Con un comunicato stampa di ieri sera, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha informato che il DL 13 agosto 2011 n. 138, con le modifiche apportate dalla legge di conversione 14 settembre 2011 n. 148, è stato inviato per la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale di oggi, 16 settembre. Pertanto, a partire da sabato 17 settembre, entrano in vigore le modifiche apportate dalla legge di conversione al citato DL 138/2011, ivi compreso l’innalzamento dell’aliquota ordinaria IVA dal 20 al 21%. Restano invece invariate le aliquote ridotte del 4 e del 10%. Il provvedimento in esame modifica l’art. 16 del DPR 633/72, disponendo testualmente che “L’aliquota dell’imposta è stabilita nella misura del ventuno per cento della base imponibile dell’operazione”. Ricordiamo che l’aliquota ordinaria era stata elevata dal 19 al 20 per cento, con decorrenza dal 1° ottobre 1997, dall’art. 1 DL 29 settembre 1997, n. 328. Quanto alla decorrenza, in estrema sintesi, rileva il momento in cui l’operazione posta in essere si considera effettuata ai fini IVA. Pertanto le cessioni di beni mobili si considerano effettuate all’atto della consegna o della spedizione; le cessioni di beni immobili si considerano effettuate all’atto della stipulazione del rogito notarile; le cessioni di beni (mobili e immobili) con effetti costitutivi o traslativi differiti rispetto agli eventi di cui sopra si considerano effettuate nel momento in cui si producono tali effetti, con il limite temporale di un anno per i beni mobili; le prestazioni di servizi si considerano effettuate con il pagamento del corrispettivo, indipendentemente dall’avvenuta esecuzione, in tutto o in parte, della prestazione. Il soggetto IVA può ricorrere alla fatturazione differita al giorno 15 del mese successivo a quello di consegna o spedizione dei beni nel caso in cui i beni siano accompagnati dal DDT, di conseguenza si applica l’aliquota ordinaria del 21%, se la consegna o spedizione dei beni avviene a partire dal 17 settembre. Sempre in applicazione dei principi generali del tributo, gli acconti pagati prima del 17 settembre sono soggetti all’aliquota del 20%, mentre al saldo, pagato dopo, si applica l’aliquota del 21%. Le note di variazione emesse dal 17 settembre devono riportare l’aliquota ordinaria del 20% se la fattura, oggetto di rettifica, relativa all’operazione originaria è stata emessa prima di tale data. Nel caso di cessioni di beni e di prestazioni di servizi realizzate nei confronti dello Stato e degli enti pubblici indicati dall’art. 6 comma 5 del DPR 633/72 (es. Regioni, Province, Comuni, ecc. ), l’IVA diventa esigibile alla data del pagamento del corrispettivo. Considerato che la fattura deve essere comunque emessa quando l’operazione si considera effettuata (es. consegna del bene), è stato previsto che il cedente/prestatore possa applicare l’aliquota IVA del 20% se la fattura viene emessa e annotata nel relativo registro (delle fatture emesse o dei corrispettivi) prima del 17 settembre.
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Alla fine, di nuovo un maxiemendamento su cui il Governo ha posto la questione di fiducia. Con modifiche che costituiscono sia un passo indietro, con il ritorno a norme già in un primo momento inserite nel Ddl. di conversione del DL n. 138/2011 e poi cancellate, sia un ritorno sui propri passi, con l’inserimento di misure di cui si è parlato tanto nei giorni scorsi, tra dubbi e smentite. L’ennesimo capitolo della manovra-bis è stato scritto ieri, quando sarebbe dovuto partire l’esame, all’Aula del Senato, del Ddl. n. 2887 di conversione. L’esame è iniziato, ma in un certo senso, “a vuoto”. Perché, nel corso di una riunione del Consiglio dei Ministri, il Governo ha deciso di porre la questione di fiducia, che verrà votata oggi in Senato, sul testo, con alcune aggiunte, come reso noto da Palazzo Chigi:
- aumento di un punto percentuale dell’IVA, dal 20 al 21%;
- contributo di solidarietà del 3% sopra i 300mila euro di reddito annuo;
- adeguamento delle pensioni delle donne nel settore privato a partire dal 2014.
Inoltre, nella riunione è stato deciso che giovedì il Consiglio dei Ministri approverà l’introduzione in Costituzione della “regola d’oro” sul pareggio di bilancio e l’attribuzione alle Regioni delle competenze delle Province. In un primo momento, il contributo di solidarietà, che dovrebbe restare deducibile come nella prima versione poi cancellata, era stato stabilito per redditi superiori a 500mila euro, ma la soglia è stata abbassata a 300mila, per aumentare l’importo di gettito stimato. In Italia, secondo quanto si è appreso da fonti governative, i contribuenti italiani che dichiarano un reddito annuo superiore a 500mila euro l’anno sarebbero 11mila, su oltre 41 milioni di dichiarazioni dei redditi presentate. Di questi, 3.641 sarebbero titolari di partita IVA, mentre 2.700 di loro percepirebbero un reddito annuo superiore a un milione di euro l’anno. La decisione di abbassare la soglia a 300mila euro consente un aumento del gettito stimato: i contribuenti che superano tale cifra sarebbero infatti 34.000, di cui l’8,5% dipendenti pubblici, il 53% dipendenti del privato e 38,5% lavoratori autonomi. Nel maxiemendamento, inoltre, potrebbe rientrare anche un ritocco su una delle misure in materia di diritto penale tributario, quella relativa all’inapplicabilità dell’istituto della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 163 c.p. in caso di imposta evasa o non versata superiore a 3 milioni di euro, con riguardo ai delitti previsti dagli artt. 2-10-quater del DLgs. n. 74/2000. In base alla modifica, infatti, non solo l’evasione deve ammontare a tale cifra, ma dovrebbe anche corrispondere al 30% del fatturato. L’aumento dell’IVA è sicuramente il grosso del nuovo pacchetto, poiché si tratta di una misura che permette di fare cassa subito e andrà a miglioramento dei saldi, anche se non potrà più essere “spesa” per la delega alla riforma fiscale, come in un primo tempo stabilito. In tarda serata, è arrivata l’approvazione da parte dell’Unione europea, che si augura che la manovra sia approvata al più presto per contribuire ad allentare la pressione dei mercati. La Commissione UE, mediante comunicato, ha infatti dato il benvenuto alle novità annunciate, sottolineando in particolare l’importanze degli interventi in materia di pensioni, di abolizione delle Province e per l’inserimento nella Costituzione del principio del pareggio di bilancio. Le misure “confermano la determinazione delle autorità italiane a raggiungere gli obiettivi concordati per la riduzione del deficit e del debito e contribuiscono – si legge nel comunicato – ad affrontare le profonde e radicate debolezze strutturali dell’economia italiana”. Tornando ai confini italiania, critici, sulle novità inserite ieri, opposizione e sindacati, questa volta non solo la CGIL, mentre plausi sono arrivati da Confindustria. Per attenuare la pressione dei mercati, la volontà del Governo è incassare il voto di fiducia sul maxiemendamento oggi, in Senato, per un veloce passaggio blindato alla Camera.
Ai fini della configurabilità, a carico del datore di lavoro, del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali di cui all’art. 2 del DL 463/1983, l’onere di provare l’effettiva corresponsione ai lavoratori dipendenti della retribuzione loro dovuta – costituente uno dei presupposti per l’integrazione del suddetto delitto – grava sulla pubblica accusa. È quanto ha affermato, schierandosi con una parte della giurisprudenza di legittimità, la sezione III penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 28922 di ieri, 20 luglio 2011. In tale pronuncia viene affrontata una delle numerose questioni sollevate dall’interpretazione del citato all’art. 2 del DL 463/1983, la norma che, ai commi 1-bis e ss., disciplina il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, prevedendo, come conseguenza sanzionatoria, la reclusione fino a 3 anni e la multa fino a 1.033 euro. In particolare, si discute sulla ripartizione dell’onere della prova in ordine al pagamento, o meno, della retribuzione. Va, infatti, ricordato che, sia pur in presenza di qualche voce difforme, la dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti risultano ormai concordi nel sostenere che l’illecito penale in argomento non sia configurabile nei casi in cui al lavoratore non siano state materialmente pagate le somme dovute a titolo di corrispettivo. A tale conclusione si giunge considerando che, come emerge anche dalla lettera della norma, le ritenute oggetto dell’obbligo di versamento sono quelle “operate” dal datore di lavoro e che il presupposto per poter, appunto, “operare” una ritenuta non può che consistere nella corresponsione dello stipendio dal quale il datore trattiene una somma (corrispondente alla quota di contribuzione obbligatoria a carico del prestatore) per poi versarla (per conto di quest’ultimo) all’Istituto assicuratore. Come affermato anche dalle Sezioni Unite (sentenza n. 27641/2003), in caso di mancata corresponsione della retribuzione, viene meno uno dei presupposti della condotta, venendo a mancare lo stesso “oggetto materiale su cui attuare la componente commissiva dell’illecito”. Va poi tenuto presente che, con la previsione della fattispecie penale (di carattere delittuoso) di cui si tratta, il Legislatore ha inteso reprimere non il semplice fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, bensì il più grave fatto commissivo dell’appropriazione indebita, da parte del datore di lavoro, delle somme prelevate dalla retribuzione erogata ai dipendenti. Affermata la non configurabilità del reato in assenza del materiale esborso (anche in nero; cfr. Cass. n. 2910/2006) delle somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione, tale assunto presuppone, però – ed è qui che interviene la sentenza in esame – che sussista agli atti la prova della mancata erogazione. Su tale questione il dibattito è ancora acceso. Secondo un primo indirizzo interpretativo, poiché il rapporto di lavoro è di regola retribuito, grava sul datore di lavoro che assuma di non aver pagato i dipendenti l’onere di fornire la relativa prova. Si ritiene, infatti, che l’effettivo pagamento delle retribuzioni possa presumersi anche sulla base della comune esperienza, essendo improbabile che dei prestatori di lavoro si rassegnino a svolgere regolarmente la propria opera a favore del datore senza percepire lo stipendio o reagire altrimenti per la tutela dei propri diritti. Da qui l’onere del datore di lavoro di fornire la “prova contraria” (cfr. Cass. n. 46734/2004 e 10104/2011). In senso opposto, un’altra parte della giurisprudenza della Corte, cui aderisce la sentenza n. 28922/2011, esclude che l’avvenuta corresponsione delle retribuzioni possa presumersi per il solo fatto che la prestazione di lavoro subordinato normalmente debba essere retribuita. Ribaltando completamente il suesposto principio, si sostiene, quindi, che non spetti al datore di lavoro imputato dare la prova di non aver corrisposto gli stipendi ai lavoratori, bensì gravi sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare che le retribuzioni siano state realmente pagate (cfr. Cass. n. 38271/2007). A tale fine – aggiunge la pronuncia in commento – la pubblica accusa può fare ricorso sia a prove documentali (si pensi alla documentazione lavoristica e previdenziale obbligatoria) che a prove testimoniali, nonché alla prova indiziaria. Si segnala, infine, che l’art. 39 della L. 183/2010 (il c.d. collegato lavoro, in vigore dal 24 novembre 2010) ha esteso l’applicabilità ex art. 2, commi 1-bis e ss., del DL 463/83 – con tutta l’elaborazione giurisprudenziale cui tale norma ha dato vita, per quanto compatibile – anche ai committenti che omettano di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sui compensi dei lavoratori a progetto e dei titolari di collaborazioni coordinate e continuative.
E' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 135/2011 la circolare n. 4 del 18 marzo 2011, con la quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica – ha fornito una serie di indicazioni operative in merito alla trasmissione telematica, ai datori di lavoro, dei certificati medici in caso di assenza per malattia dei dipendenti. Tale procedura, infatti, è stata predisposta in attuazione di quanto previsto dall’art. 25 della L. n. 183/2010 (il c.d. collegato lavoro) e interessa tutti i lavoratori, sia del settore privato sia di quello pubblico. In generale, il documento fornisce informazioni ai lavoratori circa gli oneri e i vantaggi della nuova procedura, e descrive gli adempimenti a carico dei datori di lavoro per la corretta ricezione delle attestazioni di malattia trasmesse per via telematica. In sintesi, la nuova procedura prevede che, in tutti i casi di assenza per malattia del lavoratore, la certificazione medica venga inviata all’INPS per via telematica direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria; in seguito, le attestazioni di malattia saranno immediatamente inoltrate, sempre online, dall’Istituto previdenziale al datore di lavoro interessato. Per quanto riguarda la posizione dei dipendenti, la circolare sottolinea che é obbligo del lavoratore di richiedere al medico il numero di protocollo identificativo del certificato inviato per via telematica; a tal proposito, nella circolare si segnala che il certificato medico e l’attestato di malattia possono essere richiesti anche in formato cartaceo oppure in formato pdf e ricevuti presso la propria casella di posta elettronica. L’invio telematico del certificato effettuato dal medico soddisfa l’obbligo del lavoratore di recapitare l’attestazione di malattia al proprio datore di lavoro entro i 2 giorni lavorativi successivi all’inizio della malattia. Resta tuttavia fermo l’obbligo di segnalare al datore di lavoro la propria assenza e l’indirizzo di reperibilità, qualora diverso dalla residenza o domicilio abituale, per i successivi controlli medico fiscali. Parimenti, é fatto obbligo al lavoratore del settore privato di fornire, qualora espressamente richiesto dal proprio datore di lavoro, il numero di protocollo identificativo del certificato telematico di malattia comunicatogli dal medico. Qualora il medico sia impossibilitato ad inviare online il certificato di malattia, lo stesso può essere presentato dal dipendente al proprio datore di lavoro con le nuove procedure di posta certificata. Per quanto concerne la trasmissione dell’attestato di malattia dall’INPS al datore di lavoro, nella circolare in esame si segnala che le attestazioni vengono messe a disposizione secondo le seguenti modalità:
- mediante accesso diretto al sistema INPS, tramite apposite credenziali rese disponibili dallo stesso Istituto previdenziale, come descritto nella sua circolare 60/2010;
- mediante invio alla casella di posta elettronica certificata indicata dal datore di lavoro, come descritto nella circolare INPS n. 119/2010.
Viene altresì precisato che i datori di lavoro privati possono avvalersi dei servizi resi disponibili dall’INPS anche per tramite del proprio professionista intermediario. Infine, si rammenta che l’adesione da parte dei datori di lavoro privati ai servizi messi a disposizione dall’INPS per la trasmissione telematica delle attestazioni di malattia consentirà di usufruire del nuovo servizio per la richiesta di visite fiscali online, già in fase di sperimentazione e di prossimo rilascio.
E' disponibile, su www.agenziaentrate.it la funzione di consultazione dell’elenco delle partite IVA dei contribuenti già in possesso, allo scorso 30 gennaio, dei requisiti minimi necessari all’inclusione nell’archivio dei soggetti autorizzati ad effettuare operazioni intracomunitarie. Si tratta, quindi, dei contribuenti rispetto ai quali non risultava sussistente, a tale data, una delle seguenti cause di esonero, differenziate a seconda della data di presentazione della dichiarazione di inizio attività:
- sino al 30 maggio 2010, ovvero precedentemente all’entrata in vigore del DL n. 78/2010, che ha introdotto il regime di autorizzazione alle operazioni intracomunitarie: non hanno trasmesso, negli anni 2009 e 2010, gli elenchi riepilogativi delle cessioni di beni, delle prestazioni di servizi e degli acquisti intracomunitari, ovvero risultano inadempienti rispetto agli obblighi dichiarativi riguardanti il periodo d’imposta 2010;
- dal 31 maggio 2010: non hanno manifestato, in sede di dichiarazione di inizio attività, la volontà di effettuare operazioni intracomunitarie, a norma dell’art. 35, comma 2, lettera e-bis), del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, oppure – in mancanza – non hanno comunque posto in essere, nel secondo semestre 2010, operazioni intracomunitarie ed adempiuto gli obblighi di presentazione dei relativi elenchi riepilogativi.
Il servizio telematico in parola consente di verificare, previo inserimento della corrispondente partita IVA, se un soggetto è munito dei presupposti richiesti per l’inclusione nel VIES: i contribuenti in possesso di tali requisiti non sono tenuti ad alcun adempimento ulteriore, poiché rientreranno automaticamente nell’archivio al 28 febbraio 2011, quando verranno esclusi gli operatori non autorizzati. Nel medesimo periodo, diverrà disponibile la consultazione dell’archivio VIES, consentendo altresì di accertare la propria inclusione da parte dei soggetti che hanno presentato l’apposita istanza di autorizzazione, secondo le modalità indicate dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 29 dicembre 2010 (prot. n. 180376). Sul punto, si rammenta che – ai sensi dell’art. 35, comma 7-bis, del DPR n. 633/1972 – l’Amministrazione finanziaria può emettere un provvedimento di diniego dell’autorizzazione ad effettuare le operazioni intracomunitarie entro 30 giorni dalla richiesta del contribuente. Tale istanza può essere presentata anche dai soggetti che si trovano nelle condizioni di essere esclusi: nel caso in cui al 28 febbraio 2011, data di completamento della procedura di estromissione dall’elenco dei soggetti autorizzati, siano già scaduti i predetti 30 giorni, il richiedente permarrà senza soluzione di continuità nel VIES, e sarà legittimato ad effettuare operazioni intracomunitarie, essendo comunque soggetto ad una prima valutazione dei dati entro il 31 luglio 2011. Al contrario, qualora il termine di 30 giorni sia ancora pendente a fine febbraio, il soggetto passivo IVA sarà escluso dall’archivio degli operatori autorizzati, per poi essere nuovamente ammesso a partire dal 31° giorno successivo alla presentazione della domanda, purché non sia intervenuto un atto di diniego, previa valutazione dei dati forniti e dei correlati elementi di rischio. Si pensi, ad esempio, alla mancanza dei necessari presupposti oggettivi e soggettivi, alla carenza dei requisiti di inclusione nel VIES, al coinvolgimento del contribuente in fenomeni evasivi o di frode fiscale, nonché agli eventuali gravi inadempimenti dichiarativi riscontrati nell’ultimo quinquennio. Il compimento di operazioni intracomunitarie, prima del decorso del termine di 30 giorni dalla tramissione della domanda ed in assenza di un provvedimento di diniego dell’Agenzia delle Entrate, non ne determina la decadenza, costituendo, invece, un valido presupposto per l’applicazione di una sanzione amministrativa, in misura fissa, da un minimo di 258 ad un massimo di 2.065 euro (art. 11 del DLgs. 18 dicembre 1997, n. 471). L’Agenzia precisa che la domanda di inserimento nell’archivio VIES, necessaria per effettuare operazioni IVA intracomunitarie, può essere presentata, sia a mano sia tramite raccomandata, a qualsiasi ufficio territoriale delle Entrate.
L’Agenzia delle Entrate ha istituito i codici tributo per il versamento, tramite il modello “F24 Accise”, dei contributi di spettanza dell’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI). In particolare, al fine di consentire il versamento, tramite il modello “F24 Accise” dei contributi dovuti all’INPGI, sono stati istituiti i seguenti codici tributo: RL29, CVL1, RC21, CRL1, CRL2, CVL2, RC15. L’istituzione di tali codici tributo si é resa necessaria ai fini dell’applicazione del DM 18 luglio 2005. Tale decreto, infatti, dispone che i versamenti unitari e le compensazioni di cui all’art. 17 del DLgs. 9 luglio 1997 n. 241 si applicano anche ai contributi dovuti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani – INPGI. La risoluzione contiene anche le istruzioni per la compilazione. Con riferimento alle modalità di compilazione, la risoluzione precisa che in sede di compilazione del modello di versamento “F24 Accise”, i suddetti codici tributo sono esposti nella sezione “Accise/Monopoli ed altri versamenti non ammessi in compensazione”, in corrispondenza degli “importi a debito versati”. Inoltre, nella stessa sezione: nel campo “Ente” è indicata la lettera “P”; il campo “codice identificativo” è valorizzato con il “codice azienda”; nei campi “mese” e “anno di riferimento”, espressi nella forma “MM” e “AAAA”, sono evidenziati il mese e l’anno per cui si effettua il versamento.
I compensi erogati agli amministratori di società sono deducibili dal reddito d’impresa, in quanto ciò si evince direttamente dal dato normativo e, inoltre, all’Agenzia delle Entrate non è attribuito alcun potere di sindacato sulla congruità del suddetto compenso. Con queste motivazioni, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24957 del 10/12/2011, fa un netto dietrofront sulla deducibilità dei compensi agli amministratori, siccome, come noto, con la precedente decisione 18702/2010, si era espressa in senso esattamente opposto. Sarà per l’ampio (e, forse, eccessivo) dibattito che tale ordinanza aveva causato che i giudici, nella sentenza in oggetto, motivano ampiamente il “perché” della deducibilità e dell’insussistenza della potestà di sindacato da parte dell’Ufficio. Ovviamente, la decisione va condivisa, ciò che non può essere accettato è che, nella causa relativa all’ordinanza 18702, il contribuente debba vedere sancita l’indeducibilità del compenso. Questi non può esperire di certo il ricorso in revocazione, né impugnare la decisione di fronte ad alcun giudice. Venendo alla sentenza in esame, la Suprema Corte afferma che la deducibilità dei compensi erogati agli amministratori delle società di persone, enunciata dal “vecchio” art. 62 comma 3 del TUIR era applicabile anche alle società di capitali, in virtù del rinvio operato dall’allora vigente art. 95 comma 1. Nel sistema attuale i termini della questione non cambiano, visto che la situazione è identica, anche se rovesciata: non a caso, l’art. 95 del TUIR, contempla espressamente la deducibilità dei compensi erogati agli amministratori di società di capitali, e ciò è applicabile anche alle società di persone per effetto del rinvio di cui all’art. 56 comma 1. La parte più interessante della sentenza concerne però l’insussistenza del potere di sindacato sulla congruità dei compensi, argomento che, con l’ordinanza 9026 del 2002, era stato rimesso alle Sezioni Unite, anche se detta richiesta era stata poi rigettata dal Primo Presidente della Corte di Cassazione. Ora, l’Amministrazione finanziaria non può sindacare l’entità del compenso, perchè l’art. 62 [ora 95] del TUIR, nella sua nuova formulazione, non prevede più il richiamo a un parametro da utilizzare nella valutazione dell’entità dei compensi, per cui l’interprete non può che prendere atto di ciò (si vedano le precedenti sentenze 28595 del 2008 e 6599 del 2002). Il nuovo assetto normativo, quindi, ha “totalmente liberalizzato il concetto di spettanza ai fini della deducibilità”, in quanto l’art. 37-bis del DPR 600/73 non elenca, tra le tassative ipotesi di accertamento antielusivo, la congruità dei compensi. Inoltre, viene sancita la piena libertà dell’imprenditore di impostare la propria strategia d’impresa, e viene specificato, con riferimento al caso in esame, che “non è percepibile uno scopo fraudolento in danno dell’Agenzia delle Entrate, dato che le aliquote applicabili nei confronti dei redditi degli amministratori (non inferiori al 43,5) sono superiori rispetto a quelle applicabili mediamente per i redditi delle società (34,9)”. Dalle motivazioni adottate dai giudici, pare quindi che l’Agenzia delle Entrate non possa censurare l’entità del compenso nemmeno facendo riferimento al c.d. “abuso del diritto”, e ciò lo si potrebbe ricavare dal fatto che i giudici hanno chiarito che non è applicabile l’art. 37-bis, il che sarebbe superfluo se gli uffici potessero utilizzare il c.d. “abuso del diritto”, accertamento che tra l’altro non prevede alcuna garanzia procedimentale. Invero, i giudici non escludono tout court la possibilità che, in presenza di certe circostanze, il compenso venga sindacato, siccome viene sostenuto che non si può affermare che il sistema non contempli norme antielusive in presenza di una disciplina sulla simulazione e dei negozi in frode alla legge, “usufruendo delle quali sia l’Erario che il giudice, eventualmente investito della questione, potrebbero servirsi in caso di determinazione di compensi che appaiano insoliti e sproporzionati, anche se nell’ipotesi di amministratori non soci, come sembrerebbe essere nel caso in esame, appare improbabile una distribuzione occulta di utili”.
Il costo o valore di acquisto delle azioni o quote ai fini del calcolo delle plusvalenze di natura finanziaria realizzate dai soggetti non imprenditori si determina ai sensi dell’art. 68 comma 6 del TUIR. Tale norma, al contrario del disposto dell’art. 94 del TUIR che disciplina il caso dei soggetti imprenditori, non prevede che il costo fiscale delle partecipazioni sia comprensivo anche dei versamenti a fondo perduto o in conto capitale e della rinuncia ai crediti vantati dai soci nei confronti della società. Tuttavia, non sarebbe comprensibile dal punto di vista sistematico una tale differenza tra le due fattispecie. La problematica, infatti, è stata superata in via interpretativa con la circ. Agenzia delle Entrate n. 52 del 10 dicembre 2004 (§ 3), secondo cui, anche ai fini delle disposizioni sul capital gain, il costo delle partecipazioni é sempre comprensivo dei versamenti in denaro o in natura, a fondo perduto o in conto capitale e della rinuncia ai crediti vantati nei confronti della società. Sul tema, si segnala comunque che, secondo la ris. Agenzia delle Entrate n. 41 del 5 aprile 2001, la rinuncia dei soci ai crediti vantati verso la società può rientrare nell’ambito delle operazioni elusive, nel caso in cui la rinuncia del credito configuri un risparmio di imposta realizzabile attraverso l’immediata deduzione fiscale, a titolo di minusvalenza su partecipazioni, dell’ammontare del credito rinunciato. Resta inteso che vi sono anche altri oneri che possono incrementare il costo delle partecipazioni in società di persone. Precisamente, esso deve essere aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione (vedasi istruzioni al modello UNICO PF). Con riferimento specifico alle partecipazioni in società di persone, il costo fiscalmente riconosciuto é aumentato o diminuito rispettivamente dei redditi e delle perdite fiscali imputati; esso, inoltre, é ridotto – sino a concorrenza degli utili imputati – in ragione degli utili effettivamente distribuiti (art. 68 comma 6 del TUIR). La vera problematica relativa all’individuazione del costo fiscale di una partecipazione in una società di persone si presenta quando la medesima adotta il regime contabile semplificato ex art. 18 del DPR 600/73. Infatti, a livello tecnico, è assai complicato ricostruire quali sono gli utili effettivamente distribuiti a causa della mancanza dei dati contabili. In merito, si ritiene che, pur considerando le difficoltà derivanti dalla mancanza di dati contabili, dovrebbe rimanere comunque applicabile quanto disposto dall’art. 68 comma 6 del TUIR. Ciò, però, deve presupporre la presenza di documentazione idonea a provare le distribuzioni. In mancanza, tutti gli utili dovrebbero considerarsi effettivamente distribuiti, con effetto quindi pari a zero sulla quantificazione del costo della partecipazione.
Il rifiuto di esibizione contemplato dagli artt. 32 comma 4 del DPR 600/73 e 52 comma 5 del DPR 633/72 opera anche nell’ipotesi in cui l’Ufficio, mediante questionario, domandi chiarimenti al contribuente nonché documentazione concernente, nella specie, una cessione di azienda. Questo é il principio enunciato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 21665 del 22 ottobre 2010, ove i giudici hanno, in sostanza, confermato il dato normativo, che, almeno a prima vista, non dovrebbe necessitare di particolari operazioni interpretative. Di per sé, la pronuncia non introduce un principio nuovo, visto che, come prevede la norma, se l’Agenzia delle Entrate chiede determinati documenti (tramite questionario o in altra maniera), e il contribuente, senza giustificato motivo, non ottempera, oltre alle sanzioni amministrative, scatta la c.d. “sterilizzazione”, consistente nell’inutilizzabilità dei suddetti documenti nella successiva fase contenziosa. Tuttavia, il tema del c.d. “rifiuto di esibizione”, come si evince da precedenti sentenze del Supremo Collegio, é nient’altro che semplice. Prima di tutto, la disposizione é contenuta sia nel DPR 600/73 (art. 32 comma 4), nell’articolo relativo ai poteri degli uffici, sia nel DPR 633/72 (art. 52 comma 5), nell’articolo su accessi, ispezioni e verifiche. Poi, l’art. 33 del 600 espressamente prevede che per gli accessi, ai fini delle imposte sui redditi, si applica l’art. 52 del DPR 633/72. Ciò detto, le due norme ovviamente non coincidono, perché nel DPR 600/73 si afferma che “le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio” non possono essere usati nel processo, e che di ciò i verificatori devono informare il contribuente. Dal canto suo, il DPR 633/72 stabilisce che “i libri, i registri, scritture e documenti di cui é rifiutata l’esibizione” non possono essere usati nel processo, e che per rifiuto di esibizione si intende anche la dichiarazione di non possedere libri o registri. Da qui enormi problemi, analizzati anche di recente, sull’elemento soggettivo necessario per configurare il rifiuto di esibizione (per Cass. 30 dicembre 2009 n. 28049, nel caso delle verifiche “a tavolino” – art. 32 del DPR 600/73 – sarebbe sufficiente una condotta colposa, a differenza dei rifiuti che si pongono in essere in occasione delle verifiche sostanziali, ove sarebbe necessario l’elemento intenzionale; per Cass. 7269/2009, anche per l’art. 52 del 633 sarebbe sufficiente la colpa, mentre per la famosa pronuncia delle Sezioni Unite 45 del 2000 occorrerebbe il dolo). Insomma, sarebbe necessario, prima, verificare se il rifiuto si é concretizzato in indagini “a tavolino” o nelle more di “controlli sostanziali”, poi vagliare se si rientra nel dolo o nella colpa e, infine, vedere se può sussistere la preclusione probatoria. Certo, davanti ad un intreccio di norme strutturato in tal modo, non stupisce che la giurisprudenza abbia adottato soluzioni discordanti, arrivando addirittura a sostenere che l’art. 52 non si applica alle imposte sui redditi (Cass. 8 agosto 2003 n. 11981). Tanto premesso, ma il punto non pare essere ancora stato analizzato dalla giurisprudenza, potrebbe sostenersi che l’effetto preclusivo non debba applicarsi ove le richieste dell’Ufficio riguardino documenti già in suo possesso, in ottemperanza a quanto imposto dall’art. 6 dello Statuto dei diritti del Contribuente.
Diramata la circolare 53/2010 dell’Agenzia delle Entrate a commento dei nuovi obblighi di comunicazione delle operazioni con i paradisi fiscali introdotti dall’art. 1 del Decreto Legge 40/2010. L’emanazione della circolare permette di ottemperare al nuovo obbligo in un quadro maggiormente certo, visti i numerosi dubbi sollevati su aspetti qualificanti della nuova disciplina; ad essa si aggiunge il rilevante contributo di Assonime che, sempre ieri, ha pubblicato la circolare n. 32/2010, la quale fornisce un contributo interpretativo in larga parte coerente con quello dell’Agenzia delle Entrate, lasciando tuttavia aperte una serie di problematiche sulla quale l’Agenzia si è, invece, pronunciata in modo espresso. Per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti tenuti al nuovo obbligo di comunicazione, l’Agenzia delle Entrate, dopo aver ricordato che esso compete a tutti i “soggetti passivi” IVA (compresi i soggetti non residenti identificati direttamente, con rappresentante o con stabile organizzazione), esclude in modo opportuno i contribuenti minimi e i soggetti che hanno optato per il regime delle nuove iniziative produttive previsto dall’art. 13 della L. 388/2000, in virtù dell’assenza di obblighi di registrazione delle fatture che caratterizzano tali regimi. Per quanto riguarda gli enti non commerciali, invece, gli obblighi di segnalazione sussistono solo quando le operazioni sono riferite all’attività commerciale, e non a quella istituzionale. Va nel senso della semplificazione la dibattuta questione dell’esatta individuazione dei paradisi fiscali: sono tali gli Stati o territori indicati anche solo in uno dei decreti ministeriali che contengono le liste nere, e senza tenere conto delle limitazioni previste a seconda della forma giuridica o di eventuali regimi agevolati. Da accogliere con sfavore é, invece, l’indicazione dell’Agenzia delle Entrate secondo cui devono essere segnalate le importazioni, visto il richiamo costante espresso dai commentatori negli ultimi mesi ad una possibile esclusione fondata sia sul dato formale, sia sulla considerazione per cui si tratta di operazioni con rischio frode di fatto assente (le stesse considerazioni, peraltro, sono contenute nella circolare Assonime 32/2010). Si tratta di un’estensione che appesantirà di molto gli obblighi in molti contesti societari, con un effetto anche sulle periodicità, che si basano sul volume di operazioni effettuate. Agevolazioni, invece, per banche e assicurazioni: l’Agenzia delle Entrate ha, infatti, confermato l’interpretazione delle circolari ABI (e ripresa ieri dalla stessa Assonime) secondo cui, in caso di dispensa ex art. 36-bis del DPR 633/72, non vi é obbligo di comunicare le operazioni passive per le quali è stata applicata l’IVA, in quanto indetraibile. Per quanto riguarda il criterio con il quale imputare al mese o al trimestre le operazioni, l’Agenzia precisa che esso é rappresentato, in linea generale, dalla data di registrazione della fattura; per le prestazioni di servizi extraterritoriali si deve, invece, fare riferimento al momento di registrazione dell’operazione nelle scritture contabili o, in mancanza, a quello di pagamento. Ai fini dell’obbligo di comunicazione, è sufficiente che l’operatore economico abbia sede, residenza o domicilio in un Paese contemplato da una sola delle due liste citate dalla norma (DM 4 maggio 1999 e DM 21 novembre 2001), indipendentemente dalla natura giuridica e dall’attività svolta da tale operatore. L’Agenzia ha altresì precisato che non rilevano i limiti soggettivi e oggettivi previsti dagli articoli 2 e 3 del DM 21 novembre 2001. Ad esempio, l’art. 2 contempla gli Stati che, pur essendo paradisi fiscali, prevedono alcune fattispecie a tassazione ordinaria e che, pertanto, sono escluse dall’ambito applicativo del provvedimento. L’impostazione adottata dall’Agenzia delle Entrate, sebbene dispensi l’operatore da alcune verifiche in ordine alla natura giuridica della controparte, ha come conseguenza alquanto eclatante di ricomprendere nell’obbligo di comunicazione tutte le operazioni effettuate con il Lussemburgo che, oltre a essere Paese dell’Unione europea, è paradiso fiscale limitatamente alle holding del 1929. La circolare precisa che Cipro, Malta e la Corea del Sud non sono più paesi a regime fiscale privilegiato.
Sul funzionamento del sistema bancario e fiscale nei paesi "black list" si é espressa a più riprese anche l'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). La ragione principale che spinge a creare una società o ad aprire un conto in una banca di un paradiso fiscale é la tassazione più conveniente rispetto al proprio paese. E soprattutto la segretezza delle informazioni su beneficiari e oparazioni svolte. Una caratteristica quest'ultima che può essere garantita in tre modi secondo l'Ocse. Devono esserci una legislazione poco trasparente e pratiche amministrative che ostacolino lo scambio di informazioni con le autorità dei paesi stranieri. I "tax heaven" poi non richiedono espressamente alle società estere che ospitano, di dimostrare che la propria attività si svolge nel paese. I paradisi fiscali sono quasi tutti paesi offshore, ma non é sempre vero il contrario. Il Fondo monetario internazionale definisce offshore (letteramente oltremare) un paese in cui la maggior parte delle attività finanziarie interessa società straniere. Si tratta di un grosso calderone di cui fanno parte tanti paesi come la Svizzera, Singapore, ma anche Dublino e Londra, dove molte persone benestanti stabiliscono la propria residenza per pagare meno tasse (lo ha fatto Valentino Rossi salvo poi essere pizzicato dal Fisco italiano). La lotta ai paradisi fiscali ha subìto un'accelerazione negli ultimi anni per effetto della crisi che ha svuotato le casse dei grandi paesi occidentali, costretti a varare colossali piani di stimolo all'economia e miliardari salvataggi bancari. Il passo più importante è stato fatto al G20 di Londra del 2009, nel corso del quale è stato dato un forte incarico all'Ocse. Il 2 aprile dell'anno scorso l'organizzazione ha pubblicato una black list, dei paesi non collaborativi sul fronte dello scambio di informazioni di cui facevano parte Costa Rica Malesia, Filippine e Uruguay. Un gruppo molto più ampio di paesi, che comprendeva Svizzera, Austria e Belgio invece era stato inserito nella cosiddetta lista grigia. Di questa facevano parte quei paesi che, pur essendosi impegnati ufficialmente ad adeguarsi agli standard internazionali di trasparenza, non avevano ancora messo in pratica misure concrete. Diversi paesi di questa lista grigia, complice la pressione internazionale, hanno modificato la propria legislazione (la Svizzera ha rivisto le sue norme sul segreto bancario) oppure hanno siglato diversi accordi bilaterali per lo scambio di informazioni. Così nel giro di un paio di anni la lista nera è scomparsa e quella grigia si è svuotata. La pattuglia degli osservati speciali si è ridotta a Belize, Liberia, Monserrat, Nauru, Niue, Panama, Vanatu, Costa Rica, Guatemala e Uruguay. Questo vuol dire che Antigua (dove Berlusconi ha fatto consistenti investimenti immobiliari) o Santa Lucia (dove hanno sede le società proprietari della famosa casa di Montecarlo, per cui Gianfranco Fini è stato attaccato dai giornali vicini al premier) non sono più dei paradisi fiscali? Dall'Ocse spiegano che non è così. L'uscita dalla lista grigia quindi è una sorta di promozione "con riserva" per molti paesi che pertanto restano dei sorvegliati speciali da parte del Global Forum on trasparency, il soggetto che, sotto il cappello dell'Ocse, si occupa della lotta ai paradisi fiscali. La promozione da parte dell'Ocse è vincolata alla stipula di almeno 12 accordi bilaterali per lo scambio di informazioni. Questo fa capire quanto sia relativa. Un paradiso fiscale è tale a seconda dello stato in cui ci troviamo e se sono stati stipulati accordi bilaterali. Gran parte dei paesi ha quindi una propria black list. In Italia attualmente ce ne sono in vigore tre: quella del 1999 sulla presunzione di residenza, quella del 2001 relativo alla normativa Cfc - Controlled foreign company - e infine la black list del 23 gennaio 2002 sull'indeducibilità di costi. In questi giorni c'è stata molta attesa per due nuove liste, previste dall'articolo 36 del decreto legge 78 del 2010, che riguardano le fiduciarie (quelle dei paesi a rischio non potranno operare nel nostro paese) e gli appalti internazionali. Secondo indiscrezioni, in questi elenchi potrebbero esserci anche Svizzera e San Marino. Insomma anche se la "grey list" si è molto assottigliata, la guerra ai paradisi fiscali è ben lontana dall'essere vinta. Nel report recentemente pubblicato sul principato di Monaco, uscito dalla lista grigia, il Global forum on trasparency segnala ad esempio come il paese non abbia ancora stipulato un accordo bilaterale con la vicina Italia e non abbia ancora adottato norme trasparenti per lo scambio di informazioni per enti non commerciali come trust e fondazioni. Se gran parte dei paradisi fiscali possono dire di aver fatto un passo avanti sul fronte della trasparenza poi, ce ne sono altri, come il Botswana, che stanno di fatto regredendo. Nel recente report sul paese africano, che non faceva parte della lista grigia e nera dell'Ocse, il Global Forum on trasparency condanna l'opacità della sua legislazione. Le norme sul segreto bancario per esempio permettono infatti lo scambio di informazioni solo in caso di un processo civile o penale avviato nel paese africano, un fatto che rende impossibili rogatorie internazionali. Stilare una lista completa ed esaustiva dei paradisi fiscali non é un'operazione semplice perché non tutti hanno lo stesso grado di opacità. Allo stesso tempo non tutti hanno mostrato lo stesso impegno e collaborazione con le autorità internazionali.
Con un comunicato stampa congiunto, CNDCEC, Agenzia per le Onlus e OIC hanno annunciato ieri, 19 ottobre 2010, la pubblicazione del “Quadro sistematico per la preparazione e la presentazione del bilancio degli enti non profit”. Con tale documento (che si affianca alle “Linee guida” elaborate nel 2008 dall’Agenzia per le Onlus) prende finalmente il via la definizione dei Principi contabili per gli enti non profit (ENP). Il documento sarà sottoposto ad una consultazione pubblica che si concluderà il 15 gennaio 2011 e costituirà la base per l’elaborazione dei successivi principi, dedicati alla contabilizzazione delle poste di bilancio che assumono maggiore significatività per il settore non profit, come per esempio le erogazioni liberali e le immobilizzazioni. Con specifico riferimento all’ambito di applicazione, viene chiarito che, in termini generali, con il termine “enti non profit” possono identificarsi tutte le organizzazioni la cui attività non è finalizzata a realizzare un lucro soggettivo od oggettivo e che operano in campi di attività di natura sociale e di tipo solidaristico, quali l’assistenza sociale, la tutela dei soggetti svantaggiati, l’istruzione, la promozione di attività artistico-culturale, la ricerca scientifica, l’erogazione di servizi sociali e religiosi, la promozione di forme di sviluppo compatibili con il rispetto dell’ambiente. Il documento illustra, poi, le clausole generali (o finalità) che occorre tenere in considerazione nella preparazione del bilancio, ossia chiarezza, veridicità, correttezza, ricerca di un elevato livello di responsabilizzazione (accountability), e i principi generali (o postulati) che sottendono la redazione del bilancio, individuabili essenzialmente in comprensibilità, imparzialità (neutralità), significatività, prudenza, prevalenza della sostanza sulla forma, comparabilità e coerenza, verificabilità dell’informazione, annualità, costo. Le indicazioni maggiormente interessanti sembrano essere, però, ad una prima lettura, quelle che ineriscono al principio della competenza economica, il quale, anche laddove non siano presenti norme cogenti, dovrebbe comunque guidare la redazione dei bilanci degli ENP. Il Principio contabile evidenzia come, con riferimento agli enti operanti nel cosiddetto terzo settore, il principio della competenza economica assuma una connotazione più estesa di quanto non avvenga nelle aziende lucrative. Di norma, infatti, i proventi degli ENP non sono correlati alle attività di carattere istituzionale da questi svolte secondo una logica sinallagmatica, come invece solitamente avviene nella prassi delle imprese. Secondo il Principio contabile, quindi, donazioni, contributi ed altri proventi di natura non corrispettiva devono essere iscritti nel rendiconto della gestione dell’esercizio in cui questi sono riscossi, ovvero nell’esercizio in cui il titolo alla riscossione ha carattere giuridico. Qualora sia ravvisabile una correlazione tra proventi - comunque di natura non corrispettiva (donazioni e contributi) - e specifiche attività dell’ENP, questi possono essere correlati con gli oneri dell’esercizio. Infine, nonostante il principio di competenza sia la tecnica di rilevazione più adatta per fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione aziendale degli ENP, il principio contabile ritiene comunque ammissibile l’utilizzo, da parte degli ENP di minori dimensioni (contraddistinti da strutture amministrative normalmente esigue), di un sistema di rilevazione articolato sulle entrate e le uscite di cassa. Tali flussi, rappresentativi degli effettivi introiti ed esborsi che l’ente ha effettuato nel corso dell’esercizio interessato, si sostanziano in un incremento o in un decremento della cassa e dei depositi a vista a disposizione dell’ente.
Per vincere la presunzione dell’art. 32, comma 2 del DPR 600/73, è onere del contribuente dimostrare che i versamenti in conto corrente sono stati registrati in contabilità e i prelevamenti sono stati utilizzati per il pagamento di individuati soggetti beneficiari degli stessi. E' il principio ribadito dalla sentenza n. 20735 della sezione tributaria della Cassazione, depositata ieri. In particolare i giudici di legittimità, confermando un orientamento ormai consolidato, hanno ribadito che i versamenti e i prelevamenti, risultanti da un’indagine sui conti correnti, se non sono giustificati dal contribuente sono “automaticamente” considerati ricavi o compensi non dichiarati in virtù della presunzione contenuta nel richiamato art. 32. Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda un “contribuente” che, oltre a non aver presentato dichiarazioni, era anche privo di contabilità: di qui la verifica bancaria e la conseguente ricostruzione induttiva del reddito quantificato come mera sommatoria tra versamenti e prelevamenti risultanti dai conti correnti. In sede giudiziale, il contribuente si è difeso sostenendo che, ai fini IVA, l’ammontare complessivo dei prelevamenti era stato assimilato ad acquisti “in nero”, con la conseguente contestazione di omessa fatturazione. Come dire, è “principio comune” che per la produzione di ricavi o compensi è necessario il sostenimento di costi. Impostazione peraltro condivisibile, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale, che ha affermato il principio secondo cui “in caso di accertamento induttivo, si deve tenere conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati” (sentenza 8 giugno 2005 n. 225). Nonostante ciò, la giurisprudenza di legittimità ritiene che “l’art. 32 impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; posto che, in materia, sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale, né è possibile ricorrere all’equità” (Cass. sentenza 15 gennaio 2009 n. 863). Analogo il pensiero dell’Agenzia delle Entrate, laddove ritiene che “la disposizione intende procedimentalizzare l’analisi, da parte dell’ufficio finanziario, della maggiore capacità di spesa non giustificata dal contribuente, e correlare tale maggiore capacità di spesa con le ulteriori operazioni attive effettuate presuntivamente “in nero” (circolare 19 ottobre 2006 n. 32/E). Sembrano però violati i principi di capacità contributiva e ragionevolezza come, perlatro, osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza citata, laddove pur riconoscendo che “non è arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa”, per giungere alla quantificazione del reddito imponibile è necessario dedurre i relativi costi. La distonia delle conclusioni dei giudici di legittimità è ravvisabile anche con riferimento al metodo induttivo di ricostruzione del reddito, in base al quale ciò che deve essere accertato, e dunque assoggettato a tassazione, è il “reddito imponibile” individuabile appunto tramite il raffronto tra ricavi presunti e i costi necessari alla loro produzione. Non va peraltro sottaciuto che la presunzione prelevamenti=ricavi potrebbe essere giustificata come una sanzione impropria. Ma se così fosse si creerebbe una situazione “paradossale”: una sanzione propria applicata ad una sanzione impropria; infatti quest’ultima consisterebbe nel considerare reddito i prelevamenti, dando luogo ad un maggior debito d’imposta, sul quale poi commisurare la sanzione amministrativa tipica.
In risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-03497 (resa il 30 settembre 2010), il sottosegretario al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Sonia Viale, ha confermato che, nell’anno in cui avviene il passaggio dal regime ordinario di tassazione a quello dei minimi (art. 1 commi 96-117 della L. 23 dicembre 2007 n. 244), l’acconto IRPEF è calcolato senza tener conto delle disposizioni dettate con riferimento al regime agevolato. Inoltre, conformemente a quanto precisato dalla circ. Agenzia delle Entrate 26 febbraio 2008 n. 13, è in ogni caso esclusa la facoltà di avvalersi del c.d. “metodo previsionale”. In pratica, il contribuente in possesso dei previsti requisiti, se ha optato per l’applicazione del regime dei minimi a partire dal 2010, è comunque tenuto al versamento dell’acconto IRPEF 2010 sulla base dell’imposta indicata nel rigo RN34 del modello UNICO 2010 PF. Pertanto, anche qualora nel 2010 preveda di non conseguire ulteriori redditi rispetto a quello d’impresa o di lavoro autonomo assoggettato ad imposta sostitutiva e, dunque, di non risultare titolare di un reddito complessivo da assoggettare ad IRPEF, è comunque tenuto alla corresponsione dell’acconto IRPEF sulla base delle risultanze del modello UNICO 2010, senza poter ridurre, anche fino ad annullare, l’acconto dovuto. Come confermato dalla risposta in esame, l’omesso o insufficiente versamento dell’acconto IRPEF, conseguente ad un metodo di determinazione diverso da quello storico, non esenta il contribuente dall’applicazione:
- della sanzione amministrativa pari al 30% dell’importo non versato o versato in ritardo;
- degli interessi di mora, stabiliti nella misura annua del 3,5%, in caso di pagamento in seguito alla notifica del c.d. “avviso bonario” (artt. 2 e 3 del DLgs. 462/97), o del 4%, per i ruoli resi esecutivi dal 1° ottobre 2009, se gli importi non pagati vengono iscritti a ruolo (art. 20 del DPR 602/73).
Quindi, ad esempio, in presenza di altri redditi relativi al 2010 non assoggettati ad imposta sostitutiva, detto acconto andrà scomputato dall’IRPEF dovuta all’interno del quadro RN del modello UNICO 2011, secondo le modalità ordinarie. Nell’ipotesi in cui emerga un credito IRPEF, questo sarà indicato nel quadro RX, al fine di poter:
- essere compensato nel modello F24 con l’imposta sostitutiva in esame o con altri debiti fiscali e contributivi;
- chiesto a rimborso.
Qualora il contribuente non consegua ulteriori redditi nel corso del periodo d’imposta 2010, il quadro RN dovrebbe evidenziare soltanto il credito corrispondente all’ammontare dell’acconto IRPEF versato, che potrà poi essere compensato nel modello F24 o chiesto a rimborso. In tale ultima ipotesi, la risposta in commento segnala che “l’Agenzia delle Entrate è impegnata ad abbreviare i tempi di erogazione dei rimborsi per tutti i contribuenti”. Infine, si ricorda che i contribuenti minimi, a partire dal secondo anno di applicazione del regime, sono tenuti a pagare l’acconto della relativa imposta sostitutiva. Detto obbligo non sussiste, invece, nel primo anno di adesione al regime, per via dell’assenza di un’imposta sostitutiva “storica“ di riferimento (per un riepilogo delle modalità e dei termini di versamento, si veda “Niente proroga per i contribuenti minimi” del 12 giugno 2010).
Ritenuta del 10% sui bonifici: problematiche emergenti | |
Decorrenza | L'obbligo scatta dall'1/7/2010 ma si è ancora in attesa della emanazione del provvedimento dirigenziale che individui tipologie e le modalità di esecuzione degli adempimenti |
Ambito | Bonifici effettuati dai contribuenti necessari per ottenere la detrazione degli oneri detraibili e deducibili, comprese donazioni e erogazioni liberali a favore di onlus, spese mediche e quant'altro |
Gettito | Il servizio del bilancio del Senato ritiene sovrastimato e non motivato il gettito previsionale, per effetto della quantificazione degli incrementi nella misura del 20% rispetto agli importi dell'anno 2012 dell'agevolazione per il bonus sulle ristrutturazioni edilizie |
Evasione | La disposizione determina la riduzione delle liquidità delle imprese committenti o destinatarie delle erogazioni che può ridurre taluni soggetti a entrate (o rientrate) in attività sommerse |
Natura | La ritenuta ha la natura di acconto delle imposte sui redditi e non è un vero e proprio incremento di gettito, ma una mera anticipazione dell'esborso da parte del contribuente |
Rivalsa | Mancano i chiarimenti relativi alla possibilità che il beneficiario del pagamento soggetto a ritenuta possa rivalersi solo al momento della determinazione del proprio reddito o anche in compensazione |
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha definito le modalità e i termini di effettuazione della comunicazione telematica all’Agenzia delle Entrate delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate e ricevute (dal prossimo 1° luglio 2010) nei confronti di operatori economici aventi sede, residenza o domicilio in Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. black-list). Si tratta di un intervento volto a limitare le possibilità di evasione attraverso l’utilizzo di strutture localizzate in paesi a bassa fiscalità, o che comunque non garantiscono un adeguato scambio di informazioni con le amministrazioni finanziarie di altri stati.I Paesi black-list sono quelli individuati dai decreti 4 maggio 1999 e 21 novembre 2001. Il modello con le relative istruzioni per la comunicazione sarà approvato dall’Agenzia delle Entrate entro il prossimo 29 maggio 2010. I dati del soggetto estero che dovranno essere comunicati sono, in ogni caso, già delineati dal decreto in esame: trattasi del codice fiscale (o identificativo), della denominazione, del domicilio fiscale, dell’importo delle operazioni effettuate nel periodo di riferimento e dell’imposta sul valore aggiunto riferita alle operazioni imponibili. I periodi di riferimento sono individuati nel mese o nel trimestre, secondo gli stessi criteri già previsti per la periodicità delle comunicazioni dei modelli Intrastat. Le comunicazioni dovranno essere inviate entro l’ultimo giorno del mese successivo al periodo di riferimento, quindi il primo invio scadrà il prossimo 31 agosto 2010 per i contribuenti mensili e il prossimo 31 ottobre 2010 per i contribuenti trimestrali.