lontana dall'essere vinta. Nel report recentemente pubblicato sul principato di Monaco, uscito dalla lista grigia, il Global forum on trasparency segnala ad esempio come il paese non abbia ancora stipulato un accordo bilaterale con la vicina Italia e non abbia ancora adottato norme trasparenti per lo scambio di informazioni per enti non commerciali come trust e fondazioni. Se gran parte dei paradisi fiscali possono dire di aver fatto un passo avanti sul fronte della trasparenza poi, ce ne sono altri, come il Botswana, che stanno di fatto regredendo. Nel recente report sul paese africano, che non faceva parte della lista grigia e nera dell'Ocse, il Global Forum on trasparency condanna l'opacità della sua legislazione. Le norme sul segreto bancario per esempio permettono infatti lo scambio di informazioni solo in caso di un processo civile o penale avviato nel paese africano, un fatto che rende impossibili rogatorie internazionali. Stilare una lista completa ed esaustiva dei paradisi fiscali non é un'operazione semplice perché non tutti hanno lo stesso grado di opacità. Allo stesso tempo non tutti hanno mostrato lo stesso impegno e collaborazione con le autorità internazionali.

25/10/2010

Primo principio contabile per gli enti non profit

Con un comunicato stampa congiunto, CNDCEC, Agenzia per le Onlus e OIC hanno annunciato ieri, 19 ottobre 2010, la pubblicazione del “Quadro sistematico per la preparazione e la presentazione del bilancio degli enti non profit”. Con tale documento (che si affianca alle “Linee guida” elaborate nel 2008 dall’Agenzia per le Onlus) prende finalmente il via la definizione dei Principi contabili per gli enti non profit (ENP). Il documento sarà sottoposto ad una consultazione pubblica che si concluderà il 15 gennaio 2011 e costituirà la base per l’elaborazione dei successivi principi, dedicati alla contabilizzazione delle poste di bilancio che assumono maggiore significatività per il settore non profit, come per esempio le erogazioni liberali e le immobilizzazioni. Con specifico riferimento all’ambito di applicazione, viene chiarito che, in termini generali, con il termine “enti non profit” possono identificarsi tutte le organizzazioni la cui attività non è finalizzata a realizzare un lucro soggettivo od oggettivo e che operano in campi di attività di natura sociale e di tipo solidaristico, quali l’assistenza sociale, la tutela dei soggetti svantaggiati, l’istruzione, la promozione di attività artistico-culturale, la ricerca scientifica, l’erogazione di servizi sociali e religiosi, la promozione di forme di sviluppo compatibili con il rispetto dell’ambiente. Il documento illustra, poi, le clausole generali (o finalità) che occorre tenere in considerazione nella preparazione del bilancio, ossia chiarezza, veridicità, correttezza, ricerca di un elevato livello di responsabilizzazione (accountability), e i principi generali (o postulati) che sottendono la redazione del bilancio, individuabili essenzialmente in comprensibilità, imparzialità (neutralità), significatività, prudenza, prevalenza della sostanza sulla forma, comparabilità e coerenza, verificabilità dell’informazione, annualità, costo. Le indicazioni maggiormente interessanti sembrano essere, però, ad una prima lettura, quelle che ineriscono al principio della competenza economica, il quale, anche laddove non siano presenti norme cogenti, dovrebbe comunque guidare la redazione dei bilanci degli ENP. Il Principio contabile evidenzia come, con riferimento agli enti operanti nel cosiddetto terzo settore, il principio della competenza economica assuma una connotazione più estesa di quanto non avvenga nelle aziende lucrative. Di norma, infatti, i proventi degli ENP non sono correlati alle attività di carattere istituzionale da questi svolte secondo una logica sinallagmatica, come invece solitamente avviene nella prassi delle imprese. Secondo il Principio contabile, quindi, donazioni, contributi ed altri proventi di natura non corrispettiva devono essere iscritti nel rendiconto della gestione dell’esercizio in cui questi sono riscossi, ovvero nell’esercizio in cui il titolo alla riscossione ha carattere giuridico. Qualora sia ravvisabile una correlazione tra proventi - comunque di natura non corrispettiva (donazioni e contributi) - e specifiche attività dell’ENP, questi possono essere correlati con gli oneri dell’esercizio. Infine, nonostante il principio di competenza sia la tecnica di rilevazione più adatta per fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione aziendale degli ENP, il principio contabile ritiene comunque ammissibile l’utilizzo, da parte degli ENP di minori dimensioni (contraddistinti da strutture amministrative normalmente esigue), di un sistema di rilevazione articolato sulle entrate e le uscite di cassa. Tali flussi, rappresentativi degli effettivi introiti ed esborsi che l’ente ha effettuato nel corso dell’esercizio interessato, si sostanziano in un incremento o in un decremento della cassa e dei depositi a vista a disposizione dell’ente.

20/10/2010

Componente soggettiva della revisione ed aggregati di bilancio

L’obiettivo principale della revisione è quello di acquisire sufficienti ed appropriati elementi probativi che consentano di giungere, con ragionevole sicurezza, alla conclusione che il bilancio non contiene errori significativi. Un errore e un’informazione sono significativi quando la loro presenza (errori) o mancanza (informazioni) avrebbe portato gli utilizzatori del bilancio a cambiare le loro decisioni economiche basate sul bilancio stesso. Nelle decisioni di un individuo ragionevole basate sul bilancio può influire sia la dimensione quantitativa che qualitativa dell’errore. La valutazione della significatività, essendo un fatto relativo e non legato a regole precise o a parametri quantitativi assoluti, implica spesso un apprezzamento soggettivo che pervade tutto lo svolgimento della revisione. Il revisore dovrà quindi, in fase di pianificazione, determinare un livello di significatività preliminare, sia per il bilancio nel suo complesso che per le singole voci o cicli di bilancio. Tale livello sarà il criterio guida per la scelta delle voci da esaminare, per la natura e la portata delle procedure di revisione da porre in essere e per la definizione dei metodi di campionamento. È chiaro che il livello di significatività individuato deve tener conto anche del rischio di revisione. Tanto più alto è il rischio, quanto più bassa deve essere fissata la soglia di significatività. Infatti, se il revisore ha valutato alto il rischio intrinseco (rischio legato alla natura della posta bilancio e a fattori esterni impattanti sulla stessa) e/o il rischio di controllo (capacità di autocorrezione dell’impresa, cioè affidabilità del sistema di controllo interno), dovrà necessariamente ridurre il livello di significatività al fine di ridurre il rischio di individuazione, ossia il rischio che sfuggano al revisore errori significativi. La valutazione della significatività e il correlato rischio di revisione non sono dati statici. Essi potrebbero cambiare fra il momento iniziale della pianificazione del lavoro e il momento della valutazione dei risultati della revisione svolta. Ad esempio, potrebbero cambiare talune condizioni generali oppure potrebbe accadere che il revisore, nel corso delle procedure di verifica, scopra circostanze che non aveva preso in considerazione in fase di pianificazione. A tal fine, per ottenere sin da subito un maggior margine di sicurezza, il revisore può ridurre intenzionalmente il livello di significatività preliminare, portandolo ad un livello più basso, ad esempio al 40% o 50% del valore iniziale, in modo da avere un errore tollerabile che riduca la probabilità di errori significativi non rilevati. Non esiste una regola predeterminata, valida per tutti e in ogni caso. La valutazione della significatività degli errori riscontrati nel corso del lavoro, rispetto all’attendibilità del bilancio e alle norme di redazione dello stesso, richiede discernimento professionale, essendo la quantificazione del livello di significatività basata essenzialmente sul giudizio professionale del revisore. Ad esempio, un credito inesigibile di 100.000 euro potrebbe apparire trascurabile di fronte ad un monte crediti di 5.000.000 euro, ma se rapportato ad un utile ante imposte di 400.000 euro la mancata svalutazione diventa sicuramente un errore significativo. Allo stesso modo, un determinato livello di significatività può essere adeguato per una piccola impresa, ma risultare non rilevante per un’impresa di maggiori dimensioni. Occorre infatti tener conto delle caratteristiche di settore, del bilancio e delle aspettative degli stakeholders. Non è, conseguentemente, possibile stabilire una scala di fattori di riferimento per fissare un adeguato livello di significatività, valido per ogni impresa. Tuttavia, i fattori principali e le correlate soglie di prassi, da tener presente ai fini della determinazione della significatività globale sono, di norma, gli aggregati fondamentali del bilancio, quali ad esempio: il risultato netto prima delle imposte (5%); il patrimonio netto (1%); il totale attivo (0,5% - 2%); l’attivo circolante (3% - 8%); il fatturato (0,5% - 1%); le passività correnti (3% - 5%); le immobilizzazioni nette (0,5% - 2%); le passività non correnti (0,5% - 2%). In Italia, il livello di significatività è anche influenzato dagli artt. 2621 e 2622 c.c. (False comunicazioni sociali), i quali prevedono che siano penalmente rilevanti: gli errori e le deviazioni da corretti criteri di valutazione di importo superiore al 5% del risultato economico ante imposte, oppure all’1% del patrimonio netto; le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscano in misura superiore al 10% rispetto al valore corretto. È evidente che questi parametri, fissati dal legislatore penale, costituiscono di per se stessi soglie di significatività non derogabili verso l’alto. Una volta determinata la soglia preliminare di significatività, dovrà essere determinato l’errore tollerabile, applicando alla soglia stessa un coefficiente del 40% - 50%. Tale valore potrà essere riferito al singolo conto o classe di conti del bilancio. Naturalmente, il revisore dovrà porre molta attenzione anche alla dimensione qualitativa degli errori riscontrati: è evidente che un errore, anche se rientra nei limiti di tolleranza quantitativa, qualora sia indice di comportamenti fraudolenti o determini situazioni di particolare rilevanza sotto il profilo normativo (es. perdite rilevanti ex artt. 2446-2447 c.c.), non potrà essere ritenuto non significativo dal revisore. Infine, è necessario che tutto il processo di definizione delle soglie di significatività, i criteri utilizzati per l’individuazione e la spiegazione delle eventuali modifiche effettuate nel corso del lavoro di revisione sia adeguatamente documentato nelle carte di lavoro.
19/10/2010

Il compenso al collegio diventa puntuale

E' una delle novità più rilevanti del DM n. 169 del 2 settembre 2010 pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 242 del 15 ottobre 2010, il che elimina onorari minimi e massimi a discrezione del professionista. Dalla data di entrata in vigore del provvedimento, il 30 ottobre 2010, la nuova tariffa sarà immediatamente applicabile per tutti gli onorari specifici (ad esempio perizie e valutazioni, tenuta della contabilità, bilanci, consulenza contrattuale, collegi sindacali), mentre per onorari graduali, indennità e rimborsi spese dovrà applicarsi la tariffa vigente al momento in cui si è svolta concretamente la prestazione. La struttura della Tariffa Professionale é rimasta pressoché inalterata rispetto alle previgenti disposizioni relative ai compensi di dottori commercialisti e ragionieri e periti commerciali (rispettivamente, DPR 645/1994 e DPR 100/1997). I compensi hanno subito un adeguamento generalizzato del 50% in più rispetto alla precedente tariffa; all’art. 17, é stato reintrodotto il compenso forfettario per le spese generali di studio, stabilito nel 12,5% degli onorari spettanti, con il limite di 2.500 euro per parcella. Tra le indennità elencate nell’art. 19, è stata inserita una nuova voce, alla lettera e), relativa al deposito presso lo studio di libri, documenti, plichi, valori e simili, prevedendo di concordarne l’importo con il cliente. Viene poi prevista, all’art. 23, la possibilità di applicare una maggiorazione pari al 10% degli onorari specifici relativi, quando su richiesta della legge o del cliente stesso, il professionista sia chiamato ad asseverare perizie, atti o documenti. L’art. 32 prevede invece, per l’attività di revisione legale, onorari a tempo da concordare con il cliente in misura non inferiore alle indennità fissate dall’art. 19 (77,48 euro l’ora per il professionista e 27,12 euro l’ora per i suoi collaboratori). Il successivo art. 33, in tema di contabilità, ha introdotto onorari a tempo per tutti quegli adempimenti, contabili o amministrativi che siano, connessi alla tenuta della contabilità stessa; viene poi previsto un onorario, da 200 a 1.000 euro, per la redazione di rendiconti periodici richiesti da imprese controllanti che comportino la rielaborazione dei dati aziendali, nonché per l’elaborazione di statistiche aziendali. L’art. 35, in tema di bilancio, specifica che gli onorari ivi previsti si applichino anche alla redazione del bilancio consolidato. Una delle novità più rilevanti è stata introdotta all’art. 37 in tema di collegi sindacali. Il nuovo criterio per la determinazione dei compensi prevede un metodo di determinazione puntuale, quindi non più onorari minimi e massimi da determinare a discrezione del professionista, ma un compenso puntuale alla cui determinazione si perviene attraverso il metodo dell’interpolazione lineare. I parametri di riferimento sono determinati dai ricavi, dal patrimonio netto e dal capitale sociale sottoscritto. L’art. 45, in tema di consulenza contrattuale, prevede espressamente l’applicazione degli onorari in tema di consulenza contrattuale, qualora al professionista sia richiesta l’elaborazione di patti societari o parasocietari in sede di costituzione di società ovvero di operazioni sul capitale sociale. Un’altra modifica sostanziale ha interessato la tabella 2, relativa all’art. 47 comma 1, che disciplina gli onorari specifici relativi all’assistenza tributaria: sono stati infatti previsti onorari specifici differenziati per le dichiarazione dei redditi propri e di terzi, comunicazioni, denunce, compilazione di elenchi, moduli e formulari, distinguendo tra dichiarazioni semplici, di media complessità e complesse. Per la trasmissione telematica di dichiarazioni ed altri documenti, sono previsti onorari specifici differenziati in caso di predisposizione da parte del professionista ovvero dal contribuente. Sono stati poi previsti onorari specifici anche per le certificazioni anche tributarie distinguendo tra: visto di conformità, asseverazione e certificazione tributaria e/o altre attestazioni. Onorari specifici anche per la compilazione di modelli in adempimento a richieste di uffici pubblici, di modelli di versamento di imposte e di altri moduli o bollettini, e relativa trasmissione telematica. Per gli onorari graduali relativi a prestazioni di assistenza tributaria, la tabella 3 è stata integrata con una quarta voce relativa alle certificazioni tributarie.
18/10/2010

Legittimo lo scomputo delle ritenute senza certificazione del sostituto

Il contribuente/sostituito (nella specie, avvocato) che, dopo aver scomputato le ritenute subite ad opera del sostituto/cliente, non riesca, per le più svariate ragioni, ad ottenere da quest’ultimo l’apposita certificazione, non perde il diritto allo scomputo, sempre che dimostri, senza limitazioni nell’oggetto della prova, che la ritenuta è stata effettuata. A queste conclusioni é giunta la settima sezione della Commissione tributaria provinciale di Treviso, con la sentenza depositata in data 22 settembre 2010 n. 105, che, con una decisione sintetica e molto ben argomentata, ha accolto il ricorso del contribuente contro la cartella di pagamento scaturita a seguito di controllo formale ex art. 36-ter del DPR 600/73. Apprezzabile, inoltre, è la statuizione sulle spese processuali, rispettosa del principio di soccombenza. Spesso accade che il contribuente subisca determinate ritenute, ma non riesca, per vari motivi, ad ottenere la relativa certificazione che deve, per disposizione di legge, provenire dal sostituto d’imposta. Inizialmente, l’Amministrazione finanziaria era incline a negare il diritto allo scomputo delle ritenute subìte in assenza di documentazione proveniente dal sostituto (si veda la risalente risoluzione ministeriale del 31 ottobre 1977 n. 1034). Successivamente, con la risoluzione n. 68 del 2009, dopo anni di cartelle di pagamento basate sul mero difetto di produzione della certificazione nonostante la presentazione di varia documentazione alternativa da parte dei contribuenti, l’Agenzia delle Entrate ha deciso di “concedere” il diritto allo scomputo a condizione che il contribuente sia in grado di produrre congiuntamente la fattura e la documentazione bancaria dalla quale risulta che l’importo è stato incassato al netto della ritenuta, il tutto corredato da apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Nel caso esaminato dai giudici, l’esecuzione della ritenuta è stata comprovata mediante l’esibizione di dichiarazioni rilasciate dai sostituti d’imposta, ove veniva attestato che gli importi erano stati pagati al netto delle ritenute. In sede di controdeduzione, l’Ufficio ha basato le sue difese sulla mancata produzione della documentazione “richiesta” con la risoluzione 68 del 2009, costituita, come detto, dalle fatture, dai documenti bancari e dalla dichiarazione sostitutiva. I giudici, correttamente, hanno rammentato che il sostituito non può essere responsabile dell’operato del sostituto, visto che, a differenza degli uffici finanziari, egli non dispone di poteri coercitivi nei confronti di quest’ultimo. L’Agenzia delle Entrate, per appurare la veridicità delle affermazioni del contribuente, ben avrebbe potuto rivolgersi nei confronti del sostituto azionando i propri poteri di richiesta dati e informazioni; inoltre, oggi essa ha anche a disposizione efficienti strumenti informatici strumentali a verificare “se la mancata trasmissione della certificazione corrisponda a una negligenza o ad un effettivo mancato versamento”. In conclusione, occorre mettere in evidenza la correttezza delle critiche provenienti da gran parte della dottrina, mosse alla soluzione fatta propria con la risoluzione 68 del 2009, nonostante tale documento di prassi non possa che essere accolto con favore, quantomeno nell’intento. Come da più parti rilevato, infatti, l’Agenzia delle Entrate non prende in considerazione le fattispecie in cui il contribuente non sia in grado di produrre, congiuntamente, la fattura e la certificazione bancaria, vuoi perché il pagamento è avvenuto in contanti, vuoi perché il sostituito è titolare di redditi di lavoro dipendente. Poi, la fattura potrebbe essere stata smarrita nonché oggetto di furto regolarmente denunciato.
13/10/2010

Bonus produttività solo per i contratti collettivi decentrati

La circolare Assonime n. 31 di ieri, 11 ottobre 2010, illustra i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate in merito al regime di imposizione sostitutiva applicabile ai premi di produttività dei lavoratori dipendenti, soffermandosi in particolar modo su alcuni dei dubbi operativi emersi a seguito della ris. 83/2010. La circolare analizza inoltre le innovazioni introdotte, per l’anno 2011, dal DL 78/2010. L’interpretazione fornita dalla ris. 83/2010 ha reso necessario l’intervento di due ulteriori interventi di prassi volti a superare le difficoltà emerse. Tra le principali precisazioni, Assonime sottolinea che, con riferimento al lavoro notturno articolato su turni, alla luce della circ. 47/2010, la mera organizzazione in turni non rappresenta di per sé presupposto sufficiente per avvalersi dell’imposta sostitutiva; è, invece, necessario che all’adozione della stessa corrisponda un effetto positivo per l’impresa in termini di produttività o redditività. In merito al lavoro notturno, la stessa circ. 47/2010 ha ribadito che l’agevolabilità dei compensi per lavoro notturno è sempre subordinata ad un incremento della produttività che non può considerarsi implicito nella prestazione resa in un orario diverso da quello diurno e che deve essere attestato dall’impresa. Quanto all’importo agevolabile, la circ. 48/2010 ha affermato esplicitamente che l’agevolazione si applica all’intero compenso erogato per lavoro notturno; analogo trattamento va riservato ai compensi per il c.d. “turno di notte”, purchè venga registrato un risultato utile per il conseguimento di elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa. Le maggiori perplessità hanno riguardato l’applicabilità dell’agevolazione ai compensi erogati in relazione alle forme di lavoro straordinario di cui al DLgs. 66/2003 (c.d. lavoro straordinario “in senso tecnico”); sul punto, la circ. 47/2010 ha confermato che, fermo restando il vincolo di correlazione con i parametri di produttività, l’imposta sostitutiva del 10% è applicabile, oltre che alle ipotesi di lavoro straordinario c.d. “forfetizzato”, reso dai dipendenti non vincolati all’orario di lavoro, anche alle altre tipologie di prestazione straordinaria di lavoro. Analoghe considerazioni possono essere svolte con riguardo ai compensi per prestazioni di lavoro supplementare o reso sulla base di clausole elastiche, benché non espressamente indicate dalle disposizioni di proroga dell’agevolazione per il 2009 e il 2010. Secondo Assonime, continuano a beneficiare dell’agevolazione anche i premi di produttività una tantum, i premi ad personam, i premi variabili legati al raggiungimento di obiettivi aziendali o individuali, le indennità sostitutive di ferie e i permessi non fruiti; queste ultime due tipologie risultano agevolabili se legate ai parametri di produttività e redditività. Da ultimo, Assonime esamina le linee guida della nuova disciplina dei premi di produttività introdotta dall’art. 53 del DL 78/2010, applicabile nel 2011. La proroga, pur riproponendo il medesimo ambito oggettivo di applicazione previsto dall’art. 2 comma 1 lett. c) del DL 93/2008, limita l’operatività dell’agevolazione ai soli compensi premianti disposti dagli accordi collettivi di secondo livello; in altri termini, non è sufficiente che gli elementi retributivi premianti risultino contrattualizzati, ma gli stessi devono essere previsti in accordi o contratti collettivi decentrati, aziendali o territoriali. Risultano, pertanto, esclusi dall’agevolazione i compensi premianti concessi unilateralmente dal datore di lavoro. Inoltre, diversamente dalla precedente versione della disciplina, l’art. 53 del DL 78/2010 non prevede la possibilità, per il lavoratore, di rinunciare alla tassazione agevolata; secondo Assonime, tuttavia, l’applicazione obbligatoria dell’imposta sostitutiva potrebbe penalizzare i lavoratori che sostengono oneri di importo elevato, non consentendone la deduzione/detrazione e determinando l’incapienza del reddito imponibile e dell’imposta dovuta.
13/10/2010

Tassazione attiva dei prelevamenti bancari

Per vincere la presunzione dell’art. 32, comma 2 del DPR 600/73, è onere del contribuente dimostrare che i versamenti in conto corrente sono stati registrati in contabilità e i prelevamenti sono stati utilizzati per il pagamento di individuati soggetti beneficiari degli stessi. E' il principio ribadito dalla sentenza n. 20735 della sezione tributaria della Cassazione, depositata ieri. In particolare i giudici di legittimità, confermando un orientamento ormai consolidato, hanno ribadito che i versamenti e i prelevamenti, risultanti da un’indagine sui conti correnti, se non sono giustificati dal contribuente sono “automaticamente” considerati ricavi o compensi non dichiarati in virtù della presunzione contenuta nel richiamato art. 32. Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda un “contribuente” che, oltre a non aver presentato dichiarazioni, era anche privo di contabilità: di qui la verifica bancaria e la conseguente ricostruzione induttiva del reddito quantificato come mera sommatoria tra versamenti e prelevamenti risultanti dai conti correnti. In sede giudiziale, il contribuente si è difeso sostenendo che, ai fini IVA, l’ammontare complessivo dei prelevamenti era stato assimilato ad acquisti “in nero”, con la conseguente contestazione di omessa fatturazione. Come dire, è “principio comune” che per la produzione di ricavi o compensi è necessario il sostenimento di costi. Impostazione peraltro condivisibile, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale, che ha affermato il principio secondo cui “in caso di accertamento induttivo, si deve tenere conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati” (sentenza 8 giugno 2005 n. 225). Nonostante ciò, la giurisprudenza di legittimità ritiene che “l’art. 32 impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; posto che, in materia, sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale, né è possibile ricorrere all’equità” (Cass. sentenza 15 gennaio 2009 n. 863). Analogo il pensiero dell’Agenzia delle Entrate, laddove ritiene che “la disposizione intende procedimentalizzare l’analisi, da parte dell’ufficio finanziario, della maggiore capacità di spesa non giustificata dal contribuente, e correlare tale maggiore capacità di spesa con le ulteriori operazioni attive effettuate presuntivamente “in nero” (circolare 19 ottobre 2006 n. 32/E). Sembrano però violati i principi di capacità contributiva e ragionevolezza come, perlatro, osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza citata, laddove pur riconoscendo che “non è arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa”, per giungere alla quantificazione del reddito imponibile è necessario dedurre i relativi costi. La distonia delle conclusioni dei giudici di legittimità è ravvisabile anche con riferimento al metodo induttivo di ricostruzione del reddito, in base al quale ciò che deve essere accertato, e dunque assoggettato a tassazione, è il “reddito imponibile” individuabile appunto tramite il raffronto tra ricavi presunti e i costi necessari alla loro produzione. Non va peraltro sottaciuto che la presunzione prelevamenti=ricavi potrebbe essere giustificata come una sanzione impropria. Ma se così fosse si creerebbe una situazione “paradossale”: una sanzione propria applicata ad una sanzione impropria; infatti quest’ultima consisterebbe nel considerare reddito i prelevamenti, dando luogo ad un maggior debito d’imposta, sul quale poi commisurare la sanzione amministrativa tipica.

07/10/2010

Risponde il socio per i debiti della società estinta ex art. 36 DPR 602/73

Secondo l’art. 36 del DPR 602/73, in materia di IRES, la responsabilità dei soci è limitata al valore dei beni che hanno ricevuto in assegnazione nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione, nonché dei beni sociali ricevuti in assegnazione dai liquidatori durante il tempo della liquidazione. Il principio, tuttavia, non si estende ai maggiori tributi accertati relativi ad IRAP e IVA. Si ricorda, poi, l’art. 2495 c.c., il quale prevede che nelle ipotesi di liquidazione di una società di capitali, a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, si ha l’estinzione della società con la conseguenza che la società medesima non può in alcun modo essere chiamata in giudizio, né può essere chiamata a rispondere di eventuali obbligazioni sorte durante la propria esistenza (in merito si veda la sentenza della Cassazione, SS.UU., 22 febbraio 2010 n. 4062). Un eventuale ruolo intestato alla società ormai estinta sarebbe, pertanto, illegittimo. La norma di cui al citato art. 2495 c.c. prevede che “dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione”. Nell’ambito dell’ordinamento tributario, al di fuori dell’ipotesi appena delineata, trova applicazione la disposizione di cui all’art. 36 del DPR 602/73, laddove viene previsto – in materia di IRES – che “i soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile”. La predetta disposizione, secondo quanto affermato da costante giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 2079 del 4 marzo 1989), è da intendersi quale mera obbligazione di ordine civilistico. In base a quanto si evince dalla relazione illustrativa al DPR 602/73, infatti, la responsabilità dei soci “adempie, in definitiva, ad una funzione analoga a quella della revocatoria in sede civile”. Il dettato della disposizione non può essere esteso in via interpretativa al recupero dell’IVA e dell’IRAP nei confronti dei soci, posto che in materia tributaria vige il divieto di applicazione analogica di cui all’articolo 19 del DLgs. 26 febbraio 1999, n. 46, il quale sancisce che : “Le disposizioni previste dagli articoli (…) 36 (…) del DPR 29 settembre 1973, n. 602, si applicano alle sole imposte sui redditi”. Come prevede l’art. 36 del citato DPR 602/73, l’atto emanato ai sensi di tale norma deve essere impugnato dinanzi alla giurisdizione tributaria, entro sessanta giorni dalla notifica.
07/10/2010

Secondo box auto con IVA al 10%

La cessione della seconda pertinenza di un immobile abitativo, oggetto di agevolazione "prima casa", al cui servizio è già posto un altro immobile della stessa categoria catastale, è soggetto a IVA con l’aliquota ridotta del 10%. L’aliquota del 4% è applicabile solo alla prima pertinenza dell’immobile oggetto di agevolazione "prima casa". Con questa risposta, contenuta nella risoluzione n. 94 di ieri, 5 ottobre 2010, l’Agenzia delle Entrate conferma l’analoga posizione espressa nella risoluzione n. 139 del 20 giugno 2007. Innanzitutto, è opportuno osservare che, ai fini IVA, la distinzione tra immobili ad uso abitativo e immobili strumentali deve essere operata con riferimento alla classificazione catastale dei fabbricati, a prescindere dal loro effettivo utilizzo (si veda la circolare dell’Agenzia delle Entrate 4 agosto 2006, n. 27). In particolare, sono qualificabili come fabbricati o porzioni di fabbricato ad uso abitativo le unità immobiliari urbane classificate o classificabili nelle categorie del gruppo A, eccetto gli A/10; i fabbricati o porzioni di fabbricato strumentali sono, invece, le unità immobiliari urbane classificate o classificabili nelle categorie dei gruppi B, C, D, E, nonché nella categoria A/10. Il regime IVA delle cessioni immobiliari dipende, dunque, dalla classificazione catastale del fabbricato alla data del rogito, che rappresenta il momento di effettuazione dell’operazione, anche nel caso in cui sia intervenuto un cambio di destinazione d’uso dell’immobile: da strumentale ad abitativo o viceversa (si veda la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 58 del 21 febbraio 2008). L’estensione dell’agevolazione alle pertinenze dell’immobile abitativo presuppone, però, che le stesse siano classificate o classificabili nelle categorie catastali C/2 (cantine, soffitte, magazzini), C/6 (autorimesse, rimesse, scuderie) e C/7 (tettoie chiuse o aperte), limitatamente ad una sola pertinenza per ciascuna categoria (comma 3, secondo periodo, della nota II-bis all’art. 1 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR n. 131/1986). Nel caso affrontato dalla risoluzione n. 94/2010, in cui si effettua la cessione, imponibile IVA, di un immobile abitativo, oggetto di agevolazione “prima casa”, e di due pertinenze classificate nella medesima categoria catastale (C/6), solo alla prima pertinenza si applica l’aliquota ridotta del 4% (di cui al n. 21 della Tabella A, Parte II, allegata al DPR n. 633/1972); alla seconda pertinenza, che assume comunque natura di fabbricato abitativo, si applica invece l’aliquota agevolata del 10% (di cui al n. 127-undecies della Tabella A, Parte III, allegata al DPR n. 633/1972). L’Amministrazione finanziaria ha, tuttavia, precisato che la sussistenza del vincolo pertinenziale, rendendo il bene servente una proiezione del bene principale, consente di attribuire alla pertinenza la medesima natura del bene principale (si veda la circolare dell’Agenzia delle Entrate 1° marzo 2007, n. 12, § 2). In tale ipotesi, il trattamento IVA dell’immobile pertinenziale non dipende più dalla sua classificazione catastale, bensì da quella dell’immobile principale. Quindi, se quest’ultimo è un fabbricato abitativo, tale si considera anche l’autorimessa, benché si tratti di un immobile strumentale, essendo classificata nella categoria C/6. Laddove, poi, il fabbricato di civile abitazione abbia beneficiato dell’agevolazione “prima casa”, la stessa compete anche in relazione all’acquisto delle relative pertinenze, ancorché acquistate con atto separato (comma 3, primo periodo, della nota II-bis all’art. 1 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR n. 131/1986).
06/10/2010

Minimi: acconto IRPEF dovuto anche nel primo anno di adesione al regime

In risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-03497 (resa il 30 settembre 2010), il sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Sonia Viale, ha confermato che, nell’anno in cui avviene il passaggio dal regime ordinario di tassazione a quello dei minimi (art. 1 commi 96-117 della L. 23 dicembre 2007 n. 244), l’acconto IRPEF è calcolato senza tener conto delle disposizioni dettate con riferimento al regime agevolato. Inoltre, conformemente a quanto precisato dalla circ. Agenzia delle Entrate 26 febbraio 2008 n. 13, è in ogni caso esclusa la facoltà di avvalersi del c.d. “metodo previsionale”. In pratica, il contribuente in possesso dei previsti requisiti, se ha optato per l’applicazione del regime dei minimi a partire dal 2010, è comunque tenuto al versamento dell’acconto IRPEF 2010 sulla base dell’imposta indicata nel rigo RN34 del modello UNICO 2010 PF. Pertanto, anche qualora nel 2010 preveda di non conseguire ulteriori redditi rispetto a quello d’impresa o di lavoro autonomo assoggettato ad imposta sostitutiva e, dunque, di non risultare titolare di un reddito complessivo da assoggettare ad IRPEF, è comunque tenuto alla corresponsione dell’acconto IRPEF sulla base delle risultanze del modello UNICO 2010, senza poter ridurre, anche fino ad annullare, l’acconto dovuto. Come confermato dalla risposta in esame, l’omesso o insufficiente versamento dell’acconto IRPEF, conseguente ad un metodo di determinazione diverso da quello storico, non esenta il contribuente dall’applicazione:
- della sanzione amministrativa pari al 30% dell’importo non versato o versato in ritardo;
- degli interessi di mora, stabiliti nella misura annua del 3,5%, in caso di pagamento in seguito alla notifica del c.d. “avviso bonario” (artt. 2 e 3 del DLgs. 462/97), o del 4%, per i ruoli resi esecutivi dal 1° ottobre 2009, se gli importi non pagati vengono iscritti a ruolo (art. 20 del DPR 602/73).
Quindi, ad esempio, in presenza di altri redditi relativi al 2010 non assoggettati ad imposta sostitutiva, detto acconto andrà scomputato dall’IRPEF dovuta all’interno del quadro RN del modello UNICO 2011, secondo le modalità ordinarie. Nell’ipotesi in cui emerga un credito IRPEF, questo sarà indicato nel quadro RX, al fine di poter:
- essere compensato nel modello F24 con l’imposta sostitutiva in esame o con altri debiti fiscali e contributivi;
- chiesto a rimborso.
Qualora il contribuente non consegua ulteriori redditi nel corso del periodo d’imposta 2010, il quadro RN dovrebbe evidenziare soltanto il credito corrispondente all’ammontare dell’acconto IRPEF versato, che potrà poi essere compensato nel modello F24 o chiesto a rimborso. In tale ultima ipotesi, la risposta in commento segnala che “l’Agenzia delle Entrate è impegnata ad abbreviare i tempi di erogazione dei rimborsi per tutti i contribuenti”. Infine, si ricorda che i contribuenti minimi, a partire dal secondo anno di applicazione del regime, sono tenuti a pagare l’acconto della relativa imposta sostitutiva. Detto obbligo non sussiste, invece, nel primo anno di adesione al regime, per via dell’assenza di un’imposta sostitutiva “storica“ di riferimento (per un riepilogo delle modalità e dei termini di versamento, si veda “Niente proroga per i contribuenti minimi” del 12 giugno 2010).

05/10/2010

Premi detassati e turnisti a reddito agevolato

L’Agenzia delle Entrate, con le circolari 47 e 48 del 27 settembre 2010, fornisce ulteriori chiarimenti in merito alla fruizione del c.d. “bonus produttività”, previsto dall’art. 2 comma 1 lett. c) del DL 93/2008, sul cui ambito di applicazione l’Agenzia stessa ha di recente fornito nuove indicazioni con la risoluzione 83/2010 (si veda “Lavoro notturno, imposta sostitutiva del 10% sulla retribuzione complessiva” del 18 agosto 2010). In tale occasione, l’Amministrazione finanziaria ha precisato che l’imposta sostitutiva del 10% può essere applicata all’intero compenso erogato per il lavoro notturno, non solo alle relative maggiorazioni; il medesimo trattamento fiscale risulta altresì applicabile alle somme erogate per prestazioni di lavoro straordinario che abbiano dato luogo ad un incremento della produttività aziendale. Al riguardo, la circ. 47/2010 ribadisce che il lavoro straordinario risulta agevolabile non in quanto tale, ma in quanto correlato a parametri di produttività; le disposizioni che prevedevano la detassazione senza condizioni degli straordinari facevano, infatti, riferimento alle prestazioni lavorative straordinarie rese per l’anno 2008, in base all’originaria formulazione dell’art. 2 del DL 93/2008. Tali disposizioni non sono state tuttavia prorogate per gli anni 2009 e 2010, in relazione ai quali l’imposta sostitutiva si applica alle sole prestazioni di lavoro straordinario, riconducibili ad “incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa”. Pertanto, in relazione al lavoro straordinario, la tassazione agevolata risulta subordinata al riscontro di un vincolo di correlazione con i parametri di produttività. È il caso, ad esempio, del lavoro straordinario c.d. “forfetizzato”, reso dai dipendenti non vincolati dall’orario di lavoro. Secondo l’Agenzia, il legame di correlazione deve essere documentato dall’impresa mediante una dichiarazione attestante che la prestazione lavorativa abbia determinato un risultato utile al conseguimento degli incrementi di competitività e redditività. Analoghe considerazioni valgono per la fruizione dell’agevolazione relativamente alle retribuzioni connesse a prestazioni di lavoro notturno e organizzato su turni. Sul piano operativo, la ris. 83/2010 prevedeva, con riferimento agli anni 2008 e 2009, la facoltà per i lavoratori di avvalersi del più favorevole regime di imposizione sostitutiva presentando una dichiarazione integrativa o istanza di rimborso; a tal fine, spettava al datore di lavoro certificare l’importo delle somme erogate a titolo di incremento di produttività e non assoggettate ad imposta sostitutiva. In considerazione delle difficoltà operative rinvenibili nel porre in essere tali adempimenti, con la circ. 48/2010, l’Agenzia delle Entrate ha ammesso il ricorso ad una procedura semplificata che consente di richiedere, unitariamente per entrambi i periodi di imposta interessati, il rimborso delle maggiori imposte pagate. In particolare, il datore di lavoro dovrà certificare nel CUD/2011 le somme erogate negli anni 2008 e 2009 assoggettabili ad imposta sostitutiva e il dipendente potrà recuperare il proprio credito mediante la dichiarazione dei redditi 2011, il cui modello sarà opportunamente integrato. Al fine di contemperare le esigenze di semplificazione con quelle di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria, il datore di lavoro dovrà, peraltro, riportare nel CUD/2011 anche gli importi che eventualmente abbia già certificato al dipendente. Da ultimo, la circ. 48/2010 chiarisce il trattamento fiscale da riservare alle somme erogate ai dipendenti a seguito dell’applicazione dello sgravio contributivo concesso sulle retribuzioni variabili, ai sensi dell’art. 1 comma 67 della L. 24 dicembre 2007 n. 247. Tale norma ha infatti introdotto, in via sperimentale, per il triennio 2008-2010, su domanda delle imprese, uno sgravio contributivo relativo alla quota di retribuzione variabile fissata dalla contrattazione di secondo livello, entro i limiti di risorse predeterminate. Le somme restituite ai dipendenti, a fronte dell’ammissione al beneficio dell’azienda, devono considerarsi redditi di lavoro dipendente assoggettati a tassazione separata in base all’art. 17 comma 1 lett. b) del TUIR (risoluzione 136/2005). Gli importi in questione possono, tuttavia, essere assoggettati al più favorevole regime di imposizione sostitutiva pari al 10%, qualora ne ricorrano le condizioni.
Con la risoluzione n. 83 del 17 agosto 2010, l’Agenzia delle Entrate aveva già fornito chiarimenti in merito all’ambito di applicazione del “bonus produttività” previsto dall’art. 2 comma 1 lett. c) del DL 93/2008. Le precisazioni risultano conformi a quanto precedentemente espresso dalle circ. 49 dell’11 luglio 2008 e n. 59 del 22 ottobre 2008, emanate dall’Agenzia delle Entrate e dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. In occasione dell’interpello proposto da una confederazione circa l’applicabilità dell’imposta sostitutiva del 10%, l’Amministrazione finanziaria ha infatti delineato i termini e i requisiti per beneficiare del regime di tassazione agevolata IRPEF, previsto dal DL 93/2008 in funzione di incrementi di produttività e competitività delle imprese. L’agevolazione fiscale, introdotta per il secondo semestre del 2008, è stata prorogata per gli anni 2009 e 2010 limitatamente ai premi di produttività. Nello specifico, rientrano nel regime di tassazione agevolata tutte le indennità o maggiorazioni di turno, o comunque le maggiorazioni retributive corrisposte per lavoro regolato in base a turni, posto che “l’organizzazione del lavoro a turni costituisce di per sé una forma di efficienza organizzativa” (circ. 59 del 22 ottobre 2008, paragrafo 6). In aggiunta, la misura agevolativa trova applicazione non soltanto nel caso in cui l’impresa adotti per la prima volta l’organizzazione del lavoro in turni, ma anche nel caso di ampliamento del sistema di turnazione, sempre che lo stesso sia volto a realizzare, come richiesto dallo stesso art. 2 del DL 93/2008, incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa. In linea con le richiamate circolari, l’Agenzia delle Entrate precisa che possono fruire dell’agevolazione anche le somme erogate a titolo di lavoro notturno ordinario, in ragione delle ore di servizio effettivamente prestate, se collegate ad incrementi di produttività e competitività dell’impresa. Lo speciale regime di tassazione opera, in tal caso, non soltanto per le indennità o le maggiorazioni erogate per prestazioni di lavoro notturno, ma anche per il compenso ordinario corrisposto per la stessa prestazione lavorativa; sono infatti soggette all’imposta sostitutiva le somme complessivamente erogate a qualsiasi titolo. Come risultato, il lavoratore turnista è assoggettato a un diverso regime fiscale a seconda che il proprio turno di lavoro ricada o meno durante l’orario diurno; in particolare, potrà usufruire del regime agevolato in relazione alle sole indennità o maggiorazioni di turno, qualora il turno ricada nella fascia diurna; viceversa, usufruirà dello speciale regime di tassazione in relazione all’intero compenso percepito (ordinario e maggiorazione) qualora presti lavoro notturno, così come definito dalla contrattazione collettiva. Il medesimo trattamento fiscale, “per coerenza logicosistematica”, deve essere esteso ai lavoratori non turnisti che prestano attività giornaliera normale nelle ore notturne e a coloro che occasionalmente si trovano a prestare lavoro notturno. Da ultimo, il regime agevolativo deve ritenersi applicabile, secondo l’Agenzia, alle erogazioni relative alle prestazioni di lavoro straordinario che presentino i requisiti di incremento di produttività e competitività richiesti dalla norma. Per ciò che attiene ai parametri quantitativi, l’agevolazione si applica per un importo massimo di 3.000 euro per il 2008 e di 6.000 euro per il 2009 e il 2010 in favore di titolari di reddito di lavoro dipendente il cui reddito nell’anno precedente non abbia superato un determinato importo. Con riferimento alle retribuzioni assoggettate a tassazione ordinaria negli anni precedenti, i lavoratori dipendenti possono far valere il più favorevole regime di imposizione sostitutiva presentando una dichiarazione integrativa o avvalendosi dell’istanza di rimborso di cui all’art. 38 del DPR 602/73. Spetta al datore di lavoro certificare l’importo sul quale non ha applicato l’imposta sostitutiva.
28/09/2010

Clausola "simul stabunt simul cadent", illegittima revoca di un amministratore

Quando attraverso l’applicazione della clausola “simul stabunt simul cadent” si perseguono finalità estranee a quelle sue proprie, ad esempio la revoca di un amministratore in assenza di giusta causa, sorge, in capo a quest’ultimo, il diritto al risarcimento del danno (Tribunale di Milano, sentenza depositata il 24 maggio 2010). In base alla clausola "simul stabunt simul cadent" la cessazione di taluni amministratori (maggioranza o minoranza) o anche solo di uno (o di un determinato amministratore) causa la cessazione dell’intero consiglio. Tale clausola è stata espressamente riconosciuta dall’art. 2386 commi 5 e 6 cod. civ. ed assolve alla funzione di impedire che il venir meno della composizione maggioritaria del consiglio di amministrazione eletto possa turbare gli equilibri interni originariamente voluti. Esigenza ritenuta di particolare rilevanza ed in grado di neutralizzare la regola stabilita dall’art. 2383 comma 3 c.c. In base a quest’ultima disposizione, infatti, l’amministratore può essere revocato dall’assemblea soltanto se alla base di tale decisione si ponga una motivazione, idonea a rappresentare una giusta causa di revoca; diversamente, allo stesso spetta il diritto al risarcimento del danno. Si intende, quindi, assicurare all’amministratore la stabilità dell’incarico e una giusta retribuzione, scoraggiando comportamenti intimidatori della maggioranza dei soci che potrebbero intaccarne l’indipendenza. Ciò premesso, si osserva come gli amministratori che accettano il conferimento dell’incarico in una società munita della clausola "simul stabunt simul cadent" accettano anche l’eventualità di una cessazione anticipata dall’ufficio senza necessità di alcuna motivazione circa la sussistenza di una giusta causa; che, invece, occorre per la revoca degli amministratori da parte dell’assemblea, pena il diritto al risarcimento dei danni. Ciò, peraltro, é vero solo fino a quando l’applicazione della clausola in questione avviene secondo buona fede, canone generale di valutazione dei comportamenti tenuti in adempimento degli obblighi di protezione nascenti dai rapporti obbligatori. Ne consegue l’impossibilità di utilizzare la clausola in questione in modo improprio e strumentale ovvero non per la realizzazione di un più incisivo controllo sulla composizione del CdA, nell’ottica della realizzazione dei fini sociali che hanno portato alla scelta di un particolare organo gestorio, ma per ottenere la revoca anticipata di uno o più amministratori aggirando le previste conseguenze onerose e le garanzie offerte dal confronto assembleare anche al solo fine di ottenere una congrua motivazione delle ragioni dell’anticipata risoluzione (cfr. App. Milano 6 aprile 2001). In particolare, quando la clausola "simul stabunt simul cadent" viene utilizzata dalla maggioranza degli amministratori allineata ai poteri forti della compagine sociale per simili finalità, opera come un negozio indiretto, teso all’utilizzo di un determinato modello negoziale per realizzare uno scopo che non corrisponde alla sua causa tipica, ma a quella di altro tipo negoziale, consentendo la realizzazione di un effetto simulato immeditato che non solo non sarebbe realizzabile mediante alcun tipo giuridico, ma che comunque corrisponderebbe ad un interesse giuridicamente non meritevole di tutela. L’uso strumentale della clausola non determina la nullità della revoca conseguita, ma espone la società, sempre libera di recedere dal rapporto che la lega all’amministratore, all’obbligo di risarcire il danno provocatogli dalla revoca della carica, sulla cui durata complessiva e predeterminata l’amministratore aveva riposto affidamento ed aspettative professionali meritevoli di adeguata tutela (cfr. App. Milano 6 marzo 2007).
27/09/2010

La rinuncia all'utile richiede la rideterminazione retroattiva del reddito

A breve distanza dalla ormai celebre sentenza n. 18702 del 13 agosto 2010 in materia di deducibilità dei compensi degli amministratori (si veda “Fino al 2003 compensi agli amministratori indeducibili” del 27 agosto 2010), la Cassazione torna ad occuparsi di un altro tema di un certo interesse professionale, vale a dire la rinuncia dei compensi da parte dei soci di una società. La Suprema Corte, nella sentenza n. 20026 di ieri, afferma che è legittimo da parte dell’Ufficio rettificare il reddito d’impresa relativamente all’anno in cui, secondo il principio di competenza, la società ha dedotto i predetti compensi. Gli effetti della sentenza sull’attuale disciplina non sono di immediata comprensione, in quanto la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su un avviso di accertamento relativo al periodo d’imposta 1987 e quindi in vigenza del DPR 597/73. Nello specifico, l’ufficio aveva recuperato a tassazione nel 1987 i compensi riconosciuti ai soci di una sas (amministratori e non) in quanto alla data dell’accesso (14 luglio 1989) gli stessi non erano stati ancora pagati. Risulta fondamentale aggiungere che nel 1988, nel verbale dell’assemblea di approvazione del bilancio relativo al 1987, i soci avevano espressamente rinunciato ai compensi questione. Proprio muovendo da tale constatazione (e non dal ritardo del pagamento), la Cassazione ha affermato che l’accantonamento aveva perso il carattere di debito sociale (per rimessione dei creditori) ed aveva assunto quello di utile non distribuito, pertanto non deducibile. A nulla rileverebbe poi, sempre secondo la Cassazione, il fatto che in una data successiva i compensi fossero stati effettivamente pagati, in quanto una successiva revoca della rinuncia non avrebbe potuto avere effetto ex nunc e quindi non avrebbe invalidato la ripresa fiscale dell’ufficio. Con riguardo alla normativa vigente all’epoca, la ricostruzione prospettata dalla Suprema Corte non sembra del tutto convincente, posto che, anche con il DPR 597/73, erano tassate le sopravvenienze attive derivanti dalla sopravvenuta insussistenza di costi od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti periodi d’imposta. Quindi l’ufficio avrebbe dovuto eventualmente rettificare il reddito del 1988, laddove la predetta sopravvenienza non fosse stata correttamente evidenziata nello stesso periodo d’imposta. Traslando la fattispecie all’attuale assetto normativo, le cose si complicano non di poco. Occorre infatti ricordare che l’art. 88 del TUIR:
- considera sopravvenienza tassata la sopravvenuta insussistenza di costi;
- esclude tuttavia la tassazione in caso di rinuncia dei soci ai crediti.
Tale formulazione, introdotta nel 1993, ha superato la precedente previsione normativa in base alla quale non era tassata solo la rinuncia dei soci ai crediti derivanti da precedenti finanziamenti.
Quindi, a differenza di quanto valeva per il 1987, oggi, in capo alla società, la rinuncia ai crediti dei soci è sempre fiscalmente irrilevante, anche quando trae origine da crediti di natura non finanziaria. Ora, in un caso come quello prospettato alla Cassazione, si avrebbe effettivamente un salto d’imposta che non sembra coerente con il sistema:
- la società deduce il costo relativo alla prestazione del socio per competenza (a meno che non sia un amministratore per il quale i compensi sono deducibili solo nell’esercizio in cui sono corrisposti);
- il socio non è tassato;
- il costo della partecipazione viene incrementato per effetto della rinuncia.
Per evitare tale distorsione, l’Amministrazione finanziaria (circ. 73/94) ebbe a precisare che la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare in capo al socio, anche mediante applicazione della ritenuta d’imposta. Questa ricostruzione, sebbene criticata dalla dottrina, risponde ad una comprensibile esigenza di eliminare la stortura appena descritta. E' certamente migliore della soluzione che sembra trasparire dalla sentenza in esame (rettifica del reddito della società nell’anno di competenza) ed è migliore del ricorso all’abuso del diritto, che autorizzerebbe a sindacare la congruità della dilazione di pagamento concessa dalla società. Perché, è bene sottolinearlo, nel caso in cui i soci non rinuncino espressamente al credito, la scelta di quando pagare deve essere rimessa all’autonomia delle parti e questo, almeno tra le righe, viene anche confermato dalla Cassazione nella sentenza di ieri.
23/09/2010

Accertamento induttivo legittimo anche se la contabilità è andata "bruciata"

In materia di IVA, il potere di procedere all’accertamento induttivo ex art. 55 del DPR 633/72 non assume carattere sanzionatorio del comportamento del contribuente, che costituisce il semplice presupposto fattuale dell’accertamento. Il ricorso a tale forma di accertamento è consentito, infatti, in tutte le ipotesi previste dalla citata disposizione, fondate sull’assenza, indisponibilità, mancata esibizione, inattendibilità della contabilità, che autorizza l’Ufficio ad una forma di accertamento che prescinde, in tutto o in parte, dalle scritture contabili. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione sentenza n. 20025 del 22 settembre 2010. Nel caso in questione, il ricorrente aveva impugnato una rettifica relativa ad IVA, sostenendo che non vi fossero le condizioni per procedere ad accertamento ai sensi dell’art. 55, comma 2, del DPR 633/1972. La documentazione contabile, infatti, non era stata esibita agli agenti verificatori per causa di forza maggiore, in quanto era andata distrutta in un incendio verificatosi la notte precedente all’ispezione. La richiesta veniva accolta solo in primo grado, posto che i giudici della Commissione Regionale respingevano la tesi del ricorrente, ritenendo legittimo l’operato dell’Amministrazione finanziaria. Veniva, così, investita della questione la Suprema Corte. Secondo il ricorrente, tra le ipotesi di cui all’art. 55 del DPR 633/72, non rientra quella di una “indisponibilità o inesistenza delle scritture per causa non imputabile al soggetto tenuto alla conservazione ed esibizione delle stesse”. Il medesimo ritiene, piuttosto, che in tutti i casi previsti dalla norma, l’indisponibilità delle scritture derivi da un’omissione cosciente e volontaria da parte del contribuente, che non dovrebbe sussistere in caso di “forza maggiore” che, al pari del caso fortuito, esclude l’imputabilità del fatto all’agente. Occorre precisare che l’art. 55, comma 2, n. 2 del DPR 633/72 prevede espressamente, ai fini dell’accertamento, il caso di chi omette di conservare le scritture contabili, condotta che costituisce un dovere per il contribuente. Il presupposto dell’accertamento concerne esclusivamente tale condotta negativa ed è indifferente – in quanto non richiesto dalla norma stessa – che l’omissione di conservazione da parte dell’onerato sia conseguenza di un’azione dello stesso, cosciente o volontaria. Ciò che rileva, secondo i giudici è, quindi, il fatto materiale dell’omessa conservazione, a prescindere dalla sussistenza di una responsabilità a qualunque titolo dell’obbligato in ordine al verificarsi dell’evento. La Corte conclude affermando che, anche se la documentazione contabile è stata distrutta da un incendio, del quale il contribuente non è responsabile, sussiste comunque il presupposto dell’accertamento induttivo, in forza della mancata conservazione delle scritture stesse. La conclusione è rafforzata, infine, dall’analogia delle norme in questione con la disciplina delle imposte dirette di cui all’art. 39, comma 2, lettera c) del DPR 600/73, in cui l’indisponibilità delle scritture contabili per causa di forza maggiore è espressamente presa in considerazione ai fini dell’accertamento induttivo.
23/09/2010

Valido il tirocinio «parallelo» da consulente del lavoro e commercialista

Il certificato di “compiuta pratica” da consulente del lavoro non può essere negato al professionista benché questi, nel corso dei due anni previsti per il relativo praticantato, abbia anche svolto il tirocinio per diventare commercialista. Lo ha deciso il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6998 depositata il 21 settembre 2010, confermando così l’orientamento espresso in primo grado dal TAR del Lazio. Nel caso in esame, una professionista si era vista precludere il certificato di compiuta pratica da consulente del lavoro, necessario per l’ammissione agli esami abilitativi: l’Ordine dei consulenti del lavoro di Venezia, infatti, aveva ritenuto causa ostativa al rilascio lo svolgimento parallelo, nel medesimo biennio, del tirocinio da commercialista. In primo grado, il ricorso della professionista era invece stato accolto dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio: secondo i giudici, il mero esercizio congiunto del doppio tirocinio, alla luce della normativa di settore, non fornisce di per sé un presupposto di “inconciliabilità” tale da escludere il compimento della pratica e la conseguente attestazione. Lamentando un’erronea applicazione della normativa di settore (in particolare, gli artt. 4 e 5 del DM 2 dicembre 1997, ossia il regolamento del tirocinio da consulente del lavoro), il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro (CNO) ha presentato ricorso in appello, spostando così la sentenza al Consiglio di Stato. Tenuto quindi conto della natura “a tempo parziale” dell’impegno richiesto, pari a un minimo giornaliero medio di 4 ore, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il “divieto [di cui al primo comma dell’art. 4, ndR] riguardi l’esercizio in concreto della pratica in concomitanza temporale con altri analoghi impegni di praticantato”. In altre parole, purché il tirocinante non manchi di dedicare quotidianamente, nell’arco dei due anni, una media minima di 4 ore allo svolgimento della pratica, nulla impedisce che – nel tempo restante – possa svolgere una seconda attività di praticantato professionale. Come aveva già osservato il Tribunale amministrativo, dunque, la contemporaneità del doppio tirocinio riguarda, in via esclusiva, “quelle forme di praticantato che comportino un impegno destinato effettivamente a sovrapporsi, sotto il profilo temporale, a quello richiesto per il tirocinio di consulente del lavoro”. Siccome, nel caso specifico, il ricorso del CNO era basato soltanto sull’assunto – contestato dai giudici – dell’illegittimità della pratica nelle due distinte attività professionali, in quanto “il praticante dovrebbe dedicarsi nel medesimo periodo all’apprendimento di una sola professione”, e dal momento che non è stata fornita alcuna prova della sovrapposizione temporale degli impegni, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello e dato conferma alla sentenza del TAR impugnata. I giudici hanno infine precisato che il praticante è tenuto a dimostrare di aver accumulato due anni di esperienza presso uno studio idoneo, per non meno di quattro ore giornaliere in media: in tal caso, il compimento della pratica non può essere rifiutato. A diverse conclusioni si dovrebbe giungere, invece, qualora quantità e qualità degli altri impegni assunti impedissero, nei fatti, il regolare raggiungimento dei suddetti requisiti.  Secondo il CNO, la decisione del TAR non aveva tenuto correttamente conto delle disposizioni contenute nel DM 2 dicembre 1997, che al primo comma dell’art. 4 recita: “Il praticantato non può essere svolto contemporaneamente per attività professionali diverse”. A parere dei giudici, il concetto di “contemporaneità” degli impegni dev’essere però interpretato in senso puntuale, “alla luce del quadro normativo d’insieme”. Il regolamento precisa, infatti, che “il praticantato, gratuito per sua natura e finalità, non esclude la contemporanea esistenza di un rapporto di subordinazione a tempo parziale” (art. 4, comma 2). Inoltre, “il periodo di pratica non può essere inferiore a due anni e deve essere svolto con diligenza, assiduità e con una frequenza minima di quattro ore medie giornaliere” (art. 5, comma 1).
23/09/2010

Redditometro in 4 mosse: dall’anagrafe tributaria al ruolo attivo dei Comuni

il nuovo redditometro sarà alquanto selettivo: non dovrebbe trattarsi di uno strumento di accertamento di massa, ma rappresenterà il fronte di attacco ai casi caratterizzati da numeri considerevolmente incongruenti, almeno stando alle risultanze delle banche dati del Fisco. Pertanto, assume interesse la futura operatività degli Uffici già completamente delineata da diverse disposizioni della manovra correttiva (DL 78/2010) tra di loro correlate: le norme di interesse, infatti, sono l’articolo 18 (partecipazione dei Comuni all’attività di accertamento tributario e contributivo), l’articolo 21 (comunicazioni telematiche alla Agenzia delle Entrate) ed ovviamente l’articolo 22 (aggiornamento dell’accertamento sintetico). La prima mossa per l’approccio dell’Ufficio al redditometro è ravvisabile nello scandaglio dell’anagrafe tributaria per la preventiva acquisizione di tutti gli elementi che è possibile reperire al fine di avviare una prima valutazione circa la posizione del contribuente: in tal senso è ragionevole ritenere che, nonostante il nuovo strumento fondi le sue presunzioni sulle spese, l’anagrafe tributaria verrà dragata in prima battuta per individuare la consistenza patrimoniale del contribuente. Sul versante delle “spese”, ferma restando l’incidenza di qualsiasi incremento patrimoniale che, come noto, è destinato a scaricare completamente i suoi effetti nell’anno in cui si è verificato, un aiuto di tutto rispetto verrà dall’attuazione del “moderno” elenco clienti e fornitori, previsto dall’articolo 21, inerente la comunicazione telematica delle operazioni rilevanti ai fini IVA di importo pari o superiore a 3.000 euro. D’altronde, anche la relazione illustrativa al DL 78/2010 non nasconde il fatto che i dati di prossima comunicazione consentiranno anche l’individuazione di spese e consumi di particolare rilevanza utili alla individuazione della capacità contributiva, in specie ai fini dell’accertamento sintetico. Una volta acquisita la mole di dati ritenuta sufficiente per l’avvio del controllo, per la seconda mossa entra in gioco l’articolo 22, il quale statuisce l’obbligo per l’Ufficio di convocare il contribuente, ex art. 32 del DPR n. 600/1973, a comparire di persona o a mezzo di propri rappresentanti per fornire dati e notizie riguardo l’accertamento nei propri confronti. Anche in questo caso l’Ufficio valuterà gli ulteriori elementi acquisiti, ed eventualmente anche le prime controdeduzioni del contribuente, e, ove ritenuto opportuno, darà seguito alla terza mossa, sempre delineata dal citato articolo 22 del DL 78/2010, ravvisabile nella convocazione del contribuente per l’avvio del rituale contraddittorio previsto dal DLgs. n. 218 del 1997. La quarta mossa vede il coinvolgimento del Comune di residenza del contribuente, complice la nuova partecipazione delineata dall’articolo 18 della manovra correttiva.
22/09/2010

Compensi agli amministratori, la Cassazione si riferisce al «vecchio» TUIR

La sentenza n. 18702 del 13 agosto 2010 sancisce l’indeducibilità, ma non riguarda i periodi d’imposta successivi al 2003. La sentenza della Corte di Cassazione n. 18702 del 13 agosto 2010, in materia di deducibilità dei compensi erogati agli amministratori delle società di capitali, sta suscitando preoccupazione nei contribuenti interessati. Pare quindi opportuno riprendere più compiutamente il ragionamento già espresso in precedenza ribadendo che la preoccupazione è circoscritta, in quanto la norma esaminata dalla Suprema Corte non è più in vigore. Infatti, i giudici di legittimità hanno affermato che il combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 62 del “vecchio” TUIR non ammette la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori di società di capitali, perché l’attività svolta dai medesimi è equiparabile a quella prestata dall’imprenditore. Tale impostazione è apparsa fin da subito assai criticabile e poco legata all’interpretazione letterale e sistematica delle norme; tuttavia, a distanza di più di 6 anni dalla riforma dell’IRES ad opera del DLgs. 344/2003, che ha riscritto ed integrato diverse norme del “vecchio” TUIR e introdotto nuovi regimi impositivi (si pensi al consolidato fiscale), non sono molti i contribuenti che potrebbero essere oggetto dell’interpretazione normativa proposta dalla Corte. Ciò in quanto, in materia di deducibilità dei compensi degli amministratori delle società di capitali, il “nuovo” TUIR prevede una norma specifica, la cui interpretazione non può rinvenirsi nelle considerazioni proposte dalla sentenza n. 18702/2010. Per i compensi degli amministratori, infatti, il “vecchio” art. 62 del TUIR presentava solo il seguente comma 3, riferito alle società di persone, per il quale “i compensi spettanti agli amministratori delle società in nome collettivo e in accomandita semplice sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti; quelli erogati sotto forma di partecipazione agli utili sono deducibili anche se non imputati al conto dei profitti e delle perdite”. La deducibilità dei compensi erogati agli amministratori delle società di capitali si rinveniva a seguito del richiamo operato dall’art. 95 comma 1 del “vecchio” TUIR, che consentiva di applicare la disciplina relativa alla determinazione del reddito d’impresa delle società di persone anche alle società di capitali. La controversa sentenza della Cassazione commenta proprio tale comma, ponendolo in relazione al precedente comma 2 dell’art. 62 citato, per il quale “non sono ammesse deduzioni a titolo di compenso del lavoro prestato o dell’opera svolta dall’imprenditore”. Precisamente, i Giudici sostengono che detta norma, “limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore di società di capitali: la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore”. Tuttavia, l’impianto normativo attuale si mostra molto diverso dopo le modifiche apportate dal DLgs. 344/2003. Il “nuovo” TUIR prevede una sezione specifica per l’individuazione dell’imponibile delle società di capitali. Riguardo all’art. 95, il quale ha accolto con modifiche e integrazioni il precedente disposto dell’art. 62 del “vecchio” TUIR, si osserva che: é stato eliminato il riferimento alla deducibilità dei compensi per l’attività di lavoro prestata dall’imprenditore individuale, probabilmente in quanto giudicato inutile o fuorviante laddove si disciplinano i soggetti IRES; é stato introdotto il comma 5, che dichiara deducibili i compensi erogati agli amministratori dei soggetti IRES, ponendo quale unica condizione (di carattere antielusivo) la “deducibilità per cassa” dei medesimi. Pertanto, è possibile concludere che la sentenza della Corte in parola non può essere applicata alla normativa attuale, in quanto si è limitata a giudicare la fattispecie secondo il tenore letterale di quanto vigente ante 2004, senza citare o commentare le disposizioni in essere.
28/09/2010

Niente sanzioni se lo scontrino non viene «ritirato»

In materia di sanzioni connesse all’obbligo di emettere lo scontrino fiscale, nel caso in cui lo stesso sia stato regolarmente emesso, ma il cliente lo abbia abbandonato all’interno del negozio, non risulta legittimo il PVC della Guardia di Finanza per mancata emissione dello scontrino stesso, nonché la conseguente sanzione irrogata dall’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate. E' quanto affermato dalla sentenza della C.T. Prov. Vercelli del 2 luglio 2010, n. 51. Nel caso in questione ad un contribuente veniva contestato l’omesso rilascio dello scontrino in quanto era stato abbandonato dal cliente sul bancone del negozio. Il contribuente chiedeva, innanzi alla Commissione, l’annullamento del PVC e delle relative sanzioni a seguito di palese ed errata applicazione dell’art. 6, comma 3, del DLgs. 471/97. L’Agenzia delle Entrate, invece, nelle controdeduzioni chiedeva il rigetto del ricorso rammentando come, in base alla L. 18 del 1983, lo scontrino fiscale debba essere “rilasciato” e non semplicemente “emesso”. Ciò, secondo l’Ufficio, comporterebbe, per il soggetto che emette lo scontrino, l’obbligo di consegnarlo materialmente al cliente al momento del pagamento del corrispettivo ovvero al momento della consegna del bene ceduto, se tale evento si verifica anteriormente al pagamento. Da quanto si evince dai giudici sembrerebbe, tuttavia, che lo scontrino “emesso” possa assimilarsi ad uno scontrino “rilasciato” nel caso in cui sia comunque stato consegnato all’acquirente. Il Collegio, ha, quindi, ritenuto fondato il ricorso del contribuente.
17/09/2010

Finanziamenti dei soci alla prova della presunzione sugli utili

Ai sensi dell’art. 47 comma 1 del TUIR: “indipendentemente dalla delibera assembleare, si presumono prioritariamente distribuiti l’utile dell’esercizio e le riserve diverse da quelle del comma 5 per la quota di esse non accantonata in sospensione di imposta”. Pertanto, anche se si delibera la distribuzione di riserve di capitale, si presume fiscalmente, senza possibilità di prova contraria, che s’intendono, prioritariamente e fino a capienza, distribuite le riserve di utili disponibili le quali, quindi, concorrono a formare il reddito dei soci sotto forma di dividendi. In altre parole, nel caso in cui la società distribuisca riserve di capitale ex art. 47 comma 5 del TUIR (ad esempio, riserve da sovrapprezzo azioni) essa dovrà specificare che, in mancanza di utili e di riserve di utili disponibili, la distribuzione non costituisce reddito tassabile; oppure dovrà specificare che, nonostante stia distribuendo civilisticamente riserve di capitale, posto che sono presenti anche riserve di utili disponibili, la distribuzione costituisce utile tassabile in capo ai soci. Ne consegue, quindi, che la presunzione in commento entra in funzione quando la società procede alla distribuzione di riserve di capitale secondo la fattispecie definita ai fini fiscali dal citato comma 5 dell’art. 47 del TUIR. Ed è proprio tale norma che equipara le riserve di patrimonio netto ai versamenti “fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale”. La presunzione non si applica in caso di restituzione ai soci di apporti per il mancato aumento di capitale sociale (versamenti in conto futuro aumento del capitale sociale), in quanto il versamento è soggetto a condizione risolutiva, in caso di successiva mancata delibera di aumento entro il termine convenuto dalle parti o fissato dal giudice, talché la somma versata dal socio si (ri)trasforma in debito connotando la natura del versamento sin dall’origine. Diverso è il caso dei finanziamenti, a titolo infruttifero o oneroso, erogati dai soci alla società, che costituiscono debiti soggetti all’obbligo di restituzione. Essi, infatti, non rientrano tra i versamenti in conto capitale o a fondo perduto, ma costituiscono mutui ai sensi dell’art. 1815 c.c. e pertanto, in caso di rimborso, non determinano l’attivazione della presunzione di cui all’art. 47 comma 1 del TUIR.
17/09/2010

L'emissione di fatture inesistenti punita a prescindere dall'effettiva evasione

La Corte di Cassazione (sentenza n. 26138 depositata l'8 luglio 2010), ha confermato la decisione con cui i giudici dei gradi precedenti avevano condannato l'amministratore di una S.r.l. per avere emesso fatture per operazioni inesistenti in favore di altra società, sempre da lui amministrata. L'imputato sosteneva di non poter essere ritenuto responsabile penalmente per il reato addebitatogli in quanto non si era concretizzata alcuna attività fraudolenta e l'operazione relativa alla fatturazione era stata successivamente effettuata. I giudici di Cassazione però hanno sentenziato che l'evasione dell'imposta non rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti e che per integrare il reato «é sufficiente che l'emittente di fatture si proponga il fine di consentire a terzi la evasione delle imposte sul reddito o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo consegua effettivamente l'evasione».
27/07/2010

IRAP: La proprietà dell'immobile non é presupposto per l’autonoma organizzazione

La Commissione regionale del Lazio in un’interessante sentenza (n. 372/01/10) ha precisato che il possesso di un immobile utilizzato per l’esercizio dell’attività professionale e il sostenimento dei costi per le spese condominiali e di riscaldamento non costituiscono, ai fini Irap, presupposto per l’esistenza dell’autonoma organizzazione. La vicenda trae origine da un ricorso presentato da un dottore commercialista al quale l’Agenzia delle Entrate aveva negato un rimborso Irap in quanto l’ammortamento e le spese relative all’immobile costituivano un’innegabile prova di autonoma organizzazione. In primo grado i giudici avevano dato ragione all’Amministrazione finanziaria negando il rimborso Irap al professionista in quanto non aveva sufficientemente dimostrato e spiegato gli importi, di una certa entità e consistenza, relativi alle spese di gestione dell’immobile. I giudici regionali invece hanno stabilito che sia i costi condominiali che quelli di riscaldamento non costituiscono, ai fini Irap, indici sufficienti per ritenere l’esistenza di una stabile organizzazione, peraltro la stessa Amministrazione finanziaria non aveva contestato né superato le prove offerte dal contribuente.
27/07/2010

Ristrutturazioni detraibili: Base imponibile dubbia per la ritenuta del 10%

Il nuovo obbligo di effettuare la ritenuta del 10% sulle opere di ristrutturazione e sugli interventi di risparmio energetico, introdotto dall’art. 25 del D.L. n. 78/2010 con decorrenza 1° luglio 2010, presenta ancora molti dubbi mancando una circolare esplicativa dell’Agenzia delle Entrate. In particolare, le maggiori perplessità sorgono sulla individuazione della base imponibile a cui applicare la ritenuta del 10% considerato che spesso la somma bonificata include l’Iva e le spese anticipate in nome e per conto del committente non soggetto al prelievo alla fonte. Considerato che la banca ricevente, in ragione degli attuali standard interbancari, non può conoscere come è strutturata la fattura spesso accade che la ritenuta finisce per essere calcolata su importi maggiori rispetto a quelli dovuti. Al contrario può essere assoggettata a un prelievo inferiore la prestazione pagata già assoggettata a un altro tipo di ritenuta come nel caso di prestazioni effettuate nei confronti di condomini o professionisti.
27/07/2010

Divieto di cumulo delle detrazioni d'imposta

Assonime, con la circolare n. 26/2010 del 20 luglio, fornisce importanti chiarimenti sul tema delle deduzioni, detrazioni e crediti d'imposta anche a commento di alcuni ultimi interventi da parte dell'Amministrazione finanziaria. In particolare, si precisa che non possono essere cumulate le detrazioni d'imposta del 55% con altre agevolazioni riconosciute, per i medesimi interventi di risparmio energetico, a livello comunitario, regionale o locale. Il contribuente, in attesa di ricevere tali contributi, potrà avvalersi della detrazione ma, al momento del riconoscimento degli stessi, sarà tenuto alla restituzione della quota già utilizzata in dichiarazione anche se non coperta da tali incentivi. La circolare interviene inoltre sul tema delle spese mediche sostenute nei casi di grave o permanente invalidità o menomazione. Si rileva che, quando tali spese vengano sostenute, in tutto o in parte, da un familiare ma la fattura venga intestata al paziente, affinché sia possibile detrarre la spesa il soggetto che l'ha effettivamente sostenuta dovrà integrare il documento annotando sullo stesso l'importo versato. In merito alla detrazione per gli interessi passivi pagati per la stipula di un mutuo per l'acquisto di un immobile adibito ad abitazione principale, il documento precisa che la detrazione potrà essere fruita anche dal contribuente che ha trasferito la propria dimora principale per motivi di lavoro.
23/07/2010

Concorso tra falsa fatturazione e truffa ai danni dello Stato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27541 depositata il 15 luglio, ancorché consapevole del contrasto giurisprudenziale sul tema, ha ritenuto che la falsa fatturazione può concorrere con la truffa ai danni dello Stato. Gli ermellini hanno infatti dovuto confermare la decisione di secondo grado, in quanto si riconduce a un principio già affermato da una precedente sentenza di annullamento con rinvio della Cassazione. Nel caso all’esame della Cassazione, alcune imprese avevano organizzato, con l’interposizione fittizia di imprese italiane, la nota frode carosello sfruttando il particolare regime Iva sugli acquisti intracomunitari. La Corte di appello aveva assolto gli imputati per il concorso dei due reati, ma la Cassazione, con la sentenza n. 6825/2007, annullando la decisione dei giudici di appello, riteneva che l’assoluzione era stata giustificata dal fatto che la truffa aggravata fosse in realtà commessa e contestata con la medesima condotta del reato tributario, mancando quindi l’elemento distintivo idoneo a differenziare le due condotte e giustificare il concorso effettivo. Contro questa decisione ricorrevano gli imputati ma la Cassazione con la sentenza dello scorso 15 luglio, rilevando l’impossibilità di discussione, ha confermato implicitamente il principio enunciato nella sentenza di annullamento.
22/07/2010

Agevolazioni fiscali per gli investimenti previsti dal contratto fra imprese

Con il maxi-emendamento al D.L. n. 78/2010, approvato al Senato, il Governo apre la strada agli accordi tra imprenditori prevedendo che gli utili destinati agli investimenti previsti da un programma inserito in un contratto di rete stipulato con altre imprese del settore non concorrerà alla produzione del reddito fino al 2012. Per usufruire delle agevolazioni fiscali il contratto di rete dovrà definire un programma comune per la realizzazione degli investimenti e istituire un fondo patrimoniale comune a cui destinare le quote di utili. Il contratto dovrà essere redatto con atto pubblico o scrittura privata autenticata, trascritto presso il Registro delle imprese e dovrà essere preventivamente asseverato da organismi espressione dell’associazionismo imprenditoriale e da organismi pubblici che saranno individuati con apposito decreto.
22/07/2010

Escluse anche le mini imprese e le micro imprese artigiane

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 15249, depositata in data 24 giugno 2010, ha disposto che è escluso da IRAP il piccolo imprenditore privo di autonoma organizzazione, condizione da accertare in base ai consueti criteri elaborati dalla giurisprudenza con riferimento agli esercenti arti e professioni. I giudici giungono a tale conclusione prendendo le mosse dalle sentenze n. 12108 e n. 12111 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, depositate in data 26 maggio 2009, con le quali si è affermato che l’assoggettamento a IRAP dell’attività esercitata dagli agenti di commercio e dai promotori finanziari è possibile soltanto in presenza del presupposto oggettivo d’imposta (autonoma organizzazione). La Suprema Corte con le richiamate sentenze, allineandosi al precedente dell’ILOR, ha osservato che non è la oggettiva natura dell’attività svolta a essere alla base dell’imposta, ma il modo - autonoma organizzazione - in cui la stessa è svolta a essere la razionale giustificazione di una imposizione sul valore aggiunto prodotto. Tale principio era stato fortemente ridimensionato dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 28 maggio 2010 n. 28/E, che lo ha ritenuto applicabile solo alle attività ausiliarie del commercio di cui all’art. 2195 c.c., intendendosi per tali “quelle che, prive di intrinseca autonomia funzionale, hanno come scopo tipico l’oggettiva agevolazione di altre attività”. La Corte con l’ordinanza in commento, confermando una decisione della CTR Emilia Romagna, ha invece affermato che i principi previsti per gli agenti e promotori, poiché è identica la questione, sono estensibili a tutti i soggetti che esercitano attività d’impresa. Così, nel caso di specie, viene considerato non soggetto a IRAP un artigiano elettricista che svolge la sua attività avvalendosi di limitati beni strumentali e senza dipendenti o collaboratori. Ugualmente, aderendo a tale impostazione, sarebbero esclusi da IRAP anche gli altri “piccoli” imprenditori (es. tassisti, idraulici, parrucchieri, ecc.) la cui attività è basata principalmente sul lavoro del titolare, analogamente al professionista o all’agente di commercio “non organizzati”.
La Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 15249/2010 ha esteso la non assoggettabilità a Irap anche alle micro imprese artigiane e commerciali. Si attende ora un intervento dell’Agenzia delle Entrate in merito, anche se con l’entrata in vigore del regime dei minimi nel 2009 c’era stata una certa apertura. A questo punto, con l'ordinanza della Cassazione, si apre uno scenario per una platea di contribuenti “non minimi” che hanno comunque realizzato ricavi inferiori a 30.000 mila euro ma che hanno continuato a pagare l’imposta regionale. Per questi contribuenti, in vista del pagamento del saldo delle imposte, prudenzialmente sarebbe opportuno versare il saldo dell’imposta regionale per poi chiedere il rimborso, anche se non in tempi rapidi, ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973. Diversamente si potrebbe invece compilare la dichiarazione Irap solo per quanto riguarda gli eventuali acconti versati e quindi esonerarsi dal tributo retroattivamente. Questa procedura però potrebbe portare a un accertamento con sanzioni che variano dal 100 al 200 per cento dell’imposta, con contestuale avvio di una procedura di contenzioso. Per quanto riguarda il modello Irap 2009 c’è ancora la possibilità di presentare una dichiarazione integrativa, oltre che procedere all’istanza di rimborso, nella quale si eliminano tutti gli importi che hanno portato all’imponibile evidenziando solo i versamenti effettuati che costituiranno un credito per il contribuente da chiedere a rimborso o addirittura rischiare di compensare con le altre imposte.
20/07/2010

Nuovi limiti alle compensazioni

Con l’approvazione del maxi emendamento, dal prossimo 1° gennaio, non sarà possibile per importi superiori a 1.500 euro compensare i crediti erariali in presenza di debiti iscritti a ruolo a titolo definitivo e per i quali è scaduto il termine di pagamento. In realtà, il testo dell’emendamento non distingue tra iscrizioni a ruolo a titolo definitivo o meno, però la rubrica dell’articolo che fa riferimento alla “preclusione alla autocompensazione in presenza di debiti su ruoli definitivi” fa ritenere che la norma si riferisca solo agli importi iscritti a ruolo a titolo definitivo. Per quanto riguarda la sanzione del 50%, in caso di utilizzo di crediti in presenza di debiti erariali superiori a 1.500 euro, la stessa non può essere applicata fino al momento in cui sull’iscrizione a ruolo pende contestazione giudiziale o amministrativa. Resta inteso che la sanzione non può comunque essere superiore al 50% di quanto indebitamente compensato.
16/07/2010

Redditometro on-line

Il Direttore centrale dell'accertamento ha annunciato che l'Amministrazione finanziaria metterà a disposizione dei contribuenti un software per consentire di verificare la tenuta del proprio reddito complessivo, con gli elementi indicatori della maggiore capacità contributiva a base del nuovo redditometro. Tramite tale applicativo sarà possibile conoscere in tempo reale l'entità del reddito presunto derivante dal possesso di quei beni significativi della propria capacità contributiva. E' stata inoltre confermata che la decorrenza delle modifiche apportate dall'articolo 22 del DL 78/2010 (c.d. Manovra correttiva sui conti pubblici) avrà effetto a partire dall'anno d'imposta 2009, quindi con Unico 2010. Il Direttore centrale dell'accertamento ha anche sottolineato la differenza tra l'accertamento sintetico, che si basa sull'equivalenza tra le spese sostenute e il reddito, e quello redditometrico. Mentre nel primo, così come avviene per gli studi di settore, la stima si fonda sui dati indicati spontaneamente dal contribuente, nel secondo, la ricostruzione del reddito avverrà con riferimento a dati in possesso del fisco tramite i data base a sua disposizione, quindi con una affidabilità e una capacità dissuasiva sicuramente più elevata rispetto agli studi di settore. Particolare attenzione è stata posta anche sull'istituzionalizzazione del contraddittorio preventivo obbligatorio e sull'abrogazione delle presunzioni in ordine ai cosiddetti incrementi patrimoniali. La sensazione che si é avuta é quella che l'Amministrazione finanziaria stia lavorando già da diverso tempo sul nuovo strumento di accertamento e nonostante ciò, al fine di non commettere errori di valutazione, la volontà sia quella di ponderare qualsiasi scelta che potrebbe compromettere l'utilizzo del redditometro fin dal sue prime fasi. Per tali motivi, come affermato dallo stesso Magistro, vi sarà un confronto ampio con le categorie professionali e le rappresentanze delle imprese.
16/07/2010

Manovra correttiva: Un'unica segnalazione certificata per aprire nuove attività

Con la conversione del D.L. n. 78/2010 basterà una semplice segnalazione certificata perché un'impresa possa aprire immediatamente la propria attività. Con una semplice segnalazione da parte del contribuente sarà possibile attivare in un giorno una nuova attività imprenditoriale, commerciale o artigianale. La nuova procedura (che si chiamerà Scia) sostituirà ogni atto di autorizzazione, licenza, permesso o nulla osta, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richiesti per l’esercizio dell’attività il cui rilascio dipende dalla verifica dei requisiti e per le quali non è prevista nessuna forma di contingentamento, con la sola esclusione degli atti imposti dalla normativa comunitaria a prevalente carattere finanziario. Lo scopo della norma è quello di velocizzare o meglio di abbattere i tempi di attesa; infatti, solo nel caso in cui la pubblica amministrazione accerti una carenza dei requisiti per i quali è stata presentata un'autocertificazione potrà bloccare l’attività ma comunque sempre nel termine massimo di trenta giorni dal ricevimento della segnalazione. Il contribuente in tal caso potrà sempre porre rimedio conformandosi alla normativa vigente. Eventuali dichiarazioni false saranno punite con la reclusione da uno a tre anni.
13/07/2010

Libro Unico del Lavoro: Obblighi per i compensi degli amministratori

La disciplina dei rimborsi spese da annotare nel Libro Unico del Lavoro è strettamente connessa, da un lato, ai soggetti che devono essere iscritti nel Libro medesimo, dall’altro dalla tipologia dei rimborsi stessi. Con riguardo al primo profilo è sufficiente considerare il dettato dell’art. 39, comma 1, del D.L. n. 112/2008 (conv. da L. n. 133/2008), che indica come soggetti da iscrivere nel Libro Unico “tutti i lavoratori subordinati, i collaboratori coordinati e continuativi e gli associati in partecipazione con apporto lavorativo”. La circolare n. 20/2008 di questo Ministero ha comunque precisato che “vanno esclusi dalla registrazione nel Libro Unico del Lavoro tutti quei soggetti che svolgano tali attività in forma professionale o imprenditoriale autonoma, quali, a titolo esemplificativo (...) amministratori, sindaci e componenti collegi e commissioni, i cui compensi sono attratti nei redditi di natura professionale”. Inoltre, stante i chiarimenti rinvenibili nel Vademecum del 05/12/2008 (sezione B, n. 2, 3 e 4), “in ottica semplificatrice” gli amministratori devono essere iscritti nel Libro Unico del Lavoro solo se non sono liberi professionisti e solo con riferimento al mese in cui avviene la eventuale percezione di compensi o rimborsi spese. Ne consegue, tra l’altro, che l’impresa che non occupa dipendenti non è nemmeno tenuta all’istituzione del LUL per registrare il solo amministratore che non percepisce compensi. Con riguardo ai rimborsi spese da documentare nel Libro Unico del Lavoro ai sensi dell’art. 39, comma 2 del D.L. n. 112/2008, si precisa che devono essere effettuate le annotazioni relative ai rimborsi spese anche se fiscalmente e contributivamente esenti, ovvero di tutte quelle somme sostenute dal lavoratore in occasione dello svolgimento della propria prestazione lavorativa nell’interesse esclusivo del datore di lavoro ed aventi, per questo motivo, un profilo strettamente restitutorio (rimborsi a piè di lista o alte spese rimborsabili fino all’importo massimo di € 15,49). Si precisa, altresì che, ai fini dell’individuazione dei rimborsi spese da indicare nel LUL, non conta il mezzo di pagamento con cui i rimborsi vengono effettuati, bensì la qualità delle spese rimborsate. Ciò significa che devono essere indicate le somme da rimborsare, sia forfetariamente che su base di indicazione analitica (note spese o rimborsi chilometrici), con esclusione, quindi, di tutti i rimborsi che si riferiscono a documenti intestati direttamente all’azienda (quali, ad esempio, fatture per spese sostenute dal lavoratore in nome e per conto dell’azienda o carte carburanti). L’esclusione di tali rimborsi spese dalla registrazione nel Libro Unico ha un puro intento semplificativo, vale a dire di non duplicare registrazioni che possono trovare opportuno riscontro in scritture obbligatorie di carattere fiscale. Rientrano tra le somme da registrare nel Libro obbligatorio anche i rimborsi cumulativi di spese effettuate dal dipendente in occasione di missioni collettive purché fiscalmente documentati a mezzo di fatture non intestate all’azienda, né nominativamente riferibili al singolo lavoratore. Da quanto sopra detto in merito ai rimborsi spese da registrare nel Libro Unico, si evince che gli stessi sono comunque legati alla posizione del soggetto al quale devono essere restituite le somme versate in occasione dello svolgimento della prestazione lavorativa. Se, infatti, si tratta di soggetti che devono essere iscritti nel Libro Unico, occorrerà solo valutare la tipologia dei rimborsi in questione per stabilire se debbano o meno essere registrati nel LUL. Altrimenti, come nel caso degli amministratori, occorrerà prima di tutto considerare se gli stessi svolgono una prestazione di natura o meno autonoma e se percepiscono compensi. Nel caso di amministratori i cui compensi non sono attratti nei redditi di natura professionale e che percepiscono rimborsi spese, questi ultimi dovranno essere registrati nel Libro Unico con riferimento al momento del rimborso e cioè della contabilizzazione effettiva di dette spese (rif. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Nota 6 luglio 2010 n. 27/2010).
08/07/2010

Sanità ed erogazioni liberali

Ammessa la deduzione, per le persone fisiche e i titolari di reddito d’impresa, delle erogazioni liberali a favore di ospedali universitari, purché tali strutture non esercitino in via esclusiva e/o prevalente attività commerciale. Lo ha stabilito l’Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 68/E del 7 luglio 2010, rispondendo a una istanza di interpello presentata da un’azienda ospedaliera, riguardo la deducibilità, per i soggetti eroganti, delle donazioni effettuate a favore dell’ente, secondo il contenuto degli articoli 10, comma 1, lettera l-quater) e 100, comma 2, lettera a), D.P.R. n. 917/1986. In particolare, l’Agenzia sostiene che, sebbene l’azienda ospedaliera e universitaria svolgesse attività rientranti nel novero di quelle commerciali, ai sensi dell’articolo 100, comma 2, lettera a) del Tuir, è necessario, comunque, privilegiare la sostanza e la finalità dell’erogazione.
08/07/2010

Modalità per regolarizzare le c.d. “case fantasma”

Per “case fantasma” si intendono i fabbricati costruiti e mai denunciati al Catasto (e che quindi risultano fiscalmente inesistenti) oppure i fabbricati in origine denunciati ma poi fatti oggetto di variazioni (planimetriche, d'uso, eccetera) non dichiarate, e che quindi risultano formalmente in uno stato diverso da quello in cui in effetti si trovano. Altri due sottoinsiemi rispetto a questi casi sono quello dei fabbricati non regolarmente accatastati perché abusivi e quello dei fabbricati costruiti (o modificati) con regolari abilitazioni comunali ma senza dichiarazione in Catasto delle opere eseguite. I titolari di diritti reali di immobili non accatastati o che hanno subito una variazione di consistenza o di destinazione urbanistica sono tenuti a presentare, ai fini fiscali, una dichiarazione di aggiornamento catastale entro il 31 dicembre 2010. La dichiarazione di aggiornamento catastale dovrà essere predisposta in relazione a immobili non censiti secondo le procedure previste dal predetto art. 2, comma 36, del citato D.L. n. 262/2006. Tali informazioni sono disponibili ai Comuni al fine dei relativi controlli di conformità urbanistico-edilizia attraverso apposito Portale telematico. L’omessa presentazione della dichiarazione di aggiornamento determina l’attribuzione di una rendita presunta da parte dell’Agenzia del Territorio sulla base di elementi tecnici forniti dai Comuni. tale documentazione riguarda anche gli immobili che hanno subito una variazione di consistenza ovvero di destinazione non dichiarata in Catasto. Il soggetto interessato, in caso di omissione di tale dichiarazione, subirà l’accertamento dell’Agenzia del Territorio che si avvarrà della collaborazione dei Comuni. I dati comunicati attraverso tale dichiarazione determinano effetti fiscali a partire dal 1° gennaio 2009. A seguito dell’accatastamento, l’obbligato viene a conoscere la nuova rendita catastale che, incrementata del 5%, costituisce il reddito imponibile da dichiarare ai fini IRPEF, mentre ai fini ICI la rendita si utilizza per il calcolo dell’imponibile, mediante i moltiplicatori di legge 100, per il gruppo A, a eccezione dell’A/10 (ufficio), B e C, mentre per il gruppo D (immobili produttivi, ricettivi, ricreativi, direzionali e commerciali e A/10) il moltiplicatore è 50. Va da sé che se l’obbligato presenta la denuncia al Catasto entro il 2010, per quest’anno dovrà versare l’ICI, con esclusione della prima casa e pertinenze annesse (box, tettoie, magazzini), mentre l’IRPEF dovrà essere versata con il 730 o l’Unico 2011. Nei casi più gravi, per chi non rispetta le prescrizioni in vigore dal 1° luglio 2010, la legge dispone addirittura la sanzione della nullità, prevedendo che il contratto non produca alcun effetto. Inoltre, i proprietari di edifici non dichiarati in Catasto dovranno regolare la propria posizione entro il 31 dicembre 2010. Nel caso in cui gli stessi non sanino la propria posizione, sarà l’Agenzia del Territorio che effettuerà l’accatastamento a partire dal 1° gennaio 2011. Diversamente da quanto era previsto nelle bozze del decreto legge, non ci sono sconti fiscali per chi si adegua. Unico vantaggio dovrebbe essere il mancato pagamento degli oneri per l'accatastamento in surroga (stimabili in circa 1.000 euro di media) e un'applicazione mite delle sanzioni catastali (che vanno da 258 a 2.066 euro a seconda della gravità del caso). Allo scopo di contrastare gli “immobili fantasma”, il Direttore dell’Agenzia delle Entrate con il provvedimento del 25 giugno 2010 ha aggiornato i moduli, tutto ciò allo scopo di individuare in modo più facile i dati catastali richiesti dal D.L. n. 78/2010. E' stato, quindi, rinnovato il Modello 69, che oltre a una nuova impostazione grafica si è arricchito del Quadro D - Dati degli immobili, attraverso il quale comunicare i dati catastali dei beni immobili situati nel territorio dello Stato, oggetto di contratti di locazione, affitto e comodato. Si segnala che il modello dovrà essere presentato all’Agenzia delle Entrate per le richieste di registrazione di contratti di locazione, affitto e comodato di beni immobili effettuate a partire dal 1° luglio 2010. La novità principale consiste però nell’introduzione del Modello CDC, che sarà utilizzato per la comunicazione dei dati catastali relativi a beni immobili oggetto di cessione, risoluzione e proroga di contratti di locazione o affitto già registrati al 1° luglio 2010. Il documento deve essere presentato in forma cartacea all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate presso il quale è stato registrato il contratto entro 20 giorni dalla data del versamento attestante la cessione, risoluzione o proroga. La trasmissione può avvenire anche per via telematica contestualmente al versamento. Si ricorda, come anticipato precedentemente, che la mancata o errata indicazione dei dati catastali è considerata fatto rilevante ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro ed è punita con la sanzione prevista dall’art. 69 del D.P.R. n. 131/1986 nella misura tra il 120 ed il 240 per cento dell’imposta dovuta per la registrazione dell’atto.
06/07/2010

Nuove regole per i contratti di affitto e per le cessioni di immobili

La Manovra 2010 (D.L. n. 78/2010) ha stabilito che, a decorrere dal 1° luglio 2010, all’interno dei contratti di locazione e cessione di immobili dovranno essere inseriti i dati catastali. La Manovra 2010 contiene, tra le varie misure attivate per contrastare l’evasione fiscale e contributiva, nuove norme in materia di immobili non registrati presso i competenti Uffici catastali. Più precisamente è stato previsto che:
- dal 1° luglio 2010: i contratti d’affitto devono contenere anche i dati catastali;
- entro il 31 dicembre 2010: i soggetti titolari di diritti reali su immobili non censiti (o non regolarmente censiti) presso il catasto dovranno provvedere a presentare una formale dichiarazione di aggiornamento catastale.

Più in particolare, in base all’art. 19, comma 15 del D.L. n. 78/2010, le richieste di registrazione presentate a decorrere dal 1° luglio 2010 di contratti, scritti o verbali, di locazione o affitto di beni immobili esistenti sul territorio dello Stato, nonché le relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite, devono contenere anche l’indicazione dei dati catastali degli immobili. La norma si applica sia ai fabbricati che ai terreni, nonché ai contratti di locazione di azienda il cui valore complessivo sia costituito per più del 50 per cento dal valore normale dei fabbricati, soggetti a registrazione in base all’art. 35, comma 10-quater del D.L. n. 223/2006 come convertito dalla legge n. 248/2006. Non é chiaro se il nuovo obbligo “scatti” anche in occasione dei rinnovi annuali relativi ai contratti di durata pluriennale. Sul punto sarebbe auspicabile un chiarimento da parte dell’Amministrazione finanziaria. Non è superfluo ricordare che il nuovo obbligo riguarda sia le richieste di registrazioni presentate con il modello cartaceo, sia quelle presentate in via telematica. La mancata o errata indicazione dei dati catastali è considerata fatto rilevante ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro ed è punita con la sanzione prevista dall’art. 69 del D.P.R. n. 131/1986 nella misura tra il 120% ed il 240% dell’imposta dovuta per la registrazione dell’atto.
La Manovra 2010 ha integrato l'
articolo 29 della legge n. 52/1985 in materia di trasferimenti immobiliari, aggiungendo il comma 1-bis il quale prevede che gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi, relativi al trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di diritti reali su fabbricati già esistenti dovranno contenere, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale delle unità immobiliari urbane (Comune, Foglio, particella e subalterno), il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atto dagli intestatari, della loro conformità con lo stato di fatto. Inoltre, la legge prevede, a pena di nullità, una dichiarazione degli intestatari circa la conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. Tale procedura, non dovrebbe riguardare il conferimento di beni a fondi patrimoniali, l'accettazione di eredità, la fusione, la scissione o la trasformazione di società e gli atti di cancellazione delle ipoteche. Inoltre, sempre secondo il dettato normativo, il notaio, prima della stipula dei predetti atti, dovrà verificare la corrispondenza delle intestazioni catastali con quelle risultanti dai Registri immobiliari, ma nel caso non dovessero risultare coerenti, non è più prevista l'impossibilità a stipulare il rogito, come appariva nella prima bozza del testo ma, più sensatamente, in questi casi il notaio provvederà all'allineamento delle intestazioni dopo la stipula, in sede di predisposizione della domanda di voltura catastale, citando nell'apposita sezione del "Modello unico informatico" o del programma "Volture", fornito dall'amministrazione relativa, gli estremi degli atti pregressi non registrati. Le nuove disposizioni non valgono per gli atti concernenti terreni privi di edificazione, qualsiasi ne sia la destinazione e per i fabbricati in corso di costruzione, in quanto la nuova norma parla di fabbricati già esistenti.
06/07/2010

Aliquote previdenziali dei professionisti

Dal 2011 per alcune categorie di professionisti ci sarà un rialzo dell’aliquota relativa al contributo integrativo. Per gli avvocati e i geometri già dal saldo relativo all’anno 2009 ci sarà il rialzo. Per i geometri si passerà dal 10,50 all’11%, mentre per gli avvocati si passera dall’12 al 13 per cento. Dal 2010, inoltre, tutti gli iscritti alla cassa avvocati dovranno versare un contributo soggettivo modulare dell’1% del reddito professionale netto mentre il contributo integrativo è aumentato dal 2 al 4%. Gli ingegneri e gli architetti ancora per quest’anno verseranno il 10%, mentre le aliquote soggettive sono già lievitate all’11,5% che a regime nel 2013 saliranno al 14,5%. Per i notai il contributo mensile, calcolato sul valore del repertorio notarile del mese precedente, è passato dal 28 al 30%. Infine per i consulenti del lavoro sono state introdotte fasce di contribuzione che considerano l’anzianità di iscrizione.
05/07/2010

Studi di settore evoluti validi anche per il passato

La circolare n. 34/2010 ha fornito indicazioni in merito all’utilizzo degli studi di settore, dei parametri e degli indicatori di normalità economica. In linea con quanto statuito dalla Corte di Cassazione, la circolare precisa che in sede di accertamento è possibile utilizzare gli studi di settore evoluti se più favorevoli al contribuente. La circolare, richiamando quanto già espresso nella circolare n. 23/E del 2006, al paragrafo 2.1, evidenzia la necessità che in sede di contraddittorio venga valutato caso per caso l’eventuale accoglimento della richiesta avanzata dal contribuente, verificando se il nuovo studio evoluto sia in grado di analizzare la posizione del contribuente anche per gli esercizi precedenti. L’unico limite posto dall’Amministrazione è la non applicabilità per il passato dei correttivi congiunturali che tengono conto della crisi economica del 2009. Per quanto riguarda i 69 studi di settore evoluti è da evidenziare come la nuova valutazione dell’impatto del lavoro dei soci amministratori è basata sulla percentuale di lavoro prestato e non più sulle spese sostenute per la remunerazione dell’attività da essi prestata. Per quanto riguarda gli indicatori di normalità economica, che rappresentavano all’interno degli studi di settore delle presunzioni semplicissime, sostituiscono in toto quelli di prima generazione e influenzano direttamente l’individuazione del valore puntuale di riferimento. Per quanto riguarda i parametri, la circolare invita gli uffici periferici a tenere conto che gli stessi possono risultare inattendibili in quanto risentono in modo elevato della crisi economica.
05/07/2010

Maggiorazioni Irap e addizionale Irpef, in aumento in quattro regioni

Il Tavolo per la verifica degli adempimenti e il Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, nelle riunioni del 19 e 20 maggio 2010, con riferimento alla verifica dei risultati d’esercizio 2009, hanno constatato per le regioni Lazio, Campania, Molise e Calabria la sussistenza delle condizioni per l’applicazione delle disposizioni recate dall’articolo 2, comma 86, della legge 191/2009, secondo le procedure di cui all’articolo 1, comma 174, della legge 311/2004. Pertanto, per l’anno d’imposta 2010, nelle suddette regioni si applicano le maggiorazioni dell’aliquota dell’imposta ragionale sulle attività produttive nella misura di 0,15 punti percentuali e dell’addizionale regionale all’IRPEF nella misura di 0,30 punti percentuali, rispetto al livello delle aliquote vigenti.
02/07/2010

Ritenuta 10% su ristrutturazioni, recupero edilizio, riqualificazione energetica

Con la Risoluzione 30 giugno 2010, n. 65/E in attuazione dell’art. 25 della Manovra economica (D.L. 31 maggio 2010, n. 78) le banche e le poste dovranno operare una ritenuta del 10% a titolo d'acconto sull'imposta dei redditi dei beneficiari, con obbligo di rivalsa, all'atto dell'accreditamento dei pagamenti disposti dai contribuenti per beneficiare di oneri deducibili o per i quali spetta la detrazione d'imposta. Le banche e le poste dovranno rilasciare al beneficiario del bonifico la certificazione delle ritenute d'acconto operate e procedere alla loro indicazione nel modello 770. E' il caso, quindi, degli importi bonificati dai clienti ai loro fornitori per il pagamento delle spese relative a interventi di recupero edilizio oppure relativi a interventi di risparmio energetico sui quali l'intermediario dovrà applicare tale ritenuta. La norma è stata introdotta sulla spinta creatasi a seguito dei numerosi accertamenti fiscali che hanno permesso di scoprire vasti fenomeni di frode ai danni dell'erario. Si verifica, infatti, che da un lato il cliente esercita il diritto alla detrazione mentre, dall'altro, il fornitore non emette fattura. Per il contribuente nulla è cambiato: continuerà a pagare tramite bonifico bancario o postale, riportando i dati identificativi del beneficiario e la causale del versamento, le stesse somme che godono delle detrazioni del 36 o del 55 per cento. Le somme trattenute dovranno essere versate all'erario utilizzando il codice tributo 1039.
01/07/2010

Da domani scattano i nuovi adempimenti

Dal prossimo 1° luglio contribuenti e professionisti saranno chiamati a un’ulteriore prova di forza dettata dai numerosi adempimenti che sono stati introdotti in materia fiscale col D.L. n. 78/2010. Scatta da domani, infatti, l’obbligo di comunicazione dati Iva, in via telematica, delle operazioni di importo non inferiore a 3.000 euro, anche se modalità e termini devono ancora essere stabiliti. Per gli immobili sarà necessario, a pena di nullità, indicare nell’atto di compravendita i dati catastali e allegare planimetria e attestazione di conformità dei dati riportati in catasto, sottoscritta dal proprietario.In materia di affitti e locazioni debuttano il “modello 69” ed il “modello CDC”: il primo, da compilare all’atto della prima registrazione, contiene l’indicazione dei dati catastali identificativi dell’immobile oggetto del contratto; il secondo è da utilizzare in caso di cessione, risoluzione o proroga, al fine di raccogliere le informazioni relative agli immobili locati antecedentemente alla data del 1° luglio 2010. Al via domani anche le comunicazioni per le operazioni effettuate con soggetti operanti nei paesi black list e l’obbligo a carico di banche e Poste Italiane di applicare la ritenuta del 10% sull’importo dei bonifici pagati, relativamente alle spese che danno diritto a detrazioni o deduzioni. Infine, sempre, da domani, è previsto l’aumento dei pedaggi autostradali.
30/06/2010

Spese di vitto e alloggio con limiti

Il D.L. n. 112/2008 ha introdotto, a partire dall’anno di imposta 2009, la deducibilità al 75% delle spese di vitto e alloggio (articolo 109 del Tuir) sostenute dai professionisti, limitazione che, tuttavia, deve essere incastrata con le altre presenti nel Testo Unico, in particolare all’articolo 54. Si tratta della deducibilità entro il limite del 2% per le spese per alberghi e ristoranti, dell’1% per le spese di rappresentanza, e del 50% per le spese di partecipazione a convegni e corsi di aggiornamento professionale, comprese le relative spese di viaggio e soggiorno. Se per le spese di vitto e alloggio la combinazione tra Tuir e D.L. n. 112/2008 non ha creato problemi di applicazione, secondo quanto sostenuto dall’istituto di ricerca dei dottori commercialisti nella circolare n. 9/IR/2009, differenze sono emerse in merito al trattamento di rappresentanza e aggiornamento professionale, rispetto al contenuto della circolare n. 53/E. I dottori commercialisti sostengono, infatti, che tali spese hanno già una deducibilità ridotta, ex articolo 54 Tuir, e dunque per le stesse non può operare un’altra riduzione, pari al 75% quale applicazione di una regola generale di ordine prioritario. Al contrario sono esenti da limitazioni le spese per vitto e alloggio che sono sostenute per trasferte al di fuori del territorio comunale, da dipendenti e collaboratori del professionista, e quelle sostenute dal committente, sempre per conto del professionista. Infine, sono integralmente deducibili, e dunque vanno indicate nel rigo RE15, colonna 1, le spese per le quali il fornitore ha emesso fattura intestata al committente, con l’indicazione del professionista che ha utilizzato il servizio e per le quali quest’ultimo emetterà fattura al committente. Si ricorda inoltre che dal disposto normativo dell'articolo 95.3 del Tuir le spese di vitto e alloggio sostenute per le trasferte effettuate fuori dal territorio comunale dai lavoratori dipendenti e dai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (quindi anche dagli amministratori) sono ammesse in deduzione per un ammontare giornaliero non superiore ad euro 180,76; il predetto limite e' elevato ad euro 258,23 per le trasferte all'estero. Se il dipendente o il titolare dei predetti rapporti sia stato autorizzato ad utilizzare un autoveicolo di sua proprietà ovvero noleggiato al fine di essere utilizzato per una specifica trasferta, la spesa deducibile é limitata, rispettivamente, al costo di percorrenza o alle tariffe di noleggio relative ad autoveicoli di potenza non superiore a 17 cavalli fiscali, ovvero 20 se con motore diesel.
28/06/2010

Valenza fiscale degli incassi dei professionisti

Nella circolare n. 38/E, l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcuni chiarimenti in merito al principio di cassa, punto fondamentale per la determinazione dei redditi dei professionisti. Quest’anno il problema è stato preso in considerazione anche da Gerico: nel calcolo è presente un correttivo ad hoc che, in caso di non congruità del contribuente, considera l’incidenza del ritardo degli incassi. Poiché il Testo Unico non disciplina l’esatto momento in cui incassi e pagamenti hanno incidenza da un punto di vista fiscale, la circolare ha chiarito che per quanto riguarda gli incassi avvenuti con assegno, vale la data della consegna dello stesso, che ovviamente deve risultare dal titolo. A nulla rileva, dunque, la data di versamento. Mentre per i bonifici, vale la data disponibile, ossia quella in cui la somma accreditata può essere effettivamente utilizzata dal ricevente. Eventuali problemi relativi alla certificazione delle ritenute d’acconto, in sede di controllo formale della dichiarazione, potranno essere superati senza problemi con la dimostrazione del disallineamento tra incasso e ordine di pagamento.
28/06/2010

L'accertamento deve essere sempre motivato a pena di nullità

Al fine di garantire il diritto di difesa del contribuente, l'atto di accertamento deve essere fornito di adeguata motivazione, coerente sulla base di ciò che viene contestato e delle disposizioni normative che l'amministrazione ritiene di applicare. Se ciò non avviene l'accertamento è nullo. Infatti, solo se si conosce la norma che l'amministrazione finanziaria ha ritenuto di applicare si può stabilire se tale scelta sia stata corretta e quindi può essere garantito il diritto di difesa. La Cassazione, con la sentenza n. 25197 del 30 novembre 2009, ha precisato che l'indicazione della motivazione dell'avviso risponde all'esigenza di rispettare il principio di informazione e collaborazione. In tale senso l'atto deve essere univoco: i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche possono essere anche plurimi ma non devono essere contraddittori. Nella pratica si verificano talvolta situazioni in cui il contribuente può difendersi proprio eccependo la contraddittorietà se non la totale mancanza della motivazione. Inoltre, sempre secondo la Cassazione, l'atto impositivo, rappresentando la conclusione di un procedimento amministrativo in cui viene espressa una pretesa da parte dell'erario, dovendo essere conforme alla legge, può basarsi su elementi concorrenti, ma non su dati contrastanti. Il compito della motivazione è proprio quello di fare conoscere al destinatario il perché viene esercitato un certo potere. E la coerenza della motivazione concerne anche il rapporto tra accertamento e sentenza. La Cassazione ha infatti ritenuto nulla, con la sentenza n. 12557 del 21 maggio 2010, la pronuncia della commissione regionale che aveva accolto le ragioni dell'ufficio appellante per una causa petendi diversa da quella fatta valere in appello, poiché la stessa conteneva una qualificazione giuridica dei fatti diversa rispetto a quella prospettata dall'Amministrazione nell'atto impositivo.
28/06/2010

Bonifici per oneri deducibili e detraibili: Ritenuta del 10% al buio

Partenza a breve e con handicap per la ritenuta del 10% sui bonifici bancari e postali relativi ai pagamenti degli oneri detraibili e deducibili: l'obbligo entra in vigore il prossimo 1° luglio, ma mancano indicazioni sulle tipologie e sulle modalità applicative. Con l'art. 25, del decreto legge 31/05/2010 n. 78, é stato previsto l'assoggettamento alla ritenuta di acconto, da scomputare dalle imposte dovute sul reddito, delle somme ricevute dai beneficiari mediante bonifici effettuati dai contribuenti che vogliono godere della deducibilità e/o della detraibilità degli oneri. Gli intermediari finanziari (banche e poste) dovranno trattenere la quota del 10% dell'introito, al momento dell'accredito sul conto del beneficiario, con obbligo di rivalsa, dei bonifici disposti dai contribuenti per beneficiare di oneri deducibili (art. 10 del Tuir) o detraibili (art. 15 del Tuir). Pertanto, ancorché la movimentazione più consistente sia attualmente quella dei pagamenti relativi alle detrazioni per le ristrutturazioni edilizie (36%) e per il risparmio energetico (55%), saranno toccati dalla nuova disposizione anche i bonifici inerenti anche altri oneri, come le erogazioni liberali a favore delle onlus e le spese sanitarie. Posta la necessaria conferma di tutti gli adempimenti a carico degli istituti finanziari citati, si é ancora in attesa del provvedimento dirigenziale, previsto dall'ultimo periodo dell'articolo 25 in commento, necessario ad identificare le tipologie degli oneri assoggettati alla disposizione e le modalità di esecuzione degli adempimenti connessi a tale obbligo (certificazione, dichiarazione). Infatti, il sostituto (banca o posta) sarà costretto, oltre a effettuare la ritenuta, a rilasciare le certificazioni di avvenuto versamento che il beneficiario utilizzerà per lo scomputo dalle imposte determinate in sede dichiarativa, pena l'applicazione delle sanzioni amministrative. La ritenuta sarà versata dal sostituto, entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui la stessa é stata operata, anche in compensazione.

Ritenuta del 10% sui bonifici: problematiche emergenti
Decorrenza L'obbligo scatta dall'1/7/2010 ma si è ancora in attesa della emanazione del provvedimento dirigenziale che individui tipologie e le modalità di esecuzione degli adempimenti
Ambito Bonifici effettuati dai contribuenti necessari per ottenere la detrazione degli oneri detraibili e deducibili, comprese donazioni e erogazioni liberali a favore di onlus, spese mediche e quant'altro
Gettito Il servizio del bilancio del Senato ritiene sovrastimato e non motivato il gettito previsionale, per effetto della quantificazione degli incrementi nella misura del 20% rispetto agli importi dell'anno 2012 dell'agevolazione per il bonus sulle ristrutturazioni edilizie
Evasione La disposizione determina la riduzione delle liquidità delle imprese committenti o destinatarie delle erogazioni che può ridurre taluni soggetti a entrate (o rientrate) in attività sommerse
Natura La ritenuta ha la natura di acconto delle imposte sui redditi e non è un vero e proprio incremento di gettito, ma una mera anticipazione dell'esborso da parte del contribuente
Rivalsa Mancano i chiarimenti relativi alla possibilità che il beneficiario del pagamento soggetto a ritenuta possa rivalersi solo al momento della determinazione del proprio reddito o anche in compensazione
 
28/09/2010

La deducibilità del trattamento di fine mandato (Tfm)

Il Tfm é una indennità che l'impresa si impegna a corrispondere agli amministratori alla scadenza del mandato. Come per il compenso, deve essere preventivamente stabilita e determinata dall'atto costitutivo della società o dall'assemblea dei soci. L'Agenzia delle Entrate, al fine della deducibilità del relativo costo secondo le regole della competenza economica, richiede l'obbligo della data certa della delibera anteriore all'inizio del rapporto. Contrariamente, la deduzione del costo accantonato avverrà nell'anno di effettiva erogazione della stessa con la necessità di procedere a una variazione in aumento nella dichiarazione dei redditi e rinviare la deduzione fiscale al momento dell'effettiva percezione dell'indennità da parte dell'amministratore. Dal punto di vista fiscale, il trattamento di fine mandato é disciplinato dall'art. 105, comma 4, del Tuir il quale rinvia all'indennità di cui all'art. 17, comma 1, lettera c). Quest'ultimo articolo prevede la possibilità di applicare in capo al percipiente la tassazione separata sulle somme ottenute a seguito della cessazione del rapporto di amministratore a condizione che il diritto all'indennità risulti da atto avente data certa anteriore all'inizio del rapporto. Al fine di stabilire se l'atto ha data certa, le Entrate, con la circolare n. 10/E/2007, hanno stabilito che si possa tenere conto di uno dei seguenti eventi: la formazione di un atto pubblico; l'apposizione di un'autentica, il deposito del documento o la vidimazione di un verbale, in conformità alla legge notarile; la registrazione o produzione del documento a norma di legge presso un ufficio pubblico; il timbro postale idoneo a conferire carattere di certezza alla data dell'atto quando lo scritto faccia corpo unico con il foglio sul quale il timbro stesso risulti apposto; l'invio del documento a un soggetto esterno come, ad esempio, nel caso di un organismo di controllo. Non pare, invece, essere stata presa in considerazione la possibilità, contenuta nella norma di comportamento n. 125/1995 dell'Associazione dei dottori commercialisti di Milano, che considerava valida a certificare la data certa la vidimazione notarile del libro verbale delle adunanze dell'assemblea dei soci su cui verrà poi stampato il verbale con cui viene previsto il Tfm.
25/06/2010

Sponsorizzazioni senza limiti

Con la risoluzione n. 57/E del 23 giugno 2010 l’Agenzia delle Entrate ha precisato che la società che effettua pubblicità o sponsorizzazioni superiori a 200 mila euro verso società o associazioni sportive dilettantistiche può dedurre l’eccedenza rispetto a 200 mila euro se il contratto ha tutti i requisiti di una sponsorizzazione o di una prestazione pubblicitaria. Potranno essere considerate spese di pubblicità, deducibili nell’esercizio di sostenimento e nei quattro successivi (art. 108, comma 2 del Tuir) solo se la natura del rapporto contrattuale presenta i requisiti formali e sostanziali di un rapporto di sponsorizzazione o di un’altra prestazione pubblicitaria. In base all’art. 109 del Tuir tali costi sono deducibili se presentano i requisiti della competenza, della certezza del costo, dell’oggettiva determinabilità della spesa e dell’inerenza all’attività.
24/06/2010

Dichiarazioni 2010: Sanzioni elevate nel caso di omissione del quadro RW

Quest’anno assume particolare rilevanza nel Modello Unico il quadro RW relativo al monitoraggio fiscale dei capitali detenuti all’estero. Nel quadro vanno in ogni caso dichiarati gli immobili e le attività finanziarie mentre i titoli emessi in Italia ma acquistati all’estero vanno riportati solo nel caso in cui siano soggetti a plusvalenza da realizzo. L’omissione del quadro RW è soggetta a sanzioni elevate (dal 5 al 25% degli importi omessi e dal 10 al 50% per le omissioni relative alle sezioni II e III) pertanto in caso di dubbio è consigliabile comunque indicare i capitali posseduti. Ad esempio, in presenza di beni immobili situati all’estero e soggetti a usufrutto, la sezione 2 del quadro RW deve essere compilata dall’usufruttuario. Deve essere inoltre segnalato il saldo di conto corrente detenuto all’estero per le movimentazioni superiori a 10.000 euro (sez. III del quadro RW). Nel caso di possesso di partecipazioni in società di capitali all’estero, qualora il contribuente abbia omesso di presentare il quadro RW in Unico 2009 e non abbia aderito allo scudo fiscale, sarà possibile effettuare il ravvedimento operoso per l’anno 2008.
24/06/2010

Restano esclusi dal test del Rol gli interessi sui debiti commerciali

L'Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 38/E di ieri, ha precisato che gli interessi passivi applicati sulle dilazioni di debiti commerciali sono sempre esclusi dal Rol, sia se impliciti sia se esplicitamente fatturati dal fornitore. Un ulteriore chiarimento riguarda gli eventuali prestiti concessi dalla società ai dipendenti: gli interessi attivi su tali finanziamenti si considerano nel conteggio degli oneri finanziari deducibili. Le Entrate concedono un'altra apertura in merito alle modalità di recupero degli interessi non dedotti negli esercizi precedenti in quanto eccedenti il tetto previsto dalla legge. Sarà ora possibile, in presenza di interessi attivi superiori a quelli passivi dell'anno, poter utilizzare tale eccedenza per dedurre esuberi di oneri finanziari indeducibili riportati da esercizi precedenti. Nella circolare viene ribadita l'indeducibilità anche ai fini Irap della quota dei leasing immobiliari riferita al valore di sedime dell'area ove insiste il fabbricato, introducendo un'eccezione al principio di correlazione tra l'imponibile delle società di capitali e le risultanze del conto economico.
24/06/2010

Studi di settore: Cambia l’impatto di soci e amministratori

Leggendo la circolare n. 34/E dell’Agenzia delle Entrate e le istruzioni degli studi di settore 2010, ci si rende conto che per 61 su 69 studi evoluti dell’anno 2009 è cambiata la taratura della congruità rispetto alla redditività dei compensi di soci e amministratori. In particolare se negli studi applicati fino all’anno di imposta 2008, il software Gerico utilizzava la variabile del numero dei soci, indicata al quadro A, e/o quella dei compensi degli amministratori, indicata al quadro F, per determinare il livello dei ricavi congrui, negli studi evoluti le cose cambiano. A partire dall’anno di imposta 2009, infatti, Gerico, ai fini del calcolo della congruità, considera in via esclusiva, solo la variabile di cui al quadro A, neutralizzando il compenso degli amministratori, di cui al quadro F, laddove lo stesso abbia svolto altre attività, sulla base di un rapporto contrattuale, i cui compensi siano stati indicati nel rigo F16, costi per servizi, o nel rigo F19, costi del lavoro.
24/06/2010

Territorialità dei servizi prestati da contribuenti minimi

L'Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 36/E del 21 giugno scorso, ha fornito importanti chiarimenti in relazione ai nuovi obblighi Intrastat derivanti dalla riforma della territorialità dei servizi scattata a far data dal 1° gennaio 2010. In particolare, con riferimento ai contribuenti minimi, si precisa che i soggetti che si avvalgono di tale regime devono compilare i relativi elenchi riepilogativi se effettuano acquisti intracomunitari di beni o servizi presso un altro soggetto Iva di un altro Stato membro. Al contrario, non dovrà essere compilato alcun elenco se l'operatore soggetto passivo di un altro Stato membro comunitario vende beni o presta servizi. Ai fini della emissione dell'autofattura e della presentazione del modello Intrastat, occorrerà fare riferimento al momento dell'effettuazione dell'operazione che, per le prestazioni dei servizi, coincide, secondo la normativa nazionale, con il pagamento del corrispettivo. Al fine di evitare duplicazioni di imposta, non si dovrà tener conto dei pagamenti effettuati nel 2010 in relazione a prestazioni fatturate e assoggettate a Iva nel 2009 secondo le previgenti regole. La circolare, inoltre, precisa che l'obbligo della presentazione degli elenchi relativi agli acquisti di beni e di servizi scatta anche nei confronti degli enti, delle associazioni e delle altre organizzazioni che svolgono attività commerciali solo in via secondaria. In ordine alla loro periodicità di presentazione la stessa sarà, solo per il 2010, naturalmente trimestrale per i soggetti tenuti esclusivamente alla presentazione degli elenchi riepilogativi dei servizi, fino al superamento della soglia dei 50 mila euro. A regime, scatterà invece la periodicità mensile per almeno quattro trimestri consecutivi, se questo tetto è stato superato anche in uno solo dei quattro trimestri dell'anno precedente.
22/06/2010

Riforma IVA: Per le società vale la presunzione di commercialità

Dal tenore letterale dell’art. 7-ter, comma 2, lett. a) del D.P.R. n. 633/1972 (Testo Unico IVA) si evince che nella rilevanza territoriale dell’Iva per le persone giuridiche vale la “presunzione di commercialità” e, inoltre, per determinare il trattamento fiscale dell’operazione é rilevante lo status del fruitore del servizio. In tale contesto si inquadra la presunzione di commercialità dei soggetti diversi dalle persone fisiche in quanto gli stessi, non potendo agire al di fuori dell’attività d’impresa, devono essere sempre considerati sottoposti alla regola del business to business (B2B) secondo la quale ai fini della territorialità del servizio bisogna sempre far riferimento a quella del committente, senza necessità di alcuna verifica da parte del prestatore.
ATTENZIONE IMPORTANTE: Nel caso in cui il committente non abbia una stabile organizzazione in Italia (sede legale, rappresentante legale, codice fiscale, partita iva), la prestazione risulterà fuori dal campo di applicazione dell’Iva, a prescindere da qualsiasi valutazione.
18/06/2010

L'atto costitutivo societario può prevedere un primo esercizio di 15 mesi

La Commissione società del Consiglio Notarile di Milano, con la massima n. 116 dell'8 giugno scorso, ha ritenuto legittima la previsione contenuta nell'atto costitutivo delle società di capitali che stabilisca la durata del primo esercizio sociale per un periodo non superiore ai 15 mesi decorrenti dalla data dell'atto medesimo. Il tema risulta di grande interesse considerata la nota contrapposizione tra il rigido principio dell'annualità dell'esercizio e la flessibilità che viene spesso richiesta dalla prassi societaria. Pertanto, in sede di costituzione della società si potrà stabilire di quanto tempo sia possibile prorogare la durata del primo esercizio rispetto ai canonici 12 mesi. Già prima della riforma del diritto societario alcune massime avevano sottolineato come il principio tolleri delle deroghe, in considerazione del fatto che la chiusura del primo esercizio in una data troppo vicina a quella della costituzione della società produce la redazione di un bilancio dal contenuto poco rappresentativo, purché tale eccedenza temporale sia non significativa. Lo studio mette in evidenza come, in linea generale, un periodo di tre mesi possa essere considerato in ogni caso non significativo. Il parametro di riferimento della Commissione è stato quello relativo alla disciplina delle società quotate, che impone la redazione e la diffusione dei prospetti contabili per il pubblico aggiornati su base trimestrale. Periodo questo che se risulta non significativo in piena attività, a maggior ragione deve esserlo nel caso di costituzione della società.
18/06/2010

SNC & SAS: Le novità in UNICO 2010

TREMONTI-TER:
Tale agevolazione consente di escludere dall'imposizione fiscale un importo pari al 50% del valore degli investimenti in nuovi macchinari e in nuove apparecchiature compresi nella divisione 28 della tabella ATECO 2007, effettuati nel periodo 1° luglio 2009 e fino al 30 giugno 2010. Con riferimento ad UNICO SP 2010, rilevano gli investimenti effettuati fino al 31 dicembre 2009. La circolare n. 44/E del 27 ottobre 2009 ha chiarito che l’agevolazione può essere fruita solamente in sede di determinazione del saldo, quindi, in sede di versamento degli acconti si dovrà procedere alla loro rideterminazione al lordo della Tremoni-ter. Dal punto di vista dichiarativo, le società di capitali sono tenute a compilare un apposito prospetto previsto nel quadro RS, rigo RS23, colonna 2. L’importo dell’agevolazione deve poi essere indicato nel quadro RF come variazione in diminuzione del reddito a rigo RF47 (colonna 1); nel quadro RG, rigo RG22 (colonna 1).

DEDUZIONE IRAP 10%:
L’art. 6, comma 1, D.L. n. 185/2008, riconosce la possibilità di dedurre il 10% dell’IRAP versata nel corso del periodo d’imposta 2009. La relativa variazione in diminuzione deve essere indicata nel quadro RF, rigo RF46, utilizzando il codice 12; nel quadro RG, rigo RG21 - colonna 3. La deduzione in commento spetta a condizione che alla formazione del valore della produzione concorrano interessi passivi o spese di lavoro dipendente. Posto che nella determinazione della deduzione si applica il principio di cassa, rilevano il saldo IRAP 2008 e gli acconti IRAP 2009 (nel limite dell’imposta dovuta per il medesimo periodo d’imposta). L’IRAP indicata a conto economico non essendo ammessa in deduzione deve essere indicata a rigo RF16 (come variazione in aumento).
Esempio: Società "A" (s.n.c. oppure s.a.s.) ha pagato a titolo di: saldo IRAP euro 1.000; acconti IRAP euro 10.000. L’IRAP “versata” nel 2009 ammonta ad euro 11.000 (il cui 10% = 1.100). L’importo pari a 1.100 euro é deducibile e deve essere indicato: come variazione in diminuzione a rigo RF46 con il codice 12; nel caso di società in contabilità semplificata nel quadro RG, rigo RG21; nel caso di studi associati nel quadro RE, rigo RE19.
17/06/2010

Il redditometro come nuovo strumento nella lotta all'evasione

La nuova versione del redditometro, superato il concetto del possesso dei beni, fonderà le proprie valutazioni sulle spese effettivamente sostenute dal contribuente utilizzando le varie informazioni raccolte dal fisco, tra cui gli oneri del quadro RP di Unico. La manovra correttiva che ha introdotto il nuovo strumento di accertamento, in attesa dei relativi provvedimenti attuativi, evidenzia la volontà di ricorrere in maniera forte a tale tipologia di controllo a cui deve essere riconosciuta la legittimità ed equità del concetto di base e cioè quello per cui a fronte della dimostrazione di una capacità di spesa deve corrispondere un altrettanto adeguato livello di reddito. Il modello Unico rappresenta quindi il primo banco di prova del contribuente, atteso che l'adeguatezza del reddito dichiarato rispetto al proprio stile di vita rappresenta il primo elemento per poter prevenire un eventuale accertamento e costruire la propria difesa. Sarebbe infatti assolutamente inutile appellarsi a un presunto non fondamento degli indici considerati, vista la chiara posizione della Corte di Cassazione che, con varie sentenze, ha più volte ribadito il fatto che il giudice non deve essere chiamato a esprimersi circa l'attendibilità dei coefficienti e degli indici presi a base del calcolo ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati nella norma. L'assunto che ne deriva è che serve assolutamente un reddito proporzionato alla manifestazione di spesa del contribuente al fine di poter giustificare l'acquisto e/o il possesso dei beni e dei servizi di cui ha fruito nel corso dell'anno. L'eventuale presenza di dichiarazioni con redditi irrisori e senza la possibilità di documentare ulteriori fonti avrà come ovvia prima conseguenza il rischio di essere selezionati dal redditometro e accertati e in secondo luogo l'impossibilità di procedere a un'idonea difesa. Tutto ciò impone una particolare attenzione in sede di redazione della dichiarazione dei redditi al fine di valutare l'idoneità complessiva della stessa in relazione allo stile di vita del soggetto; in caso contrario ci si esporrà al giusto recupero da parte del fisco.
17/06/2010

Varato il Dpcm che proroga di 20 giorni i versamenti in Unico

Lo schema del Dpcm varato dal Consiglio dei Ministri, attualmente alla firma del presidente del Consiglio, oltre a profilare una proroga di 20 giorni del termine per i versamenti delle imposte legate a Unico 2010, relativamente ai contribuenti sottoposti all'applicazione degli studi di settore, prevede anche un allungamento dei tempi per l'invio dei modelli 730 da parte dei Caf, ma solo per quelli trasmessi separatamente dal modello 730-4. Pertanto, i versamenti slittano al 6 luglio prossimo senza maggiorazione e dal 7 luglio al 5 agosto 2010 con la maggiorazione dello 0,40% a titolo di interesse. La misura riguarda anche i soci di società di persone, gli associati, i collaboratori di imprese familiari e il coniuge per le imprese familiari. Quindi, come specificato nella relazione accompagnatoria al provvedimento, la proroga non riguarda solo i soggetti per i quali è predisposto lo studio di settore, e che non superano la soglia per la sua applicazione, ma anche tutti coloro ai quali questi ultimi a loro volta imputano un reddito. In merito al modello 730, lo schema del Dpcm stabilisce la fissazione al 12 luglio prossimo del termine per la trasmissione telematica delle dichiarazioni del modello 730/2010, mentre entro il 30 giugno andranno trasmesse le dichiarazioni attraverso il modello 730 incluse nel flusso telematico dei modelli 730-4.
17/06/2010

Il riaddebito delle spese per uso studio comune non costituisce reddito

L’Agenzia delle Entrate durante la diretta MAP tenutasi il 3 giugno ha chiarito che il riaddebito ai colleghi di studio delle spese per l’uso in comune dei locali non costituisce per il professionista compenso tipico dell’attività e, in quanto tale, non deve essere dichiarato nel quadro RE mentre costituiscono costo inerente all’esercizio dell’attività di lavoro autonomo per il professionista che le riceve, deducibile in base al principio di cassa. Le Entrate puntualizzano che il professionista al quale sono intestate le utenze potrà dedurre solo una parte delle spese e cioè quella riferita all’attività da lui svolta e non anche quella riaddebitata o da riaddebitare ad altri in quanto non inerente all’attività svolta dal professionista. Tale modo di procedere lascia indenne il professionista anche dagli effetti che deriverebbero dall’assunzione totale dei costi e dei pagamenti delle spese riaddebitate in sede di applicazione degli studi di settore.
07/06/2010

Promotori finanziari esclusi dall'IRAP

Dopo le due sentenze della Cassazione, la n. 12108 e la 12111 del 26 maggio 2009, l'Agenzia delle Entrate, prendendo atto dell'orientamento della Suprema Corte, ha riconosciuto, con la circolare n. 28/E del maggio 2010, l'esclusione dall'Irap delle attività ausiliarie, ex articolo 2195 del codice civile, in quanto prive di un'autonoma organizzazione. Pertanto, gli agenti di commercio, i procacciatori d'affari e i promotori finanziari sfuggono al tributo regionale a condizione che non impieghino lavoro dipendente stabile e che non utilizzino beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per lo svolgimento dell'attività. Tuttavia, tale ragionamento può essere esteso a tutte quelle micro attività svolte senza organizzazione di mezzi e di lavoro altrui benché l'Agenzia delle Entrate limiti l'esonero alle sole attività ausiliarie dell'impresa comprese nell'articolo 2195 del codice civile. Ripercorrendo i ragionamenti espressi dalla Suprema Corte, anche in tema di Ilor, la stessa afferma esplicitamente nelle citate sentenze che non è l'oggettiva natura dell'attività svolta ad essere alla base dell'imposta, ma il modo in cui la stessa è svolta ad essere la razionale giustificazione di un'imposizione sul valore aggiunto prodotto. Se, quindi, il fulcro della motivazione dell'esclusione si fonda sul modo in cui viene svolta l'attività, si può ragionevolmente dubitare che il requisito organizzativo sussista in capo ad un piccolo artigiano, ad un parrucchiere o attività simili e ciò lascia presagire ulteriori sviluppi in tema di esonero dal tributo regionale.
07/06/2010

IRAP: La quantificazione della base imponibile

Anche quest'anno nella dichiarazione dei redditi 2010, le società di capitali dovranno quantificare l'imponibile Irap senza prendere in considerazione le limitazioni previste dal Tuir in merito alla deduzione parziale o totale degli oneri. Non troveranno, infatti, applicazione le limitazioni previste per le auto, i telefoni, le spese di rappresentanza, alberghi e ristoranti, in quanto il tributo regionale si basa esclusivamente sui valori correttamente iscritti negli aggregati di bilancio. La normativa e le istruzioni impartite dall'Amministrazione finanziaria hanno però introdotto alcune eccezioni a tale principio di derivazione. In particolare per gli accantonamenti, gli ammortamenti e le svalutazioni di bilancio che devono, pertanto, formare oggetto di un attento esame per una corretta compilazione della dichiarazione dei redditi. Una prima verifica deve riguardare l'esistenza di eventuali accantonamenti inseriti, ad esempio, nell'ambito della voce relativa ai servizi. Si pensi a un onere accantonato per future spese legali derivante da una causa, che è stato incluso nella voce B7, insieme ad altre prestazioni. Le istruzioni ministeriali prevedono che tale onere possa essere dedotto solamente nel momento in cui verrà effettivamente sostenuto. La legge impedisce di dedurre, anche ai fini Irap, le svalutazioni iscritte in bilancio, ma limitatamente alle immobilizzazioni. Risultano invece completamente deducibili i minori valori attribuiti alle rimanenze rispetto al minimo fiscale di cui all'art. 92 del Tuir. In merito agli ammortamenti, questi saranno oggetto di rettifica ai fini Irap esclusivamente in due casi: valori contabili non riconosciuti fiscalmente, come nel caso di immobili rivalutati ai sensi del D.L. n. 185/2008, e ammortamento dei terreni.
09/06/2010

Interessi passivi commerciali fuori dal calcolo del R.O.L.

L’Agenzia delle Entrate nel corso della diretta Map del 3 giugno ha fornito chiarimenti in merito a particolari situazioni relative al reddito d’impresa e di lavoro autonomo. Per quanto riguarda gli immobili è stato chiarito che sono indeducibili, anche ai fini Irap, le quote relative ai canoni di leasing del terreno sul quale insiste un fabbricato strumentale. Tale indeducibilità vale anche per i lavoratori autonomi per il periodo 2007/2009. Per quanto riguarda la determinazione del reddito di lavoro autonomo, le Entrate confermano che per i bonifici effettuati dai professionisti, il momento dell’incasso coincide con quello del relativo accredito (data disponibile). I proventi derivanti dai riaddebiti delle spese comuni sono irrilevanti ai fini della determinazione del reddito di chi li riceve, mentre è rilevante per il collega che li sostiene. In materia di reddito d’impresa è stato chiarito che gli interessi passivi commerciali sono esclusi dalla regola del Rol prevista dall’art. 96 comma 1 del Tuir; gli interessi attivi riscossi dalla società per prestiti erogati a favore di dipendenti rientrano nell’ambito di applicazione della regola del Rol. Infine, gli interessi su depositi cauzionali versati a fronte di contratti commerciali restano esclusi dall’applicazione dell’art. 96 in quanto non sono di natura finanziaria.
07/06/2010

Deposito del bilancio in formato Xbrl e nota integrativa in Pdf/A

Secondo le nuove regole operative concordate tra l’Osservatorio Unioncamere e il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, per il deposito dei bilanci delle società di capitali secondo il nuovo formato Xbrl, le tassonomie disponibili sul sito di DigiPA riguardano solo lo stato patrimoniale e il conto economico, la nota integrativa resta fuori dall’obbligo di adozione di Xbrl e va depositata, come per il verbale dell’assemblea, la relazione degli amministratori, ecc., ancora in formato Pdf/A. Il prospetto contabile va depositato in Pdf/A solo se la tassonomia non è sufficiente a rappresentare la situazione aziendale, nel rispetto del principio di chiarezza, correttezza e verità, previste dall’art. 2423 del Codice Civile. Sono fuori dal formato Xbrl i bilanci finali di liquidazione.
06/06/2010

Lavoro a tempo determinato con causale

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 6328 del 16 marzo 2010 entra nel merito del lavoro a tempo determinato per tutelare il lavoratore da un uso indiscriminato del contratto. Per evitare tale rischio il legislatore, con il disposto all'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro. Le ragioni giustificatrici devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell'effettiva portata delle stesse e quindi il relativo controllo di effettività. In presenza di più ragioni legittimanti, è necessario che le parti le indichino tutte nel contratto di lavoro ove non sussista incompatibilità o intrinseca contraddittorietà. Dalla nullità della clausola appositiva del termine non discende la nullità dell'intero contratto ai sensi del comma 1 dell'art. 1419 c.c. bensì la invalidità parziale relativa alla sola clausola e la instaurazione tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
06/06/2010

Avvio d'impresa: comunicazione unica senza diritti di segreteria

Con la nota n. 26649 del 4 aprile 2010, il Ministero dello sviluppo economico ha comunicato che non sono dovuti diritti di segreteria quando la comunicazione unica è inviata per soli fini previdenziali, assistenziali e fiscali. Con questo parere il ministero ha chiarito anche che le imprese che sono inizialmente iscritte al registro come inattive quando presentano la dichiarazione di inizio attività non devono pagare ulteriori diritti di segreteria, poiché tale dichiarazione farà riferimento al numero di protocollo della prima pratica e sarà considerata come un’integrazione dei documenti alla precedente comunicazione unica, per la quale sono stati già pagati i diritti di segreteria. L’Agenzia delle Entrate, nella risoluzione n. 24 del 29 marzo 2010, ha spiegato che non possono essere soggette a imposta di bollo le domande e gli atti che, pur essendo ora inviate mediante comunicazione unica, in precedenza erano esenti da tale imposta.
06/06/2010

Socio amministratore di S.r.l. iscrizione previdenziale

Componendo un contrasto di giurisprudenza, le Sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 3240 del 12 febbraio 2010 hanno statuito, in tema di tutela assicurativa del socio di società a responsabilità limitata che eserciti attività commerciale nell’ambito della medesima e, contemporaneamente, svolga attività di amministratore anche unico, l’applicazione della regola dell’iscrizione nell’assicurazione prevista per l’attività alla quale gli stessi dedicano personalmente la loro opera professionale in misura prevalente. Per la S.C., la scelta dell’iscrizione nella gestione di cui all’art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995 o nella gestione degli esercenti attività commerciali (ex art. 1, comma 203 della legge n. 662 del 1996) spetta all’INPS, secondo il carattere di prevalenza e la contribuzione si commisura esclusivamente sulla base dei redditi percepiti dall’attività prevalente e con le regole vigenti nella gestione di competenza.
07/06/2010

Atto annullabile se le verifiche fiscali superano i 30 giorni

La Ctp di Bari con due diverse sentenze la n. 99/10/10 e la 131/17/10 ha affermato che le verifiche fiscali che si protraggono oltre i 30 giorni lavorativi (durata massima indicata dallo statuto del contribuente) determinano la nullità dell’atto di rettifica tributaria. In proposito si ricorda che nei casi di necessità i trenta giorni lavorativi possono essere raddoppiati (art. 12 comma 5 dello Statuto del contribuente). Oggetto del contendere era un recupero del credito d’imposta per l’agevolazione sul gasolio degli autotrasportatori effettuato dalla Guardia di Finanza durante una verifica fiscale presso la sede in una società nel periodo 8 settembre 2005 - 15 dicembre 2005. Secondo la Ctp di Bari la disposizione di cui all’art. 12, comma 5, deve intendersi restrittiva in quanto strettamente collegata al comma 1 secondo il quale i controlli devono essere effettuati con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività stesse e soprattutto alle relazioni professionali e commerciali del contribuente. La verifica della Gdf, nel caso in esame, si è invece protratta per un periodo di tre mesi: pertanto, secondo la Ctp, il comportamento adottato è in contrasto con il disposto normativo comportando l’annullamento degli atti di accertamento impugnati.
05/06/2010

Legittimo l'accertamento basato sulla contabilità recuperata presso terzi

E' legittimo un accertamento induttivo della Guardia di Finanza basato sul ritrovamento, in locali diversi da quelli societari, di una “contabilità parallela” a quella ufficialmente tenuta dalla società sottoposta a verifica, solo se l’Amministrazione Finanziaria fornisce debita prova che i locali presso cui é stata rinvenuta la documentazione siano destinati all’esercizio di attività commerciali o connesse, o comunque per i quali non sia necessaria la specifica autorizzazione della Procura della Repubblica, ai sensi degli artt.33, DPR n.600/73 e 52, DPR n.633/72. (Corte di Cassazione, Sentenza n.10137, 28/04/2010)
05/06/2010

Comunicazione telematica delle operazioni con paesi black-list

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha definito le modalità e i termini di effettuazione della comunicazione telematica all’Agenzia delle Entrate delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate e ricevute (dal prossimo 1° luglio 2010) nei confronti di operatori economici aventi sede, residenza o domicilio in Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. black-list). Si tratta di un intervento volto a limitare le possibilità di evasione attraverso l’utilizzo di strutture localizzate in paesi a bassa fiscalità, o che comunque non garantiscono un adeguato scambio di informazioni con le amministrazioni finanziarie di altri stati.I Paesi black-list sono quelli individuati dai decreti 4 maggio 1999 e 21 novembre 2001. Il modello con le relative istruzioni per la comunicazione sarà approvato dall’Agenzia delle Entrate entro il prossimo 29 maggio 2010. I dati del soggetto estero che dovranno essere comunicati sono, in ogni caso, già delineati dal decreto in esame: trattasi del codice fiscale (o identificativo), della denominazione, del domicilio fiscale, dell’importo delle operazioni effettuate nel periodo di riferimento e dell’imposta sul valore aggiunto riferita alle operazioni imponibili. I periodi di riferimento sono individuati nel mese o nel trimestre, secondo gli stessi criteri già previsti per la periodicità delle comunicazioni dei modelli Intrastat. Le comunicazioni dovranno essere inviate entro l’ultimo giorno del mese successivo al periodo di riferimento, quindi il primo invio scadrà il prossimo 31 agosto 2010 per i contribuenti mensili e il prossimo 31 ottobre 2010 per i contribuenti trimestrali.

05/06/2010

Iva interventi di recupero del patrimonio edilizio

La Direttiva n. 2009/47/CE ha modificato l’elenco (contenuto nell’Allegato III della Direttiva n. 2006/112/CE) dei beni e dei servizi per i quali i singoli Stati possono prevedere un’aliquota ridotta. In particolare, in detto elenco sono stati ricompresi i servizi ad alta intensità di lavoro, incluse le ristrutturazioni edilizie. Alla luce di ciò, il comma 11 in esame dispone che “a regime”, l’aliquota IVA applicabile alle prestazioni di servizi relative ad interventi di recupero del patrimonio edilizio di cui all’art. 31, comma 1, lett. a), b), c) e d), Legge n. 457/78 realizzati su fabbricati a prevalente destinazione abitativa, è fissata nella misura ridotta del 10%. Si rammenta che, ad oggi, l’aliquota ridotta del 10% è già prevista per gli interventi di cui alle citate lett. c) e d), mentre è applicabile agli interventi di manutenzione di cui alle lett. a) e b) in forza della specifica disposizione introdotta dalla Finanziaria 2000 e prorogata da ultimo dalla Finanziaria 2008.
05/06/2010